Cass.Pen. Sez. III n. 33408 del 31 luglio 2023 (UP 13 apr 2023)
Pres. Ramacci Rel. Aceto Ric. Novelli ed altro
Urbanistica. Natura interventi precari
La natura “precaria” dell’opera non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per realizzarla, né dalla sua facile rimovibilità, bensì dalla natura delle esigenze che l’opera stessa intende soddisfare. Ciò è chiaramente evincibile dal tenore testuale degli artt. 3, comma 1, lett. e.5, e 6, comma 1, lett. e-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, nei quali si fa esplicito riferimento alle «esigenze meramente temporanee» (art. 3) e alle «esigenze contingenti e temporanee» (art. 6). La natura temporanea e contingente delle esigenze non è di per sé sufficiente a sottrarre l’opera al regime “concessorio” se la stessa non sia comunque di facile amovibilità. Lo stabile e permanente collegamento al terreno esclude sempre la natura precaria dell’opera; lo si evince chiaramente dal fatto che anche le “unità abitative mobili”, per non essere considerate “nuove costruzioni”, devono comunque essere dotate di meccanismi di rotazione funzionanti e non devono essere collegate al terreno in maniera permanente (art. 3, lett. e.5, seconda parte). Il che si spiega con il fatto che le opere destinate a soddisfare esigenze non temporanee e quelle comunque stabilmente collegate al suolo condividono con gli “interventi di nuova costruzione” la loro attitudine alla trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in via permanente. Prova ne sia il fatto che le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, sono soggette ad attività edilizia libera a condizione che siano tempestivamente rimosse al cessare dell’esigenza: l’opera “precaria” non rimossa è una “nuova costruzione” e necessita, in quanto tale, di permesso di costruire.
RITENUTO IN FATTO
1. I sigg.ri Riccardo Novelli e Antonina Porcaro ricorrono per l’annullamento della sentenza del 22 giugno 2022 della Corte di appello di Firenze che, in riforma della sentenza del 20 luglio 2021 del Tribunale di Lucca, pronunciata all’esito di giudizio ordinario e da loro impugnata, li ha assolti dal reato di cui all’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, perché non punibili ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., e ha revocato l’ordine di demolizione dell’immobile oggetto di imputazione.
1.1. Con il primo motivo deducono l’inosservanza e/o l’erronea applicazione degli artt. 3, 6, comma 1, 10 e 44, d.P.R. n. 380 del 2001, e 181, d.lgs. n. 42 del 2004, nonché degli artt. 125, 191, 192, 530, 533 e 546 cod. proc. pen.
L’opera in contestazione, affermano, è riconducibile alle cd. “strutture edilizie leggere” (pergotende, verande, pergolati, gazebo) descritte dall’allegato A all’intesa del 20 ottobre 2016 tra Governo, Regioni e Comuni concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo ed inserita nel glossario per l’edilizia libera allegato al D.M. Infrastrutture e Trasporti del 2 marzo 2018. Si tratta, affermano, di strutture qualificabili, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, come arredo esterno, di riparo, di protezione, funzionali alla migliore fruizione dello spazio esterno al locale cui accedono, riconducibili agli interventi manutentivi liberi, non subordinati ad alcun titolo abilitativo. Il quadro giuridico è definito, inoltre, dall’art. 140, legge reg. Toscana n. 65 del 2014, dall’art. 7 delle NTA (modificate dalla delibera n. 40/2015 con cui il Comune aveva dato attuazione all’art. 140, legge reg. Toscana, n. 65, cit.), dal regolamento edilizio e dalle delibere consiliari n. 8/2016 e 42/2018.
Dagli atti, proseguono, risulta che gli elementi posti a copertura e a parziale chiusura perimetrale dell'area non sono stabili e permanenti, trattandosi di opere (pedana mobile, tenda ombra-sole retrattile e paraventi in vetro) con funzione accessoria e di arredo dello spazio esterno, oltre ad essere precarie in quanto facilmente amovibili. Dato che la struttura non configura uno spazio chiuso, il suo insieme non è qualificabile come organismo edilizio che ha creato un nuovo volume, motivo per il quale i giudici di merito sono incorsi nelle dedotte violazioni di legge.
I vetri installati nel mese di agosto 2017 non chiudono la veranda, circostanza data per pacifica proprio dai medesimi Giudici di merito i quali ammettono che residua un spazio aperto nella parte laterale/superiore su entrambi i lati e nella parte prospiciente. Ed è solo dall'avere, erroneamente, ricondotto tale struttura, come detto aperta, alla tipologia delle strutture invece chiuse che è derivata la affermazione della loro responsabilità; decisione che, perciò, si basa su un presupposto errato. In realtà, l'opera presenta una copertura retrattile - la tenda - e una chiusura perimetrale non fissa ma amovibile e comunque che non giunge fino all'altezza della copertura per tutto il perimetro (caratteristiche che nessuno ha messo in dubbio nel corso del giudizio, ma, anzi, sono state richiamate da entrambe le motivazioni delle pronunce di merito). Da qui, concludono, l’illegittimità della pronuncia di condanna che postula l'illegittima assimilazione di cui sopra.
Sul punto, proseguono, le sentenze dei Giudici di merito sono contraddittorie; delle due l'una: o la veranda è stata "chiusa" oppure, se è stato lasciato «spazio», i nuovi vetri installati non hanno comportato la completa "tamponatura". Su tale aspetto vi è contraddizione perché, sostengono, entrambi i Giudici prima affermano che i vetri non chiudono la struttura e poi che, la struttura è stata chiusa e forma un volume rilevante (così la sentenza del Tribunale, condivisa sul punto dalla Corte di appello). Non è sufficiente, per superare tale contraddizione, il ricorso alle parole: «in sostanza», come se ciò soddisfacesse la necessità di indicare gli elementi a sostegno del ritenuto abuso. In altre parole, nei gradi di merito è stato utilizzato un criterio di valutazione (nel caso concreto relativo alla realizzazione di un volume rilevante sotto il profilo edilizio) rimesso alla mera discrezionalità del giudice, il quale determina a suo piacere quale sia l'altezza dei vetri idonea a creare - volendo esprimersi con le parole dell'imputazione - una "tamponatura" che comporti la "chiusura" della struttura, seppure la struttura in concreto non risulti oggettivamente "chiusa". La conseguenza di un simile ragionamento è quella di basare la condanna del soggetto che ha eseguito l'intervento su di un criterio non predeterminato e non rinvenibile in alcuna norma di legge, del tutto soggettivo e, quindi, autoreferenziale.
Sotto altro punto di vista, i vizi dedotti emergono nei passaggi delle pronunce in cui i giudici toscani più che ritenere configurato il reato edilizio in virtù della chiusura totale della struttura - chiusura in effetti mai avvenuta - lo ritengono consumato confrontando l'altezza dei vetri nell'anno 2017 (dopo l’intervento degli imputati) con quella dei vetri precedenti, ritenendo quelli nuovi "troppo alti".
Ora, non solo le fotografie prodotte mostrano chiaramente che i vetri non sono di altezza tale da formare un volume chiuso, ma anche i testimoni escussi hanno dichiarato che rimangono più bassi rispetto al "tetto" della struttura e che rimane spazio in alto, seppure minore rispetto a quello preesistente. Perciò il giudice di merito è caduto nel vizio dedotto perché l'affermazione esplicativa sostenuta è incompatibile con la corretta informazione esistente sul punto in discussione negli atti processuali. Insomma, emergono criticità nelle valutazioni contenute nella sentenza impugnata, che rendono il ragionamento ricostruttivo privo dei necessari requisiti di ragionevolezza, completezza, congruità e plausibilità rispetto alla decisione di responsabilità.
I vizi di contraddittorietà, aggiungono, emergono pure dal confronto tra l'assunto dei Giudici di merito e i contenuti della deposizione dell’ing. Mazzei, dirigente dell'ufficio edilizia del Comune di Camaiore che, senza mezzi termini, ha escluso che la veranda in questione sia un manufatto con caratteristiche tali da renderlo alieno alle disposizioni sull'edilizia libera, o comunque da rendere necessario il permesso di costruire, ed ha espressamente escluso che la veranda, strutturalmente e per le caratteristiche che la contraddistinguono, fosse diversa da quella che era già presente in loco da anni o, comunque, fosse tanto diversa da rendere necessari i titoli invece postulati dai giudici di merito. Lo stesso dirigente ha precisato, inoltre, che la struttura dovuta alle modifiche intervenute nell'agosto 2017 doveva essere sottoposta ad una verifica igienico-sanitaria (nel caso di specie eseguita con successo come risulta in atti) perché l'altezza dei vetri, alti poco più dei precedenti, inseriva l'opera in un contesto di maggiore attenzione verso tale unico profilo. Data tale premessa (assunta secondo il significato esplicito del dato istruttorio), la conclusione che pretende di qualificare l'intervento come opera che necessita del "permesso di costruire" è apodittica e comunque in contrasto con il significato informativo effettivo della deposizione del dirigente dell'ufficio edilizia del Comune.
I Giudici di merito hanno obliterato la deposizione dell'ing. Mazzei anche rispetto ad altra circostanza rilevante, evidenziata con l'atto di appello. Le dichiarazioni del testimone poggiano sui contenuti del regolamento edilizio e delle delibere consiliari sopra indicate le quali, tra l'altro, ammettono, in deroga alle previsioni di PRG, anche strutture di maggior portata rispetto a quella di cui si tratta e urbanisticamente rilevanti, ivi compresi «volumi chiusi e astrattamente climatizzabili» (dietro pagamento di un "contributo" pari a 100,00 €/mq), in «deroga agli indici di piano» (v. delibera n. 8/2016 punto 9.2). Sicché, anche a volere seguire il ragionamento che pretende di ricondurre la veranda ai «volumi chiusi», la conclusione di responsabilità assunta dai giudici di merito è destituita di ogni fondamento, perché la disciplina di assenso da applicare a tali opere rimane la medesima utilizzata dagli imputati, perlomeno secondo quanto in vigore presso il Comune di Camaiore. Sennonché, il tema, posto dalla difesa, della compatibilità o meno dell'opera con tali contenuti emersi in istruttoria non è stato minimamente affrontato dai Giudici di merito che hanno evitato di confrontarsi con i dati appena evidenziati. Difatti, il Tribunale si è limitato a tacciare di infondatezza le affermazioni del dirigente del Comune e, quindi, a respingere la tesi difensiva, senza addurre alcuna spiegazione, salvo rifugiarsi nella presa di posizione che la struttura è un volume di rilevanza edilizia, come se tale aspetto risolvesse ogni questione sollevata, così utilizzando una mera asserzione, che è stata oggetto di critica con l'atto di appello.
Riflessioni alle quali, però, la Corte fiorentina da parte sua non ha fornito alcuna risposta, così incorrendo nell'omissione oggi evidenziata.
Risulta altresì violato l’art. 191 cod. proc. pen. poiché è stata utilizzata una prova in realtà mai acquisita in atti o, comunque, dai contenuti non corrispondenti a quelli pretesi, poiché i vetri installati dagli imputati non chiudono la struttura.
1.2. Con il secondo motivo deducono l’inosservanza o l’erronea applicazione di disposizioni di legge delle quali è necessario tenere conto nell'applicazione delle legge penale, nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, anche rispetto agli atti del procedimento, vizio che risulta dal testo del provvedimento impugnato, in relazione agli artt. 3, 6 comma 1, 10 e 44 d.P.R. n. 380 del 2001, e 181 comma 1-ter d.lgs. n. 42 del 2004, nonché agli artt. 125, 191, 192, 530, 533 e 546 cod. proc. pen.
Lamentano la disapplicazione dell’accertamento di conformità paesaggistica effettuata dal primo Giudice (con decisione condivisa dalla Corte di appello) sul presupposto dell'eccessiva altezza dei vetri laterali installati nella struttura rispetto a quella precedente. Poiché l’intervento rientra tra quelli indicati dall’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, disapplicando l'accertamento i Giudici di merito sono incorsi nella violazione dell'art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42 del 2004, che imponeva la declaratoria di estinzione del reato per intervenuto rilascio dell’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Lamentano, inoltre, che la Corte di appello non ha fornito alcuna risposta alla deduzione difensiva per la quale la modifica di qualche centimetro nell'altezza dei vetri non ha causato un impatto tale da giungere alla compromissione del bene tutelato dalla disposizione contestata, in una zona in cui esistono molte strutture analoghe a quella oggetto della presente vicenda processuale. Compromissione, peraltro, ritenuta sulla scorta di elementi (l'illuminazione, l'allaccio all'energia elettrica, la collocazione di arredi) che il Tribunale stesso, contraddittoriamente, ha ritenuto irrilevanti ai fini di tale giudizio, nel momento in cui ha ordinato la demolizione dell'opera con il ripristino dell'altezza precedente dei vetri. Per cui, prima si valorizza un complesso di caratteristiche della struttura al fine di ritenere compromesso il bene tutelato dalle disposizioni sull'ambiente e, poi, si afferma che per rendere l'opera conforme sotto tale profilo, a dispetto della disquisizione sull'installazione degli arredi e impianti di cui sopra, è sufficiente ridurre l'altezza dei vetri.
1.3. Con il terzo motivo deducono l’inosservanza o l’erronea applicazione di disposizioni di legge delle quali è necessario tenere conto nell'applicazione delle legge penale, di disposizioni processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, e la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, anche rispetto agli atti del procedimento, vizio che risulta dal testo del provvedimento impugnato, in relazione agli artt. 3, 6, comma 1, 10 e 44 d.P.R. n. 380 del 2001, 181 d.lgs. n. 42 del 2004, 5, 42 e 43 cod. pen., nonché agli artt. 125, 191, 192, 530, 533 e 546 cod. proc. pen.
Lamentano che la spiegazione fornita per avallare il necessario coefficiente psicologico dei reati è affidata a motivazione apparente che evita di confrontarsi con i motivi di appello che erano stati formulati valorizzando quanto affermato dal dirigente dell'ufficio edilizia secondo il quale: i) l'altezza dei vetri, per gli uffici comunali, non incide sul regime edilizio dell’opera, realizzabile comunque in regime di edilizia libera, anche se tale altezza determinasse la chiusura di un volume; ii) il regime autorizzatorio per tali strutture, chiuse o aperte che siano, rimane, tanto per il periodo precedente all'anno 2017, quanto per il periodo successivo stabilito conformemente alle previsioni del Regolamento Edilizio, alle delibere n. 8/2016 e n. 42/2018 e alle indicazioni fornite dal Comune di Camaiore agli utenti.
Il punto, proseguono, non riguardava la questione se gli imputati dovessero interrogarsi sulla tipologia di titolo necessario per effettuare un intervento astrattamente suscettibile di assumere rilevo sotto il profilo edilizio e/o paesaggistico e/o idraulico e così via (obbligo certamente esistente in capo a chiunque si appresti ad eseguire un intervento del genere, peraltro assolto dagli imputati), quanto, piuttosto, se gli imputati, nella situazione concreta in cui si trovavano, così come ricostruita in dibattimento, hanno potuto rappresentarsi la (o sono stati informati della) necessità di adottare il permesso di costruire (o titolo analogo) per realizzare gli interventi, o se, invece, come sostenuto dalla difesa, in virtù delle circostanze di fatto in cui si trovavano, delle disposizioni e dei provvedimenti comunali e dell'interpretazione di tale complesso di fonti seguita dagli uffici comunali, abbiano ritenuto di agire correttamente, senza alcuna colpa, perché per quanto a loro (e ai loro tecnici) conoscenza e per quanto a loro rappresentato, le modifiche concretamente apportate alla struttura la mantenevano sempre e comunque fuori dal perimetro di operatività del permesso di costruire. In ultima analisi, andava verificata la sussistenza della buona fede.
La Corte di appello ha rigettato il motivo senza scendere nell'analisi delle implicazioni che derivavano dalla deposizione del dirigente comunale e dei testimoni introdotti dalla difesa. La Corte di appello non ha spiegato perché, tanto i provvedimenti adottati dall'amministrazione comunale, quanto la peculiare condotta degli uffici del Comune di Camaiore, non hanno indotto negli imputati la ragionevole convinzione di agire in maniera irreprensibile e in conformità alle disposizioni in materia edilizia. Non vale ad assolvere l'onere motivazionale l'assunto per cui gli imputati avrebbero dovuto valutare la natura dei titoli necessari all'intervento, notazione che, oltre a entrare in contraddizione con i mezzi istruttori acquisiti agli atti, non coglie nel segno rispetto all'oggetto delle deduzioni difensive, in particolare sul valore che assumono sia la deposizione del dirigente, sia i contenuti delle delibere e provvedimenti comunali citati, ai fini della valutazione dell'esistenza del necessario profilo soggettivo, aspetti che il giudice fiorentino ha evitato di affrontare. L'assunto, secondo il quale gli imputati avrebbero dovuto informarsi, si risolve nella descrizione dell'obbligo di agire informati, ma non spiega quale sia, nel contesto concreto, la condotta afflitta da negligenza, imprudenza o imperizia loro attribuita.
In ogni caso, non sono state tratte le debite conseguenze dal comportamento dell'autorità pubblica, che ha tenuto una condotta tale da escludere l'elemento soggettivo dei reati contestati, stante l'esistenza del requisito della c.d. ignoranza inevitabile o, per meglio dire, della buona fede, in capo agli imputati i quali hanno seguito tutte le indicazioni delle autorità comunali che ai loro occhi apparivano quali punti di riferimento nel gestire la situazione concreta, indicazioni fornite fin dall'anno 2011 e poi negli anni 2016 e 2018, che non solo consentivano l'intervento ma lo escludevano (anche nella prospettiva accusatoria del "volume chiuso”) dal novero di quelli eseguibili previo rilascio di permesso di costruire.
Proprio prendendo le mosse dalle dichiarazioni dell'ing. Mazzei, la violazione di legge dedotta appare marcata: i contenuti della deposizione del testimone corrispondono necessariamente alle informazioni (tratte dal regolamento edilizio comunale, dai provvedimenti adottati dal Comune e dall'esperienza "sul campo" oltre che dalla natura delle autorizzazioni ottenute in precedenza per installare la struttura, cioè il Nulla Osta per installazione di Manufatti Temporanei Stagionali) che gli imputati (e i loro tecnici) avevano a disposizione in epoca pregressa all'intervento e che sono state fornite dagli organi amministrativi in merito alla fattibilità dell'intervento, alla natura del medesimo e ai "permessi" necessari per eseguirlo. Per il dirigente dell'ufficio edilizia del Comune, l’altezza dei vetri non assume alcuna rilevanza per qualificare la struttura nei termini invece ritenuti dai Giudici di merito perché, da un canto, la modifica effettuata alla struttura dagli imputati ha comportato esclusivamente una verifica igienico-sanitaria, eseguita con successo, perché l'altezza dei vetri, alti poco più dei precedenti, inseriva l'opera in un contesto di maggiore attenzione verso tale profilo, mentre, dall'altro lato, i contenuti delle delibere consiliari più volte citate ammettevano, in deroga alle previsioni di PRG, anche strutture di maggior portata rispetto a quella oggetto di segnalazione da parte della Polizia Municipale e urbanisticamente rilevanti, ivi compresi «volumi chiusi e astrattamente climatizzabili» (dietro pagamento di un "contributo" pari a 100,00 €/mq) in «deroga agli indici di piano» (v. delibera n. 8/2016 punto 9.2).
Se, allora, per il dirigente comunale "chiudere", anche nel senso inteso in sede di merito, la struttura non rende operative le disposizioni sul permesso di costruire e se, per il medesimo dirigente, la struttura è regolata dalle "fonti" normative comunali sopra citate, è vero allora che agli imputati non può essere attribuita alcuna responsabilità nell'avere seguito l'indicazione degli uffici comunali stessi.
Indicazioni, del resto, riscontrate da ben due delibere che specificano espressamente quale procedura seguire (vale a dire la CIL e la SCIA) e quali tipologie di strutture/verande, ivi compresi «volumi chiusi e astrattamente climatizzabili», possono essere assentite e realizzate ottenendo i titoli indicati dal regolamento edilizio e dalle delibere citate, certamente non costituiti dal permesso di costruire o altro titolo analogo.
Se così è, allora, anche a volere aderire alla tesi del Giudice di merito per cui la struttura costituisce un volume chiuso, alcun rimprovero può essere mosso agli imputati sotto il profilo soggettivo.
2. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta del 17 marzo 2023, ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi ed osservando che le doglianze attengono a profili meramente fattuali e sono volte a suggerire una diversa valutazione del materiale probatorio già adeguatamente vagliato da entrambi i giudici di merito con pronunce conformi
3. Il 23 marzo 2023 il difensore ha depositato memoria illustrativa dei motivi di ricorso deducendo, altresì, la prescrizione del reato maturata il 01/12/2022
4. Con note del 30 marzo 2023 i ricorrenti hanno ulteriormente ribadito le proprie ragioni insistendo per l’accoglimento dei ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili perché manifestamente infondati e proposti al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
2. I ricorrenti rispondono del reato loro ascritto perché, quali gestori dell’attività commerciale di pasticceria all’insegna «Buonamici», realizzavano, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e senza alcun titolo, una veranda esterna avente dimensioni in pianta di mt. 8,70 x 4,80, alta mt. 3,75 sulla facciata esterna del fabbricato e mt. 2,75 circa in prossimità di Viale Colombo, con tamponatura su tutti i lati del manufatto mediante l’apposizione di robuste lastre di vetro e dotata di una porta di accesso automatica con fotocellula, così aumentando i volumi dell’attività commerciale. Il fatto è contestato come accertato il 27/02/2018.
Dalla lettura della sentenza di primo grado il fatto è ricostruito nei termini che seguono:
2.1. a seguito di sopralluogo del 27/02/2018 era emerso che nell’area antistante l’esercizio commerciale dei ricorrenti era stata realizzata una «veranda/volume di servizio esclusivo all’attività commerciale»;
2.2. si trattava, in particolare, di un ampliamento dell’attività commerciale e di servizio esclusivo ai clienti del bar/pasticceria;
2.3. la struttura (delle dimensioni indicate nel capo di imputazione) era tamponata completamente in tutti i suoi lati mediante la apposizione di robuste lastre di vetro ed era stata dotata di una porta di accesso automatica con foto-cellula;
2.4. all’interno della sala, dotata di solaio di calpestio in legno, erano presenti circa quindici tavolini con relative sedie e poltroncine, un cd. “fungo” per scaldare l’ambiente interno ed un condizionatore d’aria per l’estate;
2.5. la struttura (dotata di copertura apribile) era già stata utilizzata a servizio del precedente esercizio commerciale ma aveva caratteristiche tutt’affatto diverse;
2.6. la precedente struttura era una veranda aperta, con dei vetri bassi tipo paravento che non impediva ai clienti di bagnarsi in caso di pioggia, laddove quella attuale era una struttura con infissi in vetro e metallo totalmente chiusa lateralmente («il teste di p.g. ha ribadito anche in udienza, evidenziando che il manufatto precedente "strutturalmente non era dichiarato come volume, era una veranda aperta con dei vetri bassi tipo paravento… era una veranda fatta in legno molto bassa con dei paraventi ondulati", aperta in sostanza, anche se la copertura - apribile all’occorrenza - era rimasta la stessa: "non era un volume nonostante che avesse questo tendone quaggiù retrattile. Contrariamente alla pasticceria Buonamici che ha infissi in vetro e metallo completamente tamponata lateralmente con una porta d'accesso a cellula e quindi molto più consistente… Contrariamente a quella veranda che c'era prima, dove pioveva anche senza pioggia c'era la possibilità che i clienti si bagnassero, in quella maniera lì giù assolutamente non si bagnava”»);
2.7. il 3 ottobre 2018 era stata presentata, con esito positivo, domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica per la sostituzione del frontalino della tenda della veranda, lo spostamento della rampa di accesso dalla posizione centrale ad una laterale e della relativa porta di ingresso al fondo, la sostituzione dei precedenti pannelli lignei perimetrali alla veranda con fioriere basse, sempre in legno, e sostituzione della vetrate sopra i pannelli con vetri nuovi e più alti;
2.8. il 20 dicembre 2018 era stata presentata una CIL (“tardiva”) per intervento di edilizia libera, che, nelle intenzioni degli istanti, avrebbe consentito il mantenimento della struttura per 180 giorni;
2.9. era stata altresì presentata una SCIA (“di stabilizzazione”) che, sempre nelle intenzioni dei ricorrenti, alla scadenza dei 180 giorni avrebbe consentito il mantenimento nel tempo e la stabilizzazione della struttura, trasformandola in un manufatto stabile;
2.10. il 14 gennaio 2019 il Comune di Camaiore aveva dichiarato la inammissibilità della CIL, in quanto le opere erano state realizzate nel 2017 ed erano oggetto di infrazione edilizia, ed aveva ordinato, per lo stesso motivo, di non iniziare o proseguire l’attività oggetto della SCIA.
2.11. Secondo il Tribunale, per l’opera oggetto di contestazione necessitava il permesso di costruire perché, pur essendo rimasta inalterata la struttura, nelle sue dimensioni esterne e nella intelaiatura, essa era stata modificata con la apposizione di vetri ben più alti, rispetto ai precedenti, che ne hanno determinato la chiusura. Non rileva, secondo il Tribunale, la circostanza che i (soli) vetri laterali abbiano lasciato comunque un piccolo spazio aperto in alto, lateralmente, tra la parte superiore dei vetri stessi e la copertura (una “fessura”, la definisce il primo Giudice). Ciò che rileva è che comunque è stato creato e chiuso un volume prima aperto, «destinato a durare e permanere tutto l’anno, anche con il riscaldamento invernale», è stata realizzata una struttura - afferma il Tribunale - «fissa e duratura, inamovibile», in ampliamento all’edificio di pasticceria e destinato alle consumazioni dei clienti. La diversità strutturale del manufatto rispetto alla sua consistenza originaria comporta l’impossibilità di applicare la CIL (tardiva) e la SCIA, comunicazioni e certificazioni nelle quali gli imputati avevano omesso di indicare che i vetri della parte frontale della struttura arrivavano fino alla copertura. Per questo motivo, prosegue il Tribunale, l’opera in questione non può essere considerata alla stregua di una “pergotenda”: «il manufatto realizzato/trasformato ad agosto/dicembre 2017 (…) consiste in una struttura fissa, in alluminio e vetro, nella sostanza completamente chiusa (ad eccezione di quella piccola fessura laterale di cui si è detto, tra il vetro orizzontale e la copertura obliqua) e dotata di illuminazione e impianto elettrico; caratteristiche che consentono indubbiamente un utilizzo più intenso, ne favoriscono cioè un uso più stabile e prolungato sia nel corso delle giornate sia nel corso delle stagioni, grazie alla illuminazione, alla possibilità di riscaldamento e all'integrale chiusura con strutture fisse, e, quindi, anche un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (…) Si tratta, invero, di una struttura destinata, per dimensioni e caratteristiche costruttive, a non contingenti esigenze di esercizio dell'attività commerciale che determina, indubbiamente, un incremento volumetrico».
Non rileva per il Tribunale la circostanza che il solaio di copertura fosse rimovibile; non si tratta, per le ragioni strutturali e funzionali appena indicate, di una veranda o di un “dehor”: «la struttura è di fatto tutta chiusa, è un vero e proprio volume, con caratteristiche di gran lunga differenti rispetto a quelle richieste per delimitare lo spazio esterno di un locale ed assicurare la sicurezza e l'incolumità delle persone, costituendo, in buona sostanza, non un dehor, e, cioè, uno spazio esterno ad un pubblico esercizio attrezzato con arredi, bensì una nuova volumetria suscettibile di autonoma utilizzazione. Un intervento di tale consistenza non può certo definirsi precario, atteso che, secondo quanto ripetutamente stabilito dalla giurisprudenza della S[uprema] Corte, la precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore, sono irrilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, l'opera deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo e deve, inoltre, essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso (…) E per quanto detto non è questo il caso in esame». Per queste ragioni, conclude il Tribunale, il fatto integra anche il reato di cui all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, non sanato dal rilascio dell’accertamento di compatibilità paesaggistica disapplicabile dal giudice quando ne mancano, come nel caso di specie, i presupposti di fatto e di diritto.
3. Nel confermare la affermazione della penale responsabilità degli imputati (salvo ritenerli non punibili ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.), la Corte di appello ha osservato che:
3.1. il manufatto era stato modificato in modo sostanziale, non potendo più essere considerato alla stregua di una struttura aperta con finalità di semplice delimitazione dello spazio esterno utilizzabile dai clienti dell’esercizio al fine di garantirne la sicurezza e l’incolumità;
3.2. i vetri preesistenti erano molto bassi e lasciavano ampio spazio tra la loro sommità e la copertura della veranda, avendo la sola finalità di proteggere i clienti seduti ai tavolini; quelli nuovi, invece, chiudevano pressoché completamente quello spazio, non rilevando, in senso contrario alla sua qualificazione come volume chiuso, il piccolo spazio lasciato tra la parte superiore dei vetri e la copertura della veranda poiché esso non impediva l’utilizzazione dell’opera in ogni momento dell’anno ed essere riscaldata nel periodo invernale;
3.3. tantomeno rileva, in senso contrario, la astratta possibilità che la copertura in PVC venisse aperta;
3.4. correttamente il Tribunale aveva disapplicato l’accertamento di compatibilità paesaggistica perché l’opera aveva illegittimamente creato un nuovo volume.
4. Tanto premesso, il primo motivo è manifestamente infondato e proposto ai di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
4.1. L’art. 6, comma 1, lett. e-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, che disciplina l’attività edilizia libera, nella versione vigente alla data di accertamento del fatto così descriveva i manufatti liberamente edificabili: «le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all'amministrazione comunale».
4.2. La norma è stata parzialmente modificata dall’art. 10, comma 1, lett. c), d.l. n. 76 del 2020, conv. con modificazioni dalla legge n. 120 del 2020, che ha esteso a centottanta giorni il termine finale della rimozione comprensivo, però, dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto;
4.3. L’art. 3, comma 1, lett. e.1 ed e.5, d.P.R. n. 380 del 2001, all’epoca dei fatti qualificava come “interventi di nuova costruzione”: «l’ampliamento di [manufatti] esistenti all’esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto dalla lettera e.6» (e.1); «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore» (e.5).
4.4. L’art. 10, comma 1, lett. b), n. 2-bis, d.l. n. 76 del 2020, cit., ha modificato la lettera e.5 dell’art. 3, escludendo dal novero degli interventi di nuova costruzione «le tende e le unità abitative mobili con meccanismi di rotazione in funzione, e loro pertinenze e accessori, che siano collocate, anche in via continuativa, in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, che non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e presentino le caratteristiche dimensionali e tecnico-costruttive previste dalle normative regionali di settore ove esistenti».
4.5. L’art. 3, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, stabilisce che le definizioni degli interventi edilizi prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi.
4.6. Per questo motivo, l’art. 4, comma 1-sexies, d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che il Governo, le regioni e le autonomie locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, concludano in sede di Conferenza unificata accordi ai sensi dell’art. 9, d.lgs. n. 281 del 1997, o intese ai sensi dell’art. 8, legge n. 131 del 2003, per l'adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti. Tali accordi costituiscono livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
4.7. In attuazione di tale disposizione, lo Stato, le regioni ed i comuni hanno siglato l’intesa del 20 ottobre 2016, n. 125/CU, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 268 del 16/11/2016, che ha approvato lo schema di regolamento edilizio tipo e il quadro delle definizioni uniformi. Il punto 42 dell’intesa così definisce la veranda: «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
4.8. Concorrono a definire il quadro normativo gli artt. 1, comma 2, e 2, comma 1, d.lgs. n. 222 del 25/11/2016.
4.9. L’art. 1, comma 2, così recita: «con riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è adottato un glossario unico, che contiene l'elenco delle principali opere edilizie, con l'individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi della tabella A di cui all'articolo 2 del presente decreto».
4.10. L’art. 2, comma 1, così recita: «A ciascuna delle attività elencate nell'allegata tabella A, che forma parte integrante del presente decreto, si applica il regime amministrativo ivi indicato».
4.11. La tabella allegata al decreto legislativo in questione dedica all’attività edilizia la Sezione II, la cui sottosezione 1 effettua la ricognizione degli interventi edilizi e dei relativi regimi amministrativi. In particolare, il punto 16 riconduce all’attività edilizia libera la installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore. Tali manufatti devono essere ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore.
4.12. In attuazione dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 222, cit., il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha emanato il D.M. 2 marzo 2018 con cui è stato approvato il glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera.
4.13. Anche per il “glossario”, rientra nell’ambito della attività edilizia libera la installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore.
4.14. I ricorrenti invocano l’applicazione, al caso di specie, dell’art. 140, comma 4, legge reg. Toscana n. 65 del 2014 (che attribuisce ai Comuni la possibilità di prevedere nei loro strumenti urbanistici, anche attuativi, la facoltà di realizzare ampliamenti degli edifici o degli stabilimenti produttivi esistenti, in deroga alle distanze previste dal D.M. 1444/1968, a condizione che sia garantito il rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, oltre alla minima dotazione degli standard), nonché delle delibere comunali consiliari n. 8/2016 e 4/2018.
4.15. La prima delibera ("approvazione ai sensi dell'art. 7 delle NTA del Regolamento Urbanistico dello schema di convenzione e atto di indirizzo interpretativo e applicativo inerente la disciplina urbanistico-edilizia vigente”) prevedeva: a) la possibilità per le (sole) attività produttive di realizzare «ampliamenti o manufatti (congiuntamente intesi) di facile asportabilità realizzati con strutture e materiale leggeri, non previsti dal piano ... anche in deroga alle distanze stabilite dal RE ... oltre che alla minima dotazione di standard» (punto 1 del deliberato); b) l’ammissibilità degli ampliamenti in deroga a condizione che fossero preordinati «al mantenimento delle attività produttive esistenti oppure al mantenimento od incremento dell'occupazione» e i richiedenti assumessero l'impegno alla «rimozione del manufatto ... con la cessazione dell'attività economica», con asseverazione del tecnico incaricato circa la conformità alla normativa igienico-sanitaria e di sicurezza (punto 7 del deliberato); c) l’introduzione di uno specifico "diritto transitorio" per i manufatti già esistenti e in precedenza autorizzati con nullaosta emessi ai sensi di quella disposizione (punti 8 e seguenti del deliberato), stabilendo altresì che i titolari di questi ultimi titoli abilitativi dovessero essere informati, «attraverso forme di comunicazione generale», delle seguenti facoltà loro riconosciute; d) la facoltà di mantenere «i predetti manufatti e istallazioni stagionali (già autorizzati ai sensi dell'art. 52 del RE) per un tempo massimo di 90 giorni decorrenti dalla data di efficacia della presente delibera»; e) la possibilità di mantenerli per «un ulteriore periodo (non prorogabile) di 180 giorni» con la presentazione, entro il suddetto termine di 90 giorni, di una comunicazione inizio lavori (CIL); f) la facoltà di conseguire la «trasmutazione» dei «manufatti temporanei di cui all'art. 52 del RE negli ampliamenti-manufatti concessi in deroga», ovvero di conseguire un titolo edilizio che li legittimasse in via stabile e non più temporanea (facoltà condizionata al permanere dell'attività produttiva e con impegno a rimuovere al cessare di questa), mediante la presentazione, entro il periodo di validità della CIL, di una SCIA «comprensiva di tutti gli atti di assenso, nullaosta, autorizzazioni» e accompagnata dalla sottoscrizione della "convenzione" (l'atto unilaterale d'obbligo il cui schema veniva approvato con il medesimo provvedimento consiliare), nonché dal pagamento, per i soli «volumi chiusi e astrattamente climatizzabili» di un «contributo» pari a 100 euro/mq, assimilabile al contributo ex art. 183 della LR 65/2014; g) la possibilità di conseguire la «trasmutazione» anche nei casi in cui «i manufatti già autorizzati ai sensi dell'art. 52 del RE presentassero condizioni diverse da quanto previsto nella presente delibera», sottoponendo «il caso all'attenzione dell'amministrazione comunale».
4.16. La delibera consiliare n. 8/2016 così stabiliva: «premesso che con la delibera N. 8/2016 «il Comune di Camaiore (…) ha inteso disciplinare una specifica procedura volta al mantenimento in essere di manufatti temporanei, a suo tempo autorizzati ai sensi dell'art. 52 del RE che presentavano caratteristiche di: "facile asportabilità realizzati con strutture e materiali leggeri", purché tale mantenimento in situ fosse finalizzato: "al mantenimento delle attività produttive ed al mantenimento od incremento dell'occupazione"»; dato atto, di come fosse «emerso, in fase applicativa, una mancata conoscenza e adeguata comprensione da parte degli operatori economici, delle possibilità e degli obblighi previsti con la predetta Delibera [8/2016] che di fatto è risultata scarsamente applicata sul territorio comunale, ad eccezione degli ambiti di applicazione del PUA (ovvero entro il demanio marittimo) dove le associazioni di categoria hanno potuto adeguatamente coordinare le attività obbligatorie finalizzate alla "trasmutazione" dei manufatti precari», fissava il nuovo termine del 31.12.2018, entro cui «presentare CIL tardiva [e contestualmente, ndr] ... SCIA volta alla stabilizzazione».
4.17. La ricostruzione del fatto, effettuata dal Giudici di merito senza sbavature logiche e senza travisamenti di sorta, non si presta alle critiche mosse dai ricorrenti i quali, nel ritenere la natura “precaria” dell’opera da essi realizzata incorrono in un palese ed evidente errore di diritto.
4.18. La natura “precaria” dell’opera non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per realizzarla, né dalla sua facile rimovibilità, bensì dalla natura delle esigenze che l’opera stessa intende soddisfare. Ciò è chiaramente evincibile dal tenore testuale degli artt. 3, comma 1, lett. e.5, e 6, comma 1, lett. e-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, nei quali si fa esplicito riferimento alle «esigenze meramente temporanee» (art. 3) e alle «esigenze contingenti e temporanee» (art. 6). La natura temporanea e contingente delle esigenze non è di per sé sufficiente a sottrarre l’opera al regime “concessorio” se la stessa non sia comunque di facile amovibilità. Lo stabile e permanente collegamento al terreno esclude sempre la natura precaria dell’opera; lo si evince chiaramente dal fatto che anche le “unità abitative mobili”, per non essere considerate “nuove costruzioni”, devono comunque essere dotate di meccanismi di rotazione funzionanti e non devono essere collegate al terreno in maniera permanente (art. 3, lett. e.5, seconda parte). Il che si spiega con il fatto che le opere destinate a soddisfare esigenze non temporanee e quelle comunque stabilmente collegate al suolo condividono con gli “interventi di nuova costruzione” la loro attitudine alla trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in via permanente. Prova ne sia il fatto che le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, sono soggette ad attività edilizia libera a condizione che siano tempestivamente rimosse al cessare dell’esigenza: l’opera “precaria” non rimossa è una “nuova costruzione” e necessita, in quanto tale, di permesso di costruire.
4.19. Questi concetti sono stati ripetutamente affermati dalla Corte di cassazione, secondo la quale per definirsi precario un immobile, tanto da non richiedere il rilascio di un titolo abilitativo, è necessario ravvisare l'obiettiva ed intrinseca destinazione ad un uso temporaneo per specifiche esigenze contingenti, non rilevando che esso sia realizzato con materiali non abitualmente utilizzati per costruzioni stabili (Sez. 3, n. 5821 del 15/01/2019, Dule, Rv. 275697 - 01; Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni, Rv. 267759 - 01; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, Rv. 261636 - 01; Sez. 3, n. 22054 del 25/02/2009, Frank, Rv. 243710 - 01; Sez. 3, n. 20189 del 21/03/2006, Cavallini, Rv. 234325 - 01; Sez. 3, n. 24898 del 04/04/2003, Nagni, Rv. 225380 - 01).
4.20. Costituisce declinazione pratica di tale insegnamento il principio secondo il quale non è soggetta a permesso di costruire la realizzazione di "dehors", intendendosi per tali gli spazi esterni ad un pubblico esercizio attrezzati con arredi, aventi lo scopo di delimitarlo ed assicurare la sicurezza e l'incolumità delle persone, trattandosi di strutture che, per dimensioni e caratteristiche costruttive, risultano destinate a contingenti esigenze di servizio dell'attività e non determinano un incremento volumetrico o, comunque, una trasformazione del territorio (Sez. 3, n. 21988 del 28/04/2016, Brioschi, Rv. 267032 - 01, che ha escluso la qualificazione come "dehors" di una volumetria suscettibile di autonoma utilizzazione, costituita da pedana delimitata da parapetti in ferro e da chiusura laterale, nonché dotata di copertura sorretta da travatura).
4.21. La questione interseca quella relativa alla volumetria espressa dall’opera in contestazione che - annotano i ricorrenti - non era totalmente chiusa posto che costituisce circostanza di fatto incontrovertibile che i vetri laterali (ma anche quello frontale, aggiungono) fossero più bassi rispetto al tetto, sì da lasciare uno spazio aperto.
4.22. Così come posta, la deduzione è totalmente infondata e generica.
4.23. L’opera realizzata dagli imputati ha stravolto le caratteristiche di quella che la precedeva non solo per l’innalzamento dei vetri laterali ma anche per la chiusura totale della facciata di ingresso, dotata di porta automatizzata, che ha comportato la stabile e definitiva inclusione di uno spazio che era precedentemente aperto e l’attitudine dell’opera stessa ad essere utilizzata in qualsiasi stagione mediante la dotazione di impianti stabili a servizio di interessi non contingenti, né temporanei.
4.24. I ricorrenti limitano lo sguardo ai soli vetri e perdono di vista il risultato complessivo della loro condotta: la stabile e definitiva inclusione di uno spazio precedentemente aperto, autonomamente utilizzabile ed asservito ad esigenze non contingenti, né temporanee.
4.25. Al riguardo appare evidente l’equivoco nel quale essi incorrono allorquando ritengono che il discrimine tra l’edilizia libera e quella soggetta a permesso di costruire sia tracciato dall’attitudine dell’intervento a creare una propria volumetria. Non è così: il discrimine è dato, come già detto, dalla natura dell’esigenza che l’opera intende soddisfare, non dal fatto che possa esprimere o meno una propria volumetria (nel senso, per esempio, che anche le tettoie di copertura necessitano di permesso di costruire quando facciano parte integrante dell’edificio sulle quali vengono realizzate, la giurisprudenza di legittimità è copiosa: ex plurimis, Sez. 3, n. 54692 del 02/10/2018, Barletta, Rv. 274210 - 01; Sez. 3, n. 29252 del 05/05/2017, Luongo, Rv. 270435 - 01; Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro, Rv. 257290 - 01; Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino, Rv. 247628 - 01).
4.26. Anche le opere “precarie” descritte dagli artt. 3, comma 1, lett. e.5, e 6, comma 1, lett. e bis, d.P.R. n. 380 del 2001, sviluppano una propria volumetria e ciò nondimeno non necessitano di alcun titolo edilizio. Non possono essere intese diversamente le delibere consiliari citate dai ricorrenti che consentivano, sì, la chiusura di volumi anche astrattamente climattizabili ma pur sempre alla condizione che si trattasse di ampliamenti o manufatti di facile asportabilità, di strutture, cioè, finalizzate al soddisfacimento di esigenze temporanee, al più, stagionali.
4.27. Se la struttura precedente, per la sua conformazione (vetri bassi), ne lasciava ragionevolmente ipotizzare un uso stagionale, quella realizzata dagli imputati vi ha chiaramente impresso una stabilità che è incompatibile con la natura temporanea delle esigenze cui è stata asservita.
4.28. Non solo: attraverso la realizzazione dell’opera in contestazione (stabilmente appoggiata all’edificio principale e dalla quale, affermano, si accede direttamente ai locali della pasticceria), gli imputati hanno realizzato un vero e proprio ampliamento dell’immobile al di fuori della sagoma esistente, a servizio permanente dell’attività commerciale ed urbanisticamente rilevante ai sensi dell’art. 3, lett. e.1, d.P.R. n. 380 del 2001.
4.29. Correttamente, pertanto, è stata esclusa la applicazione, al caso di specie, dell’art. 7 delle NTA del regolamento urbanistico del Comune di Camaiore in considerazione della radicale diversità strutturale e funzionale della struttura realizzata dai ricorrenti rispetto a quella che la precedeva.
4.30. E’ del tutto infondata, di conseguenza, la tesi difensiva della riconducibilità dell’opera ai concetti di “veranda” o “pergotenda” come definiti dall’allegato A all’intesa del 20 ottobre 2016 tra il Governo, le Regioni e i Comuni e dal Glossario approvato con D.M. 2 marzo 2018.
4.31. La veranda viene definita dall’allegato A, cit., come «[l]ocale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili». Essa, dunque, presuppone uno spazio lasciato aperto da una preesistente struttura fissa e successivamente chiuso; tuttavia la formula, meramente definitoria, non esaurisce tutte le possibili varianti funzionali dell’opera, né il conseguente regime giuridico, avendo da sempre la Corte di cassazione sostenuto la necessità del permesso di costruire per la realizzazione delle verande che trasformino in modo permanente balconi o terrazzine o intercludano stabilmente uno spazio libero (Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, Summa, Rv. 258295 - 01; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv. 237532 - 01; Sez. 3, n. 45588 del 28/10/2004, D’Aurelio, Rv. 230419 - 01; Sez. 3, n, 3160 del 28/11/2002, dep. 2003, Macaluso, Rv. 223295 - 01; Sez. 2, n. 28938 del 17/09/2020, n.m.; Sez. 3, n. 36238 del 30/11/2018, dep. 2019, n.m.).
4.32. Il Glossario, cit., invece colloca, senza definirle, le pergotende tra gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici (art. 6, comma 1, lett. e quinquies, d.P.R. n. 380 del 2001), distinguendole dai gazebo, tensostrutture, pressostrutture e assimilabili collocati tra le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee di cui all’art. 6, comma 1, lett. e bis, d.P.R. n. 380, cit..
4.33. Sul piano strutturale va dunque esclusa la qualifica dell’opera in questione come “veranda” o “pergotenda”.
4.34. Si tratta, come detto, di un vero e proprio ampliamento strutturale dell’immobile cui l’opera accedeva funzionalmente deputato al soddisfacimento di esigenze tutt’altro che temporanee.
4.35. L’art. 140, comma 4, legge reg. Toscana n. 65 del 2014, attribuisce ai Comuni la possibilità di prevedere nei loro strumenti urbanistici, anche attuativi, la facoltà di realizzare ampliamenti degli edifici o degli stabilimenti produttivi esistenti, in deroga alle distanze previste dal D.M. 1444/1968, a condizione che sia garantito il rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, oltre alla minima dotazione degli standard.
4.36. La deroga riguarda le distanze, non il regime urbanistico-edilizio degli interventi, regime disciplinato dagli artt. 133-137 in piena coerenza con quanto già prevedono gli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001. Anche per la Regione Toscana sono soggette a mera comunicazione dell’inizio dei lavori (CILA) «le installazioni stagionali, destinate ad essere integralmente rimosse entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio dei manufatti, poste a corredo di attività economiche, esercitate anche nell'ambito dell'attività agricola, quali esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, attività commerciali, turistico-ricettive, sportive o del tempo libero, spettacoli viaggianti, costituite da elementi facilmente amovibili quali pedane, paratie laterali frangivento, manufatti ornamentali, elementi ombreggianti o altre strutture leggere di copertura, e prive di parti in muratura o di strutture stabilmente ancorate al suolo» (art. 136, comma 2, lett. c bis). Sono invece considerate prive di rilevanza edilizia le installazioni stagionali, destinate ad essere integralmente rimosse entro un termine non superiore a novanta giorni consecutivi, poste a corredo di attività economiche quali esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, attività commerciali, turistico-ricettive, sportive o del tempo libero, costituite da elementi facilmente amovibili e reversibili quali pedane, paratie laterali frangivento, manufatti ornamentali, elementi ombreggianti o altre strutture leggere di copertura, e prive di parti in muratura o di strutture stabilmente ancorate al suolo. In questo contesto, sono da ritenersi prive di rilevanza urbanistico edilizia le installazioni comunque prive di tamponamenti esterni continui e di coperture realizzate con materiali rigidi e durevoli (art. 137, comma lett. b, n. 1).
In entrambi i casi (opere soggette a CILA ed opere prive di rilevanza edilizia), il requisito strutturale si coniuga con quello funzionale, essendo richiesta, da entrambe le norme, la natura stagionale dell’intervento che deve essere destinato, pertanto, a soddisfare esigenze comunque temporanee, laddove - come detto - quella in scrutinio è strutturalmente e stabilmente asservita ad esigenze non temporanee
4.37. Nel resto, le deduzioni difensive, nella misura in cui predicano la natura precaria e la funzione accessoria e di arredo dell’opera in questione, sono inammissibilmente fattuali perché finalizzate ad una sostanziale rilettura del compendio probatorio dando per scontata la possibilità della Corte di cassazione di scrutinare la tenuta logica della motivazione accedendo al contenuto del fascicolo processuale e prescindendo dal fatto così come descritto nella (e risultante dalla) doppia conforme pronuncia di condanna.
4.38. Va al riguardo ribadito che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 - 01).
4.39. Non è consentito, in sede di legittimità, proporre un’interlocuzione diretta con la Suprema Corte in ordine al contenuto delle prove già ampiamente scrutinate in sede di merito sollecitandone l’esame e proponendole quale criterio di valutazione della illogicità manifesta della motivazione.
4.40. Nel caso di specie, viene dedotta una errata valutazione delle prove basata, sopratutto con riferimento alla altezza dei vetri, non sull’errore percettivo delle prove stesse, bensì su un loro diverso apprezzamento (e, dunque, su un dissenso valutativo), operazione, quest’ultima, che preclude l’accesso del “fatto” (e della relativa prova) in sede di legittimità. Tanto più che, come si è già ampiamente spiegato in precedenza, l’aspetto strutturale del manufatto deve essere coniugato con quello funzionale, senza che ciò comporti, come lamentano i ricorrenti, l’applicazione di un criterio non predeterminato, soggettivo ed autoreferenziale, perché i Giudici di merito non hanno fatto altro che applicare alla fattispecie in esame le norme che disciplinano il regime urbanistico degli interventi edilizi e i principi da anni affermati in materia dalla Corte di cassazione.
4.41. Nè si può pretendere, in sede di legittimità, di costituire la testimonianza (per quanto qualificata) del dirigente dell’ufficio tecnico comunale quale criterio in base al quale stabilire il regime urbanistico di un intervento edilizio e valutare la tenuta logica della motivazione sul punto.
4.42. Resta infine oscura ed incomprensibile (e dunque generica) la dedotta violazione dell’art. 191 cod. proc. pen.
5. Il secondo motivo, che richiama gli (e si fonda sui medesimi) argomenti oggetto del primo motivo, risente degli stessi vizi di impostazione giuridica e fattuale nella misura in cui: a) si sostiene che il manufatto è soggetto a regime di edilizia libera; b) si supportano le deduzioni difensive mediante il richiamo a prove non travisate ma delle quali si contesta una errata valutazione.
E’ sufficiente ricordare, in ogni caso, che, trattandosi di ampliamento volumetrico di edificio preesistente, non trova applicazione l’art. 181, comma 1-ter, d.lgs. n. 42 del 2004.
6. A non diversi rilievi si presta il terzo motivo che si avvale dell’inammissibile richiamo a prove assunte nel corso del processo delle quali non viene dedotto il travisamento.
6.1. La questione sollevata dai ricorrenti riguarda la latitudine applicativa dell’art. 5 cod. pen. limitata, come noto, a seguito dell’intervento manipolativo del giudice delle leggi (Corte cost., sent. n. 364 del 1988), ai soli casi in cui l’ignoranza della legge non sia scusabile. Ha spiegato, sul punto, la Corte che «al fine di qualificare l'ignoranza della legge penale (o l'errore sul divieto) come inevitabile, occorre far riferimento a criteri oggettivi, cd. "puri" o "misti" (obiettiva oscurità del testo, gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, "assicurazioni erronee", ecc.)>>».
6.2. Applicando il principio ai reati in materia urbanistica, questa Corte ha ulteriormente spiegato che «per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto» (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, 197885 - 01, che ha confermato l'assoluzione pronunciata dal giudice di merito per mancanza dell'elemento soggettivo del reato, motivata dalla convinzione degli imputati dell'assenza del vincolo di inedificabilità, più volte affermata in provvedimenti del giudice amministrativo, nonché in specifici atti ufficiali del Ministero dei beni culturali e ambientali e del Comune interessato, e ha conseguentemente ritenuto assorbita, perché irrilevante, la questione della sindacabilità, da parte del giudice ordinario, della concessione "macroscopicamente illegittima”).
6.3. Deve, dunque, trattarsi di convincimento fondato su dati oggettivi ed esterni al soggetto, che abbiano concretamente e positivamente inciso sulla sua astratta capacità di intendere il disvalore antigiuridico della propria condotta. Questo principio, peraltro, già prima l’intervento della Corte costituzionale era stato affermato da questa stessa Corte di cassazione in materia di buona fede nelle contravvenzioni, allorquando, esclusa in ogni caso la scusabilità dell’errore di diritto, aveva riconosciuto rilevanza all’affidamento incolpevole del soggetto, sopratutto, in atti e comportamenti della pubblica amministrazione, per escludere la sua responsabilità sul piano soggettivo (cfr. sul punto, Sez. 1, n. 219 del 18/02/1964, Paoletti; Sez. 3, n. 2367 del 6/10/1965, Cristofani; Sez. 1, n. 1422 del 5/11/1968, Corsini; Sez. 6, n. 94 del 18/01/1969, Ciccone, solo per citarne alcune, tra le prime, in materia; più recentemente, ancorché a seguito dell’intervento della Corte costituzionale e, dunque, in un quadro normativo mutato, cfr. Sez. 3, n. 49910 del 4/1172009, Cangialosi; Sez. 3, n. 172 del 6/11/2007, Picconi; Sez. 3, n. 4951 del 17/12/1999, Del Cuore).
6.4. In ogni caso è certo che il mero, personale errore di interpretazione ed il dubbio non escludono la colpevolezza per errore di diritto; il primo (l’errore di interpretazione non causato da fattori esterni al soggetto), trasformerebbe l’autore del reato da persona tenuta all’osservanza della legge penale a misura della sua latitudine applicativa, diluendo la forza e la portata oggettiva del comando (art. 3, cod. pen., e 54 Cost.) nella capacità soggettiva dei singoli di comprenderlo; l’altro (il dubbio), non crea certezze, ma pone l’autore del reato nella condizione di operare una scelta consapevole e certamente meditata (cfr., sul punto, Sez. 6, n. 6991 del 25/01/2011, Sirignano; Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, Giordano; Sez. 3, n. 4951 del 17/12/1999, cit.).
6.5. Alla luce delle considerazioni che precedono deve essere esclusa la scusabilità dell’errore in cui sarebbero incorsi i ricorrenti che deducono di aver maturato il convincimento della liceità del proprio agire benché tale convinzione contrastasse con la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, di cui si è fatta menzione in sede di esame del primo motivo, e con lo stesso comportamento degli organi preposti al controllo urbanistico del territorio (Polizia Municipale e Comune) che, nella specie, hanno tenuto comportamenti tutt’altro che acquiescenti o incoraggianti (ed anzi repressivi), non potendo essere valorizzata, in senso contrario, la testimonianza resa in dibattimento dall’ing. Mazzei (per la quale l’opera in questione non necessitava di permesso di costruire).
7. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa dei ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 13/04/2023.