“ECOPIAZZOLE”: LA CASSAZIONE RIBADISCE LA NECESSITA’ DEL TITOLO ABILITATIVO
di Luca RAMACCI
(pubblicato su Rivista Penale n. 10, ottobre 2007)

( Nota a Cass. Sez. III n.7285 del 22 febbraio 2007, leggibile qui)

Con la sentenza in rassegna la Corte di cassazione conferma, ancora una volta, il suo discusso orientamento in tema di “ecopiazzole” o “isole ecologiche”.

Nella fattispecie in esame la vicenda riguarda la predisposizione di un piazzale per la collocazione degli “scarrabili” destinati al deposito ed allo stoccaggio di rifiuti speciali derivanti dalla raccolta differenziata. Di situazioni analoghe la Corte si era già occupata in passato, come si è detto, optando per una rigorosa lettura della normativa applicabile che non è tuttavia condivisa dalla migliore dottrina.

 

In una pronuncia[1], riferita però ad una legge regionale della Lombardia (L.R. 211993), veniva operata una distinzione tra “piattaforme” e “piazzole”, ritenendo necessario solo per le prime uno specifico titolo abilitativo.

 

Successivamente[2], occupandosi del sequestro di un'area di circa 400 mq. contenente rifiuti urbani ingombranti e rifiuti speciali, in parte anche pericolosi, conferiti dalla ditta appaltatrice del servizio di raccolta o direttamente dai cittadini, veniva riconosciuta la responsabilità di un sindaco per il reato allora previsto dall'art. 51, comma 1, lettere a) e b) del D.Lgs. 22/1997 quale conseguenza di un illecito stoccaggio di rifiuti in quanto effettuato in assenza della necessaria autorizzazione.

 

L’attività era stata posta in essere sulla base di direttive emanate dalla Provincia di Savona, fondate sul combinato disposto degli artt. 6 e 21 del D.Lgs. 22/1997 e ritenendo spettante ai comuni il potere di regolamentare la gestione dei rifiuti, intesa come attività di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento dei rifiuti stessi, comprensiva del controllo delle relative operazioni. Ne derivava, quale conseguenza, la qualificazione delle ecopiazzole quali centri di raccolta dei rifiuti urbani, che i comuni possono gestire in regime di privativa e disciplinare con regolamento e, quindi, in assenza di autorizzazione.

 

La tesi veniva però ritenuta giuridicamente infondata, rilevando che la competenza all’esercizio in regime di privativa della gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, allora attribuita ai comuni dall’art. 21, comma 1, D.Lgs. 22/1997, non escludeva l’osservanza della disciplina generale in materia di gestione dei rifiuti anche con riferimento al titolo abilitativo richiesto per il lecito esercizio della stessa.

 

Sulla base di tale premessa la Corte qualificava la ecopiazzola come centro di stoccaggio (ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. 1) D.Lgs. 22/1997) presso il quale venivano effettuate attività di deposito preliminare in vista di altre operazioni di smaltimento definitive o attività di recupero, consistenti nella messa in riserva di rifiuti per sottoporli a una operazione definitiva di recupero, con la conseguenza che dette attività avrebbero richiesto l’autorizzazione o il riscorso alle procedure semplificate.

 

Conclusioni analoghe venivano tratte in una ulteriore pronuncia[3] relativa ad un'area comunale di circa 2.000 mq., recintata e pavimentata, presso cui venivano conferite dai cittadini varie tipologie di rifiuti in forma differenziata.

 

In tale occasione la difesa sosteneva l’equivalenza tra il conferimento dei rifiuti domestici nei “cassonetti” collocati nella pubblica via e quello effettuato nella piazzola ecologica allestita dal comune, entrambi effettuati dagli stessi cittadini residenti, limitandosi l’ente locale ad organizzare il deposito temporaneo nella piazzola ecologica in attesa delle successive operazioni di smaltimento o di recupero. La tesi difensiva veniva però confutata sulla base della prevedibile e logica osservazione che il luogo in cui avviene la produzione (e la raccolta) dei rifiuti domestici è la civile abitazione e non la piazzola ecologica dove i rifiuti vengono successivamente conferiti. Ciò portava all’ulteriore, ovvia, conclusione che nella fattispecie non poteva ipotizzarsi un deposito temporaneo per la mancanza dei presupposti di legge, tra i quali è, appunto, previsto che il deposito temporaneo debba essere effettuato nel luogo in cui avviene la produzione dei rifiuti.

In seguito[4], l’indirizzo sopra riportato veniva ulteriormente consolidato con riferimento ad una fattispecie riguardante un'area recintata di circa 160 mq. nella disponibilità di una impresa appaltatrice dall’amministrazione comunale della gestione del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani ed accessori. In tale area i rifiuti venivano conferiti non solo dai cittadini ma anche dalla ditta appaltatrice che, però, li raccoglieva e trasportava anche se non provenienti dalla raccolta differenziata e non destinati al recupero, come nel caso dei rifiuti speciali prodotti da demolizioni edilizie. Il tutto sempre sulla base delle linee guida impartite dalla Provincia di Savona che erano state già oggetto di critica nella precedente decisione n. 26379�5.

Ancora una volta veniva invocata dalla difesa l’applicabilità de regime di favore riferito al deposito temporaneo, sostenendo che nella nozione di “luogo di produzione dei rifiuti” poteva rientrare anche l'intero territorio comunale con riferimento ai rifiuti prodotti dai cittadini e dagli stessi direttamente conferiti nelle piazzole ecologiche all’uopo istituite. I giudici investiti della questione non avevano però difficoltà nell’evidenziare l’improponibilità della tesi difensiva che avrebbe comportato, se accolta, una “insostenibile dilatazione” della nozione di luogo di produzione dei rifiuti evidenziando, peraltro, come i rifiuti raccolti nell’area provenissero anche dalla raccolta e dal trasporto direttamente effettuati dalla ditta appaltatrice.

Anche sotto il profilo dell’offensività della condotta la Corte osservava come non potesse assumere rilevanza la circostanza che l’attività oggetto di contestazione, lungi dal costituire un pericolo per l’integrità dell’ambiente e la salute delle persone, avrebbe assicurato ai cittadini una migliore tutela della loro salute, attraverso la raccolta differenziata di rifiuti destinati al recupero, ciò in quanto il bene protetto dalla norma incriminatrice “…non consiste nell’utilità finale rappresentata dalla salubrità dei luoghi a tutela della salute dei cittadini, ma nell'affidamento all'autorità pubblica, secondo la ripartizione di competenze operata dal decreto Ronchi, del controllo sulla gestione di materiale potenzialmente pericoloso per la salute dei cittadini, come sono i rifiuti”.

Il rigoroso orientamento espresso alla giurisprudenza di legittimità trovava peraltro riscontro in due note del Ministero dell’Ambiente[5].

Nella prima si evidenziava che le attività svolte nelle ecopiazzole” potevano essere considerate operazioni di messa in riserva (secondo la definizione di cui al punto R13 dell'allegato C al Dlgs 2297 allora in vigore) sottoposte all’applicazione delle procedure semplificate precisando che, nel caso in cui il soggetto gestore delle ecopiazzole fosse diverso dal Comune, si rendeva necessaria l'iscrizione di tale soggetto all'Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti, secondo quanto previsto all'articolo 30 del Dlgs 22/1997 per la gestione di impianti di titolarità di terzi.

Nella seconda veniva confermato che le ecopiazzole dovevano qualificarsi come centri di stoccaggio (messa in riserva nel caso in cui i rifiuti fossero destinati a successive operazioni di recupero e deposito preliminare nel caso in cui gli stessi fossero destinati allo smaltimento) e ritenersi conseguentemente soggette al corrispondente regime autorizzatorio.

Nello stesso periodo, tuttavia, la giurisprudenza amministrativa giungeva a conclusioni diverse.

In una articolata decisione, infatti, il Consiglio di Stato[6] indicava la gestione dei rifiuti come l’attività di trattamento nei momenti della raccolta, del trasporto, del recupero e dello smaltimento, ritenendoli fasi successive di un processo, che inizia con il prelievo, la cernita ed il raggruppamento dei rifiuti per il susseguente loro trasporto.

 

Dando quindi atto della mancanza, nella normativa allora vigente, di una definizione di “area ecologica”, rilevava che la denominazione, simile, di “isola ecologica” era rinvenibile nell’art. 9, comma 3, del d.p.r. 27 aprile 1999, n. 158, per designare i luoghi dove è “attivata” la raccolta differenziata dei rifiuti che può dar adito ad agevolazioni tariffarie e che la fase della raccolta differenziata veniva inserita, dall’art. 6, lett. E) D.Lv. 2297 nella raccolta in generale e, conseguentemente, in un momento antecedente al trasporto ed alle attività di smaltimento o recupero dei rifiuti.

 

L’attività svolta andava dunque qualificata come raccolta, con pesatura e raggruppamento (o separazione) dei vari tipi di rifiuto conferiti dai cittadini diversa, quindi, dalle fasi di smaltimento o di recupero.

 

Alle contrapposte opinioni della magistratura amministrativa e di quella penale si aggiungevano posizioni discordi anche da parte della dottrina.

 

In alcuni casi , infatti, il rigore della Cassazione veniva pienamente condiviso sulla base di una lettura delle disposizioni esaminate coincidente con quella richiamata dal giudice di legittimità[7] mentre in altri, in modo molto più articolato, venivano operate alcune distinzioni tra diverse ipotesi.


Tali distinzioni tengono conto della diversa destinazione delle aree e risultano più o meno strutturate.

 

Si è, infatti, in alcuni casi suggerita una bipartizione tra “ecocentri ed “isole ecologiche” sulla scorta della diversa tipologia dei rifiuti conferiti e delle attività svolte, ritenendo le seconde non soggette a particolari regimi autorizzatori essendo destinate, sostanzialmente, alla raccolta dei rifiuti conferiti dai singoli cittadini non diversamente da quanto avviene con i “cassonetti” all’uopo predisposti[8].

 

In altri casi una ulteriore distinzione è stata operata considerando - in relazione alle disposizioni del “decreto Ronchi” - il contenuto della delibera del Comitato interministeriale 27 luglio 1984 recante “Disposizioni per la prima applicazione dell’articolo 4, Dpr 10 settembre 1982, n. 915” ove si rinviene una distinzione tra “contenitori” destinati alla “raccolta” dei rifiuti urbani e “impianti” finalizzati al loro “stoccaggio” provvisorio la cui destinazione è evidentemente diversa e ritenendo, quindi, che la corrispondenza dell’ecopiazzola ai requisiti funzionali e strutturali di cui al punto 2.1. della citata delibera fa si che la stessa “rientri ancora nella fase della raccolta e del trasporto dei rifiuti urbani (fase che inizia certamente all’interno dei nuclei domestici, ma che non può ritenersi esaurita col semplice conferimento del rifiuto nel cassonetto) e non necessiti, pertanto, di autorizzazione o comunicazione…”[9]

In modo ancor più articolato, altri Autori proponevano quadripartizione delle aree di conferimento e gestione preliminare dei RSU così suddivisa: ecopiazzole, isole ecologiche semplici, isole ecologiche con pre – trattamento o gestione (anche dette “ecocentri”), stazioni di trasferimento dei rifiuti urbani[10].

I siti rientranti nella prima tipologia, quella delle “ecopiazzole”, venivano definita come “piccole aree attrezzate di conferimento di RSU domestici per frazioni omogenee dove gli utenti, a propria cura, si recano per conferire rifiuti tramite versamento in contenitori appositamente predisposti dal gestore per categorie omogenee sostanzialmente identici alle attuali “campane” o contenitori stradali di uso comune” mentre l’ “isola ecologica semplice” veniva definita come “struttura attrezzata e in varia maniera presidiata, o altrimenti circoscritta, avente l’obiettivo di “intercettare” rifiuti, voluminosi e non, conferiti dalla cittadinanza, per i quali la costruzione di un apposito circuito di raccolta risulterebbe oltremodo oneroso, oltreché di non indifferente aggravio per la circolazione stradale qualora si desse vita ad una incontrollata proliferazione di contenitori per le vie cittadine”.

Per tali categorie di siti, veniva evidenziata, in considerazione della loro destinazione effettiva, l’esclusione tra le attività soggette a titolo abilitativo pur richiedendosi la conformità alla disciplina urbanistica ed una corretta utilizzazione, tale da non determinare situazioni inquadrabili in attività non consentite quale il deposito incontrollato o la discarica.

Erano diversamente valutate, per quanto attiene il regime autorizzatorio, le altre due tipologie di impianti, gli “ecocentri”, definiti come “ strutture custodite ed accessibili da parte dell’utenza o da parte delle ditte incaricate ad orari prestabiliti, finalizzate alla raccolta di frazioni omogenee di rifiuti ove oltre al conferimento sempre possibile al pari di un’isola ecologica semplice, si effettuano o si possono effettuare altresì operazione semplici di gestione quali ad esempio cernita, smontaggio, recupero di parti, ecc.” e quindi veri e propri centri di stoccaggio, complementari agli altri servizi di raccolta e le “stazioni di trasferimento” destinate a realizzarsi “…ove il gestore ritenga di porre in essere operazioni di collettamento di ingenti quantità di rifiuti urbani e provenienti da raccolta differenziata effettuata altrove, magari in diversi comuni, rispetto all’area attrezzata…

In tali ipotesi le attività di stoccaggio effettivamente poste in essere renderebbero necessario il conseguimento del titolo abilitativo richiesto dalla disciplina generale sui rifiuti

In altri casi, infine, richiamando e condividendo le citate conclusioni della giurisprudenza amministrativa si è giunti alla conclusione che “le operazioni di gestione di rifiuti che si riducano al raggruppamento degli stessi, alla loro cernita – eventualmente come attività complementare della raccolta differenziata – e al loro provvisorio stazionamento in loco in attesa del ritiro da parte di altri soggetti (in funzione di successive operazioni di smaltimento o recupero), pur incasellandosi nella tipologia dello “stoccaggio” (nella duplice forma del deposito preliminare o della messa in riserva), non richiedano il rilascio dell’autorizzazione (o l’attivazione della procedura semplificata) perché sono strutturalmente e logicamente connesse alla fase della raccolta, e quindi rappresentano una modalità di effettuazione di un servizio obbligatorio per il comune, e perché non presentano profili di pericolosità per l’ambiente maggiori di quelli derivanti da un sistema di raccolta dei rifiuti effettuato con il loro prelievo diretto presso il luogo di produzione e con il trasporto all’impianto deputato all’esercizio delle operazioni descritte nell’allegato B o C del d.leg. 22/97[11]

Come emerge da questa sintetica analisi delle diverse posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza appare di tutta evidenza come la giurisprudenza della Cassazione sia caratterizzata da un approccio che non sembra tener conto della concreta modalità di gestione delle “ecopiazzole” che costituisce, al contrario, il perno su cui poggiano le distinte argomentazioni prospettate in dottrina.

Se infatti, come si era notato[12], in un primo tempo le decisioni sembravano tener conto delle diverse attività cui i siti erano in concreto destinati, nelle pronunce immediatamente successive tale approccio sembra essere stato abbandonato.

Sorprende tuttavia che nella decisione in rassegna non si sia tenuto conto del vivace dibattito dottrinario scaturito dalle più recenti pronunce e delle critiche che, in modo unanime e pienamente convincente hanno posto l’accento sulla necessità di operare una accurata distinzione tra le diverse tipologie di siti, continuando nella lettura rigorosa delle disposizioni applicate, sicuramente corretta e condivisibile in astratto in considerazione delle conseguenze derivanti dalla non adeguata utilizzazione dei siti.

Ciò nonostante, i suggerimenti interpretativi forniti dalla migliore dottrina sembrano offrire una più soddisfacente soluzione per situazioni in cui, paradossalmente, verrebbero ad essere sanzionate condotte verosimilmente finalizzate ad una più razionale gestione dei rifiuti urbani

Luca RAMACCI


[1] Cass. Sez. III 26102001, Lanfranconi in Riv. Giur. Amb. 32002 pag. 510 con nota di MILOCCO “Le ecopiazzole devono essere autorizzate?”

[2] Cass. Sez. III n. 26379 del 1872005, PM in proc. Zunino in Foro It. 12006 con nota di PAONE “Le ecopiazzole all’esame della cassazione” (la decisione e l’articolo sono reperibili anche in www.lexambiente.it)

[3] Cass. Sez. III n. 34665 del 2892005, Righetti ibid. (anche questa decisione è reperibile in www.lexambiente.it)

[4] Cass. Sez. III n. 45084 del 12122005, Marino in www.lexambiente.it

[5] Min. Ambiente 3 novembre 1998 avente ad oggetto “Gestione delle ecopiazzole comunali per la raccolta differenziata dei rifiuti urbani - Dlgs 22/1997 e successive modifiche ed integrazionie Min. Ambiente 5 agosto 1999 avente ad oggetto “Gestione delle ecopiazzole comunali

[6] Cons. di Stato Sez. V sent. 609 del 1722004

[7] Così SANTOLOCI ““Ecopiazzole” - la cassazione: e’ attività di stoccaggio soggetta ad autorizzazione regionale – la provincia non può derogare alla norma nazionale e riservare la gestione ai sindaci” in www.dirittoambiente.it

[8] E. DELLO VICARIO, “Ecopiazzole: isole ecologiche o ecocentri”? Un contributo al dibattito (sul filo del lessico)”, in www.dirittoambiente.com. Sulla distinzione degli aspetti “funzionali” delle ecopiazzole si fondano anche le argomentazioni di GARZIA “Osservazioni sul problema della qualificazione giuridica delle c.d. ecopiazzole comunali. Riflessione dopo la sentenza della Cassazione del 18 luglio 2005” in Ambiente & Sviluppo 2006 nonché quelle di MILOCCO op. cit. pag. 516

[9] Così Filippucci, Il deposito di rifiuti, le ecopiazzole e i centri per la raccolta differenziata dei Raee, in Rifiuti – bollettino di informazione normativa, nn. 125 del gennaio 2006 pag. 7 e 126 del gennaio 2006 pag. 11 cui si rinvia anche per la minuziosa analisi delle diverse posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza.

[10] CARRUBBA e QUADRACCIA “Ecopiazzole, Isole ecologiche, Ecocentri. Contributo di analisi” in www.lexambiente.it. Le argomentazioni sono state ulteriormente ribadite dagli AA. in “I siti di pre-raccolta dei rifiuti: ecopiazzole, isole ecologiche, ecocentri. nuovi spunti di riflessione per una sintesi tra diritto penale e prassi attuativeibid..

[11] PAONE “Le ecopiazzole all’esame della cassazione” cit. La tesi non è però condivisa appieno da CARRUBBA e QUADRACCIA in “I siti di pre-raccolta dei rifiuti: ecopiazzole, isole ecologiche, ecocentri. nuovi spunti di riflessione per una sintesi tra diritto penale e prassi attuative” cit.

[12] FILIPPUCCI, op. cit. con riferimento a Cass. Sez. III n. 26379 del 1872005, PM in proc. Zumino cit.. Un simile approccio, sebbene meno articolato, sembra potersi rilevare anche in Cass. Sez. III 26102001, Lanfranconi cit.