Cass. Sez. III n. 33102 del 8 settembre 2022 (UP 7 giu 2022)
Pres. Sarno Est. Di Nicola Ric. Bartucci
Rifiuti.Buona fede

In tema di rifiuti, chi opera nel settore è gravato dell’obbligo di acquisire informazioni circa la specifica normativa applicabile, sicché, qualora deduca la propria buona fede, non può limitarsi ad affermare di ignorare le previsioni di detta normativa, ma deve dimostrare di aver compiuto tutto quanto poteva per osservare la disposizione violata (fattispecie relativa ad imputato, per altro particolarmente esperto del settore, che non risultava si fosse adoperato per informarsi sulla possibilità di commercializzare le cose oggetto dell’imputazione, tanto più in un contesto nel quale egli stesso aveva definito complessa la normativa di settore, circostanza che, a maggior ragione, secondo la Corte gli imponeva l’obbligo di acquisire informazioni circa la specifica normativa applicabile e di adempiere correttamente e con l’ordinaria diligenza  all’obbligo di informazione e di conoscenza dei precetti normativi).


RITENUTO IN FATTO

1. Giuseppe Bartucci ricorre per la cassazione della sentenza emessa in data 20 aprile 2021 con la quale la Corte d’appello di Genova ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale della stessa città in data 25 settembre 2018, con la quale il ricorrente è stato condannato alla pena di mesi tre di arresto ed euro 9000 di ammenda per il reato di cui agli artt. 259 d.lgs. 3 aprile 2006 n.  152 e 2 punto 35 lett. f) e g) del regolamento CEE 1013/2016 perché effettuava, nella sua qualità di titolare della “Autodemolizione Fratelli Bartucci S.r.l.” una spedizione illegale di rifiuti presentando alla Dogana di Genova un container, destinato in Egitto, per il successivo smaltimento e/o recupero, contenente:
1)    rifiuti speciali non pericolosi, ed in particolare n. 49 assali con impianto frenante, n. 45 ammortizzatori, n. 5 balestre provenienti da attività di autodemolizione, e quindi ricambi auto usati attinenti alla sicurezza del veicolo e, considerati rifiuti in quanto non potevano essere commercializzati e risultati privi di idoneo attestato di revisione singola di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 209 del 2003, la cui esportazione verso paesi non aderenti all'EFTA (quale è l’Egitto) è vietata dall’art. 34 del Regolamento e, se finalizzata al recupero, richiede che la spedizione sia accompagnata dal documento previsto dall’allegato VII del regolamento, nel caso di specie mancante;
2)    rifiuti speciali pericolosi, ed in particolare n. 4 parti anteriori di auto (mozzi, scatole e piantoni sterzo, cambio, motore sospensioni e relativa carrozzeria) marca Toyota Auris, Nissan Vanette, Fiat I28, Fiat 127; n. 29 motori d'auto non bonificati. Tutti rifiuti e considerati tali in quanto non è stato realizzato alcun trattamento previsto dal d.lgs. n. 209 del 2003, la cui esportazione per lo smaltimento verso i paesi non aderenti all’EFTA è vietata dall’art. 34 del medesimo regolamento e, se finalizzata al recupero, verso i paesi non aderenti all’OCSE (quale è l'Egitto) è vietata in base all’art. 36 del regolamento CEE. Con l’aggravante di avere spedito rifiuti pericolosi. Fatto commesso in Genova il 5 novembre 2016.

2. Il ricorso, presentato dal difensore di fiducia, è affidato a due motivi, di seguito riassunti ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta vizio della motivazione (art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.), sul presupposto che la sentenza impugnata avrebbe illogicamente fondato il giudizio di responsabilità sulla base di due elementi, ossia: 1) che la tesi difensiva secondo la quale i beni oggetto di spedizione fossero di apprezzabile valore economico e idonei ad un reimpiego - tanto da non poter essere qualificati quali rifiuti - non sarebbe stata positivamente dimostrata e sarebbe stata smentita dal teste Andrea Rotundo, funzionario delle dogane, il quale aveva riferito come i beni oggetto di spedizione verso l’Egitto consistessero in parti di autoveicoli ammassati alla rinfusa, non idoneamente imballati e separati tra di loro; 2) che il teste aveva verificato la presenza di parti relative ad impianti frenanti e serbatoi di camion che presentavano ancora, al loro interno, cospicui residui di oli esausti (tanto da essere classificabili, in parte, quali rifiuti pericolosi).
Obietta il ricorrente come, da un lato, le dichiarazioni testimoniali, sulla cui base i giudici di merito avevano fondato il giudizio di responsabilità, fossero del tutto generiche, posto che il testimone non aveva specificato le caratteristiche dei singoli pezzi di ricambio che avrebbero comportato la loro classificazione quali rifiuti pericolosi e come, dall’altro, la motivazione della sentenza impugnata fosse perciò contraddittoria e manifestamente illogica laddove aveva tenuto conto, ai fini della conferma della sentenza di condanna di primo grado, solo di un passaggio della prova testimoniale, in cui il teste affermava di avere accertato visivamente che i motori non erano stati bonificati a causa dell’esistenza di abbondanti macchie di olio, laddove, agli atti del processo, non risultava alcun accertamento peritale, né alcuna deduzione o certificazione tecnica idonea a sostenere la tesi accusatoria, essendo altresì assente qualsiasi specificazione tecnica che permettesse di sussumere la fattispecie concreta nella fattispecie astratta prevista dalle norme di riferimento che, peraltro, non erano state esplicitamente richiamate ma soltanto date per presupposte e non analizzate.
Viceversa, il giudice d’appello non aveva tenuto in alcuna considerazione né la testimonianza a discarico del teste Linda Belsito, che aveva descritto dettagliatamente la procedura di bonifica dei pezzi di ricambio, in conformità al sistema di qualità aziendale, né quanto conformemente dichiarato dall’imputato in sede di esame, con la conseguenza di aver omesso la valutazione tanto della produzione documentale presentata, quanto delle prove testimoniali a discarico, cui i giudici di merito avevano fatto generico riferimento, disattendendole, senza tuttavia fornire, nelle sentenze, la motivazione che aveva indotto i giudici a non tenerne conto ai fini dell’accertamento della responsabilità.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen.), con particolare riferimento alla mancata indicazione nelle sentenze di primo e di secondo grado della specifica norma violata, con conseguente violazione del principio di legalità della norma penale, nonché con riferimento alla carenza dell’elemento materiale e psicologico del supposto reato.
Osserva che tutte le considerazioni in precedenza svolte varrebbero ad escludere la proiezione psicologica dell’imputato alla realizzazione di un’esportazione di rifiuti non bonificati, dal momento che la bonifica in oggetto era avvenuta con tutte le accortezze per l’ambiente e per la funzionalità stessa dei pezzi di ricambio e dei motori che l’imputato si accingeva a spedire al compratore.
Peraltro, i pezzi di ricambio sono stati definiti a posteriori come rifiuti dagli organi accertatori, assumendone l’asserita pericolosità.
Aggiunge il ricorrente come la legge asseritamente violata, richiamata nel capo di imputazione, presenterebbe punti di criticità in ordine al principio di legalità, che impone alla norma penale di essere sufficientemente specifica, pur mantenendo i propri caratteri di generalità e astrattezza, in quanto essa deve essere comunque tale da consentire al cittadino la individuazione puntuale della condotta che si intende incriminata. Invece, le norme di diritto speciale, per le quali il ricorrente è stato condannato, operano, al loro interno, una serie di richiami normativi che, a loro volta, richiamano altre disposizioni di legge penale nonché di leggi comunitarie, con ulteriori richiami ancora altre norme nazionali e sovranazionali. A queste lacune non avrebbe posto rimedio neanche il giudice di appello.
Sostiene che l’eccessiva genericità, complessità e farraginosità dei richiami normativi impediscono di addivenire ad una risposta certa sul comportamento vietato dalla legge e, a questo proposito, sarebbe assente una indicazione specifica nella motivazione della sentenza impugnata; né da un’attenta lettura delle norme richiamate nel capo di imputazione sarebbe dato comprendere quale fosse la prescrizione specificamente violata che aveva condotto alla condanna del ricorrente, posto che la sentenza di primo grado si riferiva genericamente alla mancata bonifica e all’assenza della revisione che, invece, era stata regolarmente eseguita e certificata, con la conseguenza che la condotta ascritta al ricorrente non sarebbe sorretta da un’effettiva volontà di commettere alcun illecito e nessun rimprovero poteva muoversi all’imputato neppure a titolo di colpa.
Del resto, la mancata specifica indicazione della norma di legge che si assume violata e la conseguente carenza nella indicazione dell’elemento materiale del reato renderebbe evidente l’insussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito, risolvendosi in un ulteriore vizio di motivazione della sentenza impugnata.

3. Il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso sul rilievo che il gravame sarebbe sostanzialmente diretto ad ottenere dalla Suprema Corte una rivalutazione nel merito dei fatti di causa, preclusa in sede di legittimità.

4. Con memoria datata 31 maggio 2022, il ricorrente ha ripreso ed ulteriormente sviluppato i due motivi del ricorso principale.

CONSIDERATO IN DIRITTO
    
1. Il ricorso è inammissibile.

2. Quanto al primo motivo, la Corte di merito - con adeguata motivazione priva di vizi di manifesta illogicità e, pertanto, insuscettibile di sindacato nel giudizio di legittimità -  ha osservato, in conformità all’approdo cui era pervenuto il primo giudice, la cui motivazione è stata espressamente richiamata, come la tesi secondo cui i beni oggetto di spedizione fossero di apprezzabile valore economico e idonei ad un reimpiego - tanto da non poter essere qualificati quali rifiuti - ed avessero perso tale requisito solo a causa dei danni riportati a seguito dei controlli doganali sia risultata smentita dalla testimonianza del funzionario delle dogane (Andrea Rotundo), il quale aveva riferito come i beni oggetto di spedizione verso l’Egitto consistessero in parti di autoveicoli, ab origine ammassati alla rinfusa, non idoneamente imballati e separati fra di loro. In particolare, il teste aveva verificato la presenza di parti relative ad impianti frenanti e serbatoi di camion che presentavano ancora, al loro interno, cospicui residui di oli esausti (tanto da essere classificabili, in parte, quali rifiuti pericolosi).
Alla luce di quanto oggettivamente accertato dal verbalizzante, la Corte territoriale ha sottolineato come fosse ozioso discettare sulla legittimazione o meno della ditta Palermo Service alla revisione delle componenti meccaniche, posto che le componenti esaminate, al momento del controllo, non presentavano le caratteristiche per poter essere considerate beni idonei alla commercializzazione, essendo risultate, al contrario, in pessime condizioni di conservazione e contenenti componenti chimici pericolosi (segno evidente di una mancata - ovvero insufficiente - bonifica).
Al cospetto di tale motivazione, contenente accertamenti di fatto adeguatamente e logicamente motivati che perciò si sottraggono al controllo di legittimità, il ricorrente ha reiterato le doglianze già motivatamente respinte dal giudice di primo grado confezionando un motivo di ricorso generico, manifestamente infondato e non consentito nel giudizio di legittimità.
Ne consegue che la qualifica giuridica di “rifiuto”, ai sensi del d.lgs. n. 152 del 2006, è stata correttamente motivata sulla base delle oggettive caratteristiche delle cose oggetto di spedizione. Né risulta condivisibile l’assunto del ricorrente secondo cui non sarebbero state valutate ed esaminate le prove a discarico.
La sentenza di primo grado, richiamata dalla Corte d’appello, aveva dato atto sia della versione difensiva dell’imputato secondo la quale si trattava di pezzi di ricambio riutilizzabili all’estero, nonostante la severità della nostra normativa, almeno prima del bistrattamento subito proprio durante le operazioni di verifica e sia del fatto che tale versione fosse è stata confermata dalla dipendente Linda Belsito, osservando che, al massimo, si poteva escludere la consapevolezza e la volontà di commettere il falso nella bolletta doganale, accusa dalla quale l’imputato veniva assolto.
A questo proposito, va ricordato che, in forza della consolidata giurisprudenza di legittimità, ai fini del controllo sul vizio di motivazione, ricorre la cd. “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (ex multis, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 - 01).
Ne consegue che la valutazione operata dal primo giudice in ordine alle prove a discarico deve ritenersi replicata dalla sentenza di appello e la conferma di ciò, ossia del fatto che la Corte di merito non abbia pretermesso la prospettazione difensiva, si ricava dalla circostanza che il secondo giudice ha tenuto conto del rilievo formulato dal ricorrente secondo cui le cose trasportate avessero perso gli originari requisiti in conseguenza dei danni riportati a seguito dei controlli doganali, affermando che tale tesi, da un lato, presupporrebbe un comportamento gravemente colposo,  se non addirittura doloso, da parte degli organi accertatori, che avrebbero modificato lo stato dei beni in questione, assunto che non risultava positivamente dimostrato ma che era stato addirittura smentito dalla testimonianza Rotundo che aveva descritto una situazione comprovata anche dalla documentazione fotografica acquisita agli atti.
Pertanto, neppure era necessario disporre perizia per accertare la natura di “rifiuto” delle cose spedite, atteso che i giudici di merito avevano precisato che i pezzi rinvenuti nel container si presentavano come ammassati alla rinfusa e non idoneamente imballati e separati l’uno dall'altro: alcuni erano rappresentati da cosiddette “musate” e relativi all’impianto frenante e a serbatoi di camion, quindi suscettibili d’inquinamento, tanto più che era stata riscontrata la presenza di olio nei motori e detta situazione era, in parte, immortalata dalla fotografie scattate al momento della verifica e versate in atti.
Ne consegue che, ai fini della qualificazione di una cosa come rifiuto, non è sempre necessaria una analisi tecnica disposta dal giudice, potendosi ricavare il relativo convincimento da altri elementi del processo (Sez. 3, n. 7705 del 28/06/1991, De Vita,) Rv. 187805-01), sicché tale attitudine non deve essere necessariamente accertata mediante perizia, potendo il giudice, secondo le regole generali, fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali, a titolo esemplificativo, le dichiarazioni testimoniali, i rilievi fotografici, le ispezioni o i sequestri.
Il primo motivo è, pertanto, manifestamente infondato.

3. Anche il secondo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza.
La Corte di merito ha sottolineato come la (indubbia) complessità della normativa di riferimento non rilevi nel caso di specie, posto che la materialità del fatto, nella sua evidenza, non consentiva di poter ipotizzare incertezze, da parte del ricorrente, sulla rilevanza penale di un tentativo di esportazione di beni che, per le loro caratteristiche morfologiche e di conservazione, non potevano che essere qualificabili come rifiuti.
A tale conclusione, la Corte territoriale è pervenuta sul corretto presupposto che il ricorrente, pur non esperto di diritto, fosse soggetto che, in virtù della sua qualifica professionale, nella sua qualità di titolare di una ditta specializzata nel settore - quale era la “Autodemolizione Fratelli BARTUCCI s.r.l.” - non poteva certamente invocare una ignoranza scusabile della norma penale che disciplina l’attività dallo stesso professionalmente svolta.
Infatti, nei casi in cui il soggetto svolga un’attività professionale, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che può ritenersi inevitabile l’ignoranza della legge penale, quando l’agente sia incorso nella trasgressione nonostante si sia attenuto correttamente e con l’ordinaria diligenza all’obbligo di informazione e di conoscenza dei precetti normativi, posto a carico di tutti i consociati quale esplicazione dell’ampio dovere di solidarietà sociale e l’accertamento di tale diligenza deve essere particolarmente approfondito per chi esercita professionalmente in un determinato settore un’attività alla quale inerisca la disciplina predisposta dalle norme violate (Sez. 3, n. 494 del 05/12/1995, dep. 1996, Rainone, Rv. 204062 - 01).
E’ stato, in particolare, chiarito che l’inevitabilità dell’errore su legge penale o la pretesa buona fede in base alla sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale non costituisce una causa indiscriminata di scusabilità, ma deriva da particolari situazioni in cui il predetto errore è inevitabile, sicché esiste sempre un obbligo incombente su chi svolge attività in un determinato settore di informarsi con molta diligenza sulla normativa esistente e, nel caso di dubbio, di astenersi dal porre in essere la condotta (Sez. 3, n. 1797 del 16/01/1996, Lombardi, Rv. 205384 - 01), precisandosi che, in tema di rifiuti, chi opera nel settore è gravato dell’obbligo di acquisire informazioni circa la specifica normativa applicabile, sicché, qualora deduca la propria buona fede, non può limitarsi ad affermare di ignorare le previsioni di detta normativa, ma deve dimostrare di aver compiuto tutto quanto poteva per osservare la disposizione violata (Sez. 3, n. 18928 del 15/03/2017, Valenti, Rv. 269911 - 01).
Nel caso in esame, non risulta che l’imputato, per altro particolarmente esperto del settore, si fosse adoperato per informarsi sulla possibilità di commercializzare le cose oggetto dell’imputazione, tanto più in un contesto nel quale egli stesso ha definito complessa la normativa di settore, circostanza che, a maggior ragione, gli imponeva l’obbligo di acquisire informazioni circa la specifica normativa applicabile e di adempiere correttamente e con l’ordinaria diligenza  all’obbligo di informazione e di conoscenza dei precetti normativi.

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’articolo 616 del codice di procedura penale, di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 07/06/2022