Problematiche nella valutazione del rischio nel caso di esposizioni plurime a cancerogeni ambientali
Federico Valerio - Istituto Nazionale Ricerca sul Cancro
Gli organizzatori di questo incontro mi hanno chiesto di inquadrare l’argomento dei rischi sanitari connessi con l’esposizione ai campi elettromagnetici nel più complesso ed articolato problema della cancerogenesi ambientale.
Pertanto, illustrerò i principi generali di cancerogenesi ambientale, scusandomi con gli addetti ai lavori per le inevitabili semplificazioni, che ci auguriamo peraltro utili ed interessanti per chi, non avvezzo a questo tipo di argomento, ha, in questo modo la possibilità di approfondire un tema complesso e di grande attualità.
Quali sono i meccanismi in base ai quali una cellula normale si trasforma in cellula neoplastica, ovvero con le caratteristiche di proliferazione ed invasività tipici di una cellula cancerogena?
Fig. 1 – Schema di una cellula.
In questa prima figura viene schematizzata una cellula. Al suo interno, nel nucleo, è presente il DNA con la sua tipica struttura a doppia elica. Nel DNA sono contenute tutte le informazioni che permettono alla cellula di esplicare le sue funzioni ed in particolare la sua duplicazione. Quando nell’organismo viene introdotta una sostanza ad alta affinità chimica con il DNA, che nella figura è rappresentato dal simbolo K, è possibile che questa sostanza estranea possa interagire con il DNA, legandosi ad esso in modo molto stabile. Tale legame può provocare una modificazione del messaggio genetico originale contenuto nel DNA. La cellula colpita, ha ora un messaggio genetico leggermente diverso da quello originale, ma il suo comportamento rientra ancora nella norma. La cellula danneggiata continua a riprodursi a ritmo normale anche per anni, finche un’altra sostanza reattiva, che può essere la stessa di prima, ma anche di composizione diversa, si lega alla stessa molecola di DNA. Questa volta è possibile che il danno aggiuntivo possa fare assumere alla cellula colpita le caratteristiche tipiche delle cellule tumorali, ovvero una riproduzione incontrollata e la capacità di trasferirsi in altre parti dell’organismo (metastasi).
Quindi il cancro è un fenomeno a tappe ed è un fenomeno che richiede tempo; dal momento dell’esposizione, alla trasformazione neoplastica clinicamente accertabile, possono passare decenni. Pertanto uno studio, come quello illustrato questa mattina, che dopo tre anni di esposizione ai campi elettromagnetici prodotti dai telefonini non ha evidenziato aumento di neoplasie, ha semplicemente dimostrato che i tempi medi di latenza di eventuali neoplasie indotte dalle onde elettromagnetiche sono superiori ai tre anni.
In base allo schema dello sviluppo di neoplasie da sostanze chimiche che vi è stato appena mostrato, si potrebbe dedurre che anche la più piccola esposizione a sostanze cancerogene potrebbe portare allo sviluppo di cancro. Per fortuna i nostri sistemi biologici si sono adattati alle avversità esterne ed hanno sviluppato tutta una serie di meccanismi di difesa che fanno si che tutte le varie tappe della trasformazione neoplastica possano essere in qualche modo neutralizzate. Un primo meccanismo di difesa consiste nel riparo del DNA danneggiato che, in questo modo riacquista l’integrità originaria (Fig. 1B). È anche possibile che la cellula trasformata venga riconosciuta come estranea dal sistema immunitario il quale provvede ad eliminarla.
È infine possibile che lo stesso cancerogeno, data la sua alta reattività, venga neutralizzato a seguito di reazione con anti ossidanti prodotti dall’organismo stesso o assimilati mediante la dieta. Tutti questi meccanismi di difesa, probabilmente, si sono sviluppati durante l’evoluzione, in misura proporzionale alla pressione sul genoma esercitato da agenti chimici e fisici presenti nell’ambiente in grado di danneggiare il DNA (radioattività naturale, radiazioni ultraviolette, cancerogeni naturali).
I meccanismi di cancerogenesi sono tuttavia, un po’ più complicati di quanto fino adesso vi ho illustrato.
Fig. 1B – Meccanismi di cancerogenesi.
Fig. 1C – Azione dei promotori nei meccanismi di cancerogenesi.
Se i cancerogeni sono i composti che modificano il DNA e quindi sono gli iniziatori del fenomeno cancro, esistono altri composti o fattori che chiamiamo promotori (con la sigla P nella figura 1C), che non sono in grado di modificare il DNA, ma possono interagire con i meccanismi di riparo e di autodifesa in precedenza illustrati, rendendoli meno efficienti.
In definitiva gli agenti promotori possono accelerare le tappe di trasformazione neoplastica e fanno si che la cellula colpita da un cancerogeno possa più rapidamente diventare cellula tumorale.
Se questa è la storia biologica dello sviluppo neoplastico, che rapporto esiste tra l’entità del rischio di chi è esposto a sostanze cancerogene e la quantità di cancerogeno a cui è esposto? In particolare, quanti casi di tumore si possono riscontrare in una popolazione in base alla dose media di cancerogeno accumulata da ognuno dei componenti di questa popolazione nel corso della propria vita ?
L’ipotesi che oggi va per la maggiore è che tra queste due grandezze (dose-effetto), esista un rapporto di tipo lineare, senza soglia (Figura 2). Ciò significa che il rischio è nullo solo in assenza di esposizione e che aumenta linearmente con la dose della sostanza cancerogena (K) che viene progressivamente assorbita dall’organismo. Ovviamente ogni cancerogeno ha una propria reattività; quindi l’effetto biologico (tempo di latenza, numero di tumori a parità di dose individuale) sarà diverso a seconda della potenza oncogena posseduta da ogni singolo cancerogeno.
Quindi, a parità di dose, un forte cancerogeno può indurre più neoplasie di un cancerogeno debole. Ma cosa succede se, come è usuale, in natura si è esposti contemporaneamente a più agenti cancerogeni o a più promotori (P)? In tal caso, gli studi di cancerogenesi ambientale hanno evidenziato che, spesso, l’effetto non è additivo ma moltiplicativo, ovvero il rischio è più elevato (K+P) di quello atteso in base all’effetto di ogni singolo cancerogeno (K).
Questo, ad esempio, è quanto è stato sperimentalmente evidenziato in individui esposti contemporaneamente a fumo di sigarette ed amianto.
Fig. 2 - Rapporto tra la dose del cancerogeno ed il rischio di cancro.
Un fumatore ha, in media, un rischio di cancro 10 volte superiore a quello di un non fumatore; ma se questo stesso fumatore è esposto anche ad amianto, il rischio aumenta di 50 volte, più di quanto risulta dall’esposizione al solo amianto. Questo enorme incremento del rischio è dovuto al fatto che l’esposizione a più agenti iniziatori e promotori fa contemporaneamente accelerare più tappe dello sviluppo neoplastico.
Quindi, se solo in determinati ambienti di lavoro sono possibili elevate esposizioni a singoli composti cancerogeni (amianto, cromo, benzene, ecc.), nella situazione reale di tutti i giorni ognuno di noi è esposto, a basse dosi, a numerose sostanze con un riconosciuto effetto cancerogeno.
L’elenco nella tabella I è solo un esempio dei cancerogeni noti che si possono trovare comunemente nell’aria, nell’acqua, nel cibo.
Volutamente questo elenco termina con un punto interrogativo che rappresenta tutti i composti o gli agenti cancerogeni, mutageni e genotossici a cui siamo normalmente esposti ma che non misuriamo o di cui ancora ignoriamo gli effetti.
Dietro questo punto interrogativo ci potrebbero essere anche i campi elettromagnetici, al centro della nostra odierna discussione.
I cambiamenti in atto nel settore delle telecomunicazioni possono quindi di aggiungere un nuovo fattore di rischio (magari con effetto moltiplicativo) ad una lunga serie di altre sostanze genotossiche.
Quindi se attualmente le popolazioni urbane sono esposte “normalmente” a benzene, formaldeide, idrocarburi policiclici, aromatici, amianto, ecc., in base ai cambiamenti tecnologici in atto, le stesse popolazioni potrebbero essere “normalmente” esposte anche a campi elettromagnetici di intensità superiore a quella a cui, nel corso dell’evoluzione, si è adattata la nostra specie.
Se si confermasse che i campi elettromagnetici interagiscono con il sistema immunitario o con i meccanismi di duplicazione cellulare, questi effetti biologici potrebbero essere la spiegazione delle cause di un possibile rischio sanitario indotto dall’esposizione a campi elettromagnetici, associata a cancerogeni ambientali.
Come avete sentito dagli interventi che mi hanno preceduto, esiste anche il problema di interpretare correttamente i dati epidemiologici derivanti da studi su popolazioni cronicamente esposte a campi elettromagnetici.
Ritengo che sia vero quanto è stato affermato oggi, ovvero la difficoltà di effettuare un corretto studio epidemiologico sul campo, in grado di poter distinguere l’effetto della sola esposizione a campi elettromagnetici rispetto agli effetti prodotti dai così detti fattori confondenti (fumo di sigarette, esposizioni lavorative, inquinamento ambientale).
La verità è che noi non siamo “cavie” le cui variabili sperimentali possono essere valutate singolarmente e separatamente, sotto il controllo dello sperimentatore.
Purtroppo (o per fortuna) gli esperimenti sugli umani non possono essere “puliti”, nel senso che gli umani, oltre che ai composti oggetto di studio, sono inevitabilmente esposti ad altre sostanze o fattori cancerogeni, difficilmente controllabili e spesso sconosciuti.
Ciò significa che negli studi epidemiologici ambientali è estremamente delicato decidere a priori quale sia la popolazione di controllo (non esposta) e quale quella esposta all’agente di cui si vuole studiare l’effetto. Nel nostro caso, se è abbastanza facile individuare qual è la popolazione esposta a campi elettromagnetici, in base alla residenza o al possesso di “telefonino”, risulta più difficile trovare una popolazione di controllo che si diversifichi da quella potenzialmente a rischio solo per una minore esposizione a campi elettromagnetici.
Ad esempio, si sa quanta formaldeide o benzene abbiano mediamente inalato i soggetti esposti a campi magnetici e i rispettivi controlli, negli studi epidemiologici illustrati questa mattina?
Quasi sicuramente la risposta è negativa, in quanto esistono pochi studi sulla esposizione della popolazione generale a questi due cancerogeni umani. A tal riguardo, i genovesi fanno eccezione, in quanto recentemente sono stati coinvolti in un importante studio, finalizzato a valutare l’esposizione individuale a cancerogeni noti (formaldeide, benzene, benzopirene) di soggetti residenti in aree urbane.
La Figura 3 mostra quale sia la distribuzione dell’esposizione giornaliera a formaldeide di un campione di genovesi molto eterogeneo, composto sia da bambini delle medie che da pensionati. Complessivamente sono stati studiati 162 soggetti che, per 24 ore, a casa, in ufficio, a scuola, nella propria camera da letto, hanno indossato un campionatore portatile che ha permesso di misurare l’esposizione a questa sostanza cancerogena.
Fig. 3 – Esposizione personale a formaldeide.
La distribuzione percentuale delle esposizioni mostra come una parte della popolazione (20 %) sia esposta a concentrazione media di formaldeide intorno a 15 microgrammi per m3, mentre una percentuale simile è contemporaneamente esposta mediamente a 40 microgrammi per m3, una quantità significativamente più elevata.
Fig. 4 – Esposizione personale a formaldeide.
Se, ad esempio, negli studi epidemiologici che ci sono stati illustrati questa mattina, la popolazione di controllo (non esposta a campi elettromagnetici) risultasse, all’insaputa dei ricercatori, composta in prevalenza dai soggetti più esposti a formaldeide (e quindi più a rischio di sviluppare neoplasie) è evidente che questo fatto altererebbe in modo grave i risultati dello studio. Infatti la loro conclusione (apparentemente corretta) potrebbe essere che i campi elettromagnetici riducono il rischio di neoplasie!
Ovviamente gli epidemiologi attivano molte contromisure per evitare conclusioni errate come questa, ma l’esempio mostrato, certamente paradossale, ha il solo scopo di far comprendere la complessità del problema e la necessità di non arrivare a conclusioni affrettate a causa di informazioni insufficienti.
Quindi negli studi epidemiologici non solo bisogna avere informazioni accurate sull’entità dell’esposizione a campi elettromagnetici, ma bisogna avere informazioni altrettanto accurate sull’esposizione ad altre sostanze cancerogene con effetti simili, quali ad esempio il benzene, che induce anch’esso leucemie.
Per ribadire il concetto della possibilità di errori interpretativi che possono derivare da una non adeguata conoscenza dell’esposizione a cancerogeni ambientali vi chiedo di rispondere a questa domanda: “A vostro parere, i vigili urbani sono più esposti a cancerogeni rispetto al resto della popolazione urbana?”.
Fig. 5 – Esposizione personale a Benzo(a)Pirene.
Fig. 6 – Esposizione personale a Benzo(a)Pirene.
La percezione comune dovrebbe suggerirVi una risposta positiva.
I dati sperimentali, tuttavia, mostrano che non è vero che tutti i vigili siano più esposti a cancerogeni, rispetto al resto della popolazione. Il grafico in Figura 5 mostra la distribuzione dell’esposizione individuale a benzopirene (un riconosciuto cancerogeno per l’uomo, responsabile in particolare, di neoplasie polmonari) di 54 vigili genovesi durante le quattro ore di servizio esterno.
Anche in questo caso si osserva come l’esposizione individuale ad un cancerogeno possa essere molto diversa.
Il 20% dei vigili urbani genovesi è esposto mediamente a 1,3 nanogrammi/m3 di benzopirene, mentre un altro 20% risulta esposto in media a quantità circa 10 volte maggiore (10 nanogrammi/m3).
Tale differenza è molto probabilmente legata al tipo di percorso effettuato durante il controllo ed in particolare al tempo trascorso lungo strade a canyon, con traffico elevato ovvero le zone urbane maggiormente inquinate dal traffico.
Pertanto una parte non trascurabile di vigili ha una esposizione probabilmente molto simile a quella di un normale cittadino che passa qualche ora della propria giornata in auto o a passeggio lungo strade trafficate.
In conclusione, è probabile che i rischi sanitari connessi con l’esposizione a campi elettromagnetici non siano particolarmente elevati, ma prima di decidere che essi sono trascurabili o nulli, occorre effettuare ulteriori studi che abbiano in partenza i requisiti di accuratezza richiesti da questo tipo di indagine.
Un altro dato da non trascurare, per valutare correttamente l’entità di un eventuale rischio, è che il problema dei campi elettromagnetici è collegato ad un mercato in grande espansione (pensiamo soprattutto alla telefonia cellulare) che esporrà direttamente milioni di utenti, anche in giovane età, e milioni di persone residenti nel raggio di azione dei ripetitori.
Tale circostanza rafforza la necessità che le scelte non vengano fatte solo sulla spinta di interessi economici e di modelli comportamentali artificiosamente indotti, ma anche alla luce di rigorosi studi, effettuati da soggetti indipendenti, che tengano conto della complessità del problema in base a quanto ho qui sinteticamente illustrato.
Solo in tal modo sarà possibile mettere a disposizione del legislatore informazioni attendibili che gli permetteranno di fare scelte corrette, atte a regolamentare la materia e a tutelare di più e meglio la nostra salute.