Cass. Sez. III n. 386 del 8 gennaio 2021 (UP 18 set 2020)
Pres. Andreazza Est. Andronio Ric. Longoni
Urbanistica.Demolizione e permesso di costruire
Ai fini della riconduzione di un’attività edilizia di demolizione all’ambito delle deroghe alla necessità del permesso di costruire fissate dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 per gli edifici sottoposti a tutela ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, non è sufficiente che detta demolizione si svolga con l’intenzione soggettiva dell’agente di non operare modificazioni di sagoma, volumetria, prospetto o di quant’altro possa essere rilevante per rendere invece necessario il permesso di costruire, perché l’opera da realizzare, previa demolizione del preesistente, deve risultare in modo chiaro e univoco ex ante dalla documentazione progettuale sulla base della quale l’attività edilizia è effettuata. Diversamente opinando, si consentirebbe a qualunque soggetto, che operasse una demolizione senza dotarsi del permesso di costruire, di fornire ex post una giustificazione della demolizione stessa, allegando la mera intenzione di procedere, successivamente, ad una ricostruzione in astratto rientrante, per caratteristiche, nell’ambito di applicazione delle deroghe stabilite dal richiamato art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 14 novembre 2020, la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Como del 3 aprile 2019, con la quale – per quanto qui rileva – l’imputata era stata condannata alla pena di due anni di reclusione, con doppi benefici di legge, per i reati di cui agli artt. 81 cod. pen., 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001 (capo b dell’imputazione), e 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004 (capo a), ritenuto il concorso formale, per avere, quale legale rappresentante di una società e senza i necessari titoli autorizzatori, realizzato la demolizione di un edificio, denominato “pescheria”, in relazione al quale la soprintendenza di Milano aveva comunicato, in data 31 marzo 2014, la sussistenza dei presupposti per avviare il procedimento di dichiarazione di notevole interesse culturale dell’immobile, situato in un’area dichiarata di notevole interesse pubblico, con d.m. 28 aprile 1978 e sottoposta, perciò, a vincolo paesaggistico.
2. Avverso la sentenza l’imputata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si deduce la violazione dell’art. 522 cod. proc. pen., sul rilievo l’imputata sarebbe stata condannata per un capo di imputazione diverso da quello indicato nella sentenza di primo grado, in relazione al quale l’appello era stato proposto.
2.2. Con una seconda censura, si contesta l’erronea applicazione degli artt. 44, comma 1, lettera c), e 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001. Si sostiene che dall’istruttoria era emersa l’esistenza di titoli autorizzativi edilizi ed ambientali in capo alla società dell’imputata, dai quali, al più, questa si era semplicemente discostata. Si trattava, in primo luogo, del permesso di costruire convenzionato n. 30 del 2014, avente ad oggetto opere di riqualificazione in esecuzione del piano attuativo, che consentiva, appunto, una riqualificazione degli immobili a fini turistico-ricettivi, e non solo interventi di restauro o altri interventi più ridotti. In secondo luogo, la difesa afferma che erano state richieste e rilasciate anche le autorizzazioni ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, che consentivano la demolizione e integrale ricostruzione delle parti ammalorate dell’edificio. La ristrutturazione tramite demolizione avrebbe dovuto essere ritenuta consentita, in ogni caso, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nella versione vigente a partire dal 2013.
2.3. Con un terzo motivo di doglianza, si lamenta la violazione degli artt. 10 e 13 del d.lgs. n. 42 del 2004, nonché dell’art. 4 del d.m. n. 495 del 1994, in relazione alla ritenuta sussistenza del vincolo di bene culturale e alla sua incidenza ai fini della configurazione dell’illecito. La difesa afferma che il vincolo in questione avrebbe dovuto essere imposto mediante specifico decreto notificato, mentre un provvedimento del genere non era stato emanato nel caso di specie, né era stato mai notificato alcun avvio del procedimento di ricognizione dei presupposti per l’applicazione del vincolo. Sul punto, la Corte d’appello non avrebbe considerato che la lettera a) del comma 3 dell’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che il vincolo su beni privati sia imposto con dichiarazione di interesse particolarmente importante, ai sensi del successivo art. 13. Infatti, solo per i beni rientranti nel comma 2 dell’art. 10 richiamato, diversi da quello oggetto del presente procedimento, non è richiesta la dichiarazione de qua.
2.4. In quarto luogo, si deducono la violazione degli artt. 62, n. 6), 62-bis, 132, 133 cod. pen., nonché vizi della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio. Non si sarebbe considerata la condotta adottata posteriormente all’evento dall’imputata, la quale si era prodigata per ricostruire al più presto l’edificio, ottenendo i permessi di costruire. Si trattava, inoltre, di un soggetto privo di precedenti penali e di una condotta che non aveva violato il vincolo storico-culturale, insussistente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato. La sentenza impugnata deve essere, però, annullata in relazione alla pena, previa riqualificazione della violazione paesaggistica contestata.
1.1. Il primo motivo di censura – riferito alla pretesa non corrispondenza tra imputazione e sentenza – è infondato.
Non vi è dubbio che la sentenza impugnata contenga un’imputazione diversa da quello riportata nella sentenza di primo grado ed estranea all’oggetto del presente giudizio. Nondimeno, la decisione di appello si riferisce in modo chiaro a tale ultima imputazione, sulla quale l’imputata si è potuta compiutamente difendere anche nel giudizio di secondo grado, avendo proposto il suo appello in relazione alla stessa. L’erronea indicazione del capo di imputazione è, dunque, frutto di una mera svista, irrilevante nella sostanza.
1.2. La seconda censura della ricorrente – con cui si sostiene che dall’istruttoria era emersa l’esistenza di titoli edilizi ed autorizzativi ambientali dai quali l’imputata si era, al più, discostata – è infondata. Da quanto riportato nella sentenza impugnata e più analiticamente evidenziato nella sentenza di primo grado, i titoli abilitativi ottenuti dalla società dell’imputata prevedevano solo interventi parziali e piccoli interventi di demolizione, con immediato ripristino, ma non consentivano l’integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio. È, dunque, smentita dagli atti l’affermazione difensiva secondo cui il permesso di costruire convenzionato n. 30 del 2014 permetteva una riqualificazione dell’immobile a fini turistico-ricettivi, comprensiva della sua integrale demolizione e ricostruzione. E risulta irrilevante, a fronte del contenuto del titolo abilitativo, il richiamo della difesa all’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, nella versione attualmente vigente, secondo cui rientra nella nozione di ristrutturazione anche la demolizione con integrale ricostruzione, perché la circostanza che l’immobile demolito sarebbe stato ricostruito senza modificazioni della sagoma, della volumetria o dei prospetti risulta meramente asserita dalla difesa, la quale non ha richiamato – neanche in via di mera prospettazione – il relativo progetto e il suo contenuto. Deve infatti affermarsi che, ai fini della riconduzione di un’attività edilizia di demolizione all’ambito delle deroghe alla necessità del permesso di costruire fissate dall’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 per gli edifici sottoposti a tutela ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, non è sufficiente che detta demolizione si svolga con l’intenzione soggettiva dell’agente di non operare modificazioni di sagoma, volumetria, prospetto o di quant’altro possa essere rilevante per rendere invece necessario il permesso di costruire, perché l’opera da realizzare, previa demolizione del preesistente, deve risultare in modo chiaro e univoco ex ante dalla documentazione progettuale sulla base della quale l’attività edilizia è effettuata. Diversamente opinando, si consentirebbe a qualunque soggetto, che operasse una demolizione senza dotarsi del permesso di costruire, di fornire ex post una giustificazione della demolizione stessa, allegando la mera intenzione di procedere, successivamente, ad una ricostruzione in astratto rientrante, per caratteristiche, nell’ambito di applicazione delle deroghe stabilite dal richiamato art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Quanto, poi, al profilo paesaggistico, la stessa ricorrente sostiene che era stata richiesta e rilasciata un’autorizzazione che consentiva la demolizione e integrale ricostruzione delle sole parti ammalorate dell’edificio. E l’istruttoria ha chiarito – senza che sul punto vi siano specifiche contestazioni difensive – che l’immobile era in ottime condizioni di conservazione e non presentava parti ammalorate. In conclusione – come ben evidenziato dai giudici di primo e secondo grado, con conforme valutazione – i titoli abilitativi richiamati nel ricorso non autorizzavano in alcun modo l’integrale demolizione realizzata, ma opere radicalmente diverse, di portata assai limitata.
1.3. Il terzo motivo di doglianza – con si contestano la ritenuta sussistenza del vincolo di bene culturale sull’immobile demolito e la sua incidenza ai fini della configurazione dell’illecito – è manifestamente infondato.
Dalla semplice lettura dell’imputazione contenuta nella sentenza di primo grado, che è quella alla quale correttamente si sono riferiti i giudici di merito, emerge che l’edificio era stato oggetto di una comunicazione, da parte della competente Soprintendenza, con cui si affermava la sussistenza dei presupposti per avviare il procedimento di dichiarazione di notevole interesse culturale e che l’area in cui l’immobile sorgeva era stata sottoposta a vincolo paesaggistico con decreto ministeriale 28 aprile 1978. Dunque, il vincolo indicato nell’imputazione e ritenuto sussistente dal giudice di merito è tecnicamente solo quello paesaggistico, mentre dalla comunicazione della Soprintendenza è desumibile solo un valore storico dell’edificio, peraltro non contestato neanche dalla difesa. Dunque, la società dell’imputato avrebbe semplicemente dovuto dotarsi del titolo abilitativo necessario ad operare la demolizione di un immobile in area sottoposta a vincolo paesaggistico, mentre il titolo del quale la ricorrente affermato di essere in possesso non consentiva – come visto – una demolizione integrale, ma semplici interventi minori su eventuali parti ammalorate. Le assorbenti considerazioni che precedono rendono irrilevanti le argomentazioni della difesa circa i presupposti per la configurabilità del vincolo culturale su beni immobili appartenenti a privati, perché l’imputazione e la condanna non hanno avuto per oggetto un tale vincolo.
1.4. Del tutto generico è, infine, il quarto motivo di doglianza – riferito alle circostanze attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio – non potendosi dare rilievo alle mere asserzioni difensive circa una condotta ripristinatoria che l’imputata avrebbe tenuto, a fronte di una accertata gravità della condotta, consistita nell’integrale demolizione di un edificio il cui valore storico risulta incontestato.
2. Pur in mancanza di una doglianza difensiva sul punto, deve rilevarsi d’ufficio che la Corte costituzionale, con sentenza 11 gennaio - 23 marzo 2016, n. 56, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed». La conseguenza di tale pronuncia sul reato di cui al capo a) nel presente procedimento è la sua la riqualificazione ai sensi dell’art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, fattispecie contravvenzionale residuale alla quale l’abuso paesaggistico commesso dall’imputata risulta riconducibile, con conseguente necessità di rideterminare la pena complessivamente irrogata, non potendosi più fare riferimento alla pena base della reclusione prevista per la più grave fattispecie dichiarata incostituzionale.
3. Da quanto precede consegue che, riqualificato il reato di cui al capo a) ai sensi dell’art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, perché proceda a nuovo giudizio limitatamente alla determinazione della pena. Il ricorso deve essere nel resto rigettato.
P.Q.M.
Qualificato il reato di cui al capo a) ai sensi dell’art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, annulla la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, limitatamente alla pena. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 18/09/2020.