IL
DIRITTO ALL’INFORMAZIONE AMBIENTALE
di
Viviana Fox
Per
la migliore comprensione della reale portata precettiva della pronuncia in
rassegna, anche alla luce della recentissima Direttiva 2003/4/CE che riscrive la
precedente normativa derivata, si impone, in via preliminare, un sintetico
inquadramento dell’istituto del diritto all’informazione ambientale, con
riguardo sia all’ordinamento giuridico italiano che a quello sovranazionale
(comunitario e internazionale).
1.
– Le norme quadro racchiuse nella legge 349/1986
Il
punto di partenza per un’analisi del diritto di accesso all’informazione in
materia ambientale nell’ordinamento interno è rappresentato dalla nota L. 8
luglio 1986 n. 349, istitutiva del Ministero dell’Ambiente.
In
particolare l’art. 14, comma 3, della legge citata, testualmente dispone che
“Qualsiasi cittadino ha diritto di
accesso alle informazioni sullo stato dell’ambiente disponibili, in conformità
delle leggi vigenti, presso gli uffici della pubblica amministrazione e può
ottenerne copia previo rimborso delle spese effettive di ufficio il cui importo
è stabilito con atto dell’amministrazione interessata” .
Si
tratta di una disposizione dalla portata estremamente innovativa, emanata in un
momento storico in cui la segretezza era ritenuta indispensabile al corretto
funzionamento dell’Amministrazione pubblica, mentre la pubblicità e
l’accesso alle informazioni ed alla documentazione amministrativa erano
considerate l’eccezione[1].
Ed
infatti, solo nel 1990, quindi ben quattro anni dopo l’entrata in vigore della
normativa in esame, il legislatore, da un canto, ha riconosciuto il diritto di
accesso agli atti delle Amministrazioni comunali e provinciali in funzione di
controllo democratico (art. 7 e ss. L. 142/1990); dall’altro, in strettissima
sequenza, ha introdotto l’istituto generale dell’accesso alla documentazione
nei confronti di tutte le Amministrazioni pubbliche, anche al fine di dare
effettività agli isitituti di partecipazione procedimentale introdotti dalla
stessa legge sulla trasparenza (art. 22 e ss.
L. 241/1990).
Tuttavia,
queste forme generali di accesso non si sono sovrapposte alla disciplina
precedentemente dettata dalla l. n. 349/1986 in tema di informazione ambientale,
che, anzi, resta in vigore in virtù del suo carattere di specialità.
Peraltro,
le due discipline (quella generale e quella speciale, relativa all’ambiente)
non coincidono quanto a campo soggettivo di applicazione, poiché il diritto
all’informazione ambientale, a differenza del più generale diritto di accesso
alla documentazione amministrativa, non è riservato alle sole parti interessate
al procedimento, o ai cittadini singoli ed associati portatori di posizioni
giuridiche differenziate, o ai cittadini residenti, ma è esteso dall’art. 14
cit. a qualunque cittadino, ed è
pertanto rivolto erga omnes [2].
Anche
alla luce della suddetta normativa sulla trasparenza, l’indeterminata
formulazione dell’art. 14 l. 349/1986, con particolare riferimento
all’inciso secondo cui l’accesso è consentito a qualunque cittadino “in conformità delle leggi vigenti”, ha alimentato diversità di
opinioni in dottrina.
Secondo
un primo orientamento, la disposizione normativa in esame avrebbe conferito a
qualsiasi cittadino un diritto
soggettivo incondizionato di accedere all’informazione relativa all’ambiente
disponibile presso la p.A. A fronte di tale diritto, incomberebbe sulle Autorità
pubbliche il dovere di fornire le informazioni in proprio possesso senza poter
esercitare alcuna forma di discrezionalità in merito alla accoglibilità delle
richieste di informazione pervenute. I sostenitori di questo primo orientamento
interpretano l’inciso “in conformità
delle leggi vigenti” nel senso che le uniche circostanze nelle quali una
richiesta di informazioni può essere respinta sono quelle espressamente
previste dalla legge.[3]
Con
tali conclusioni non concorda altra parte della dottrina che adotta
un’interpretazione più cauta dell’inciso “in
conformità delle leggi vigenti” sul rilievo della natura programmatica e
non immediatamente precettiva della disposizione normativa in esame, che si
sarebbe limitata a riconoscere in termini generali il diritto di accesso in
materia ambientale, il cui esercizio resterebbe quindi disciplinato dalle “leggi
vigenti”.[4]
Per
quel che riguarda, l’elaborazione giurisprudenziale, gli unici due precedenti
noti provengono dal Giudice amministrativo.[5]
In entrambi i casi si è affermato che l’art. 14, comma 3, cit. è inteso a
conferire un diritto soggettivo di accesso alle informazioni relative
all’ambiente, finalizzato al soddisfacimento di un interesse privato.
Peraltro, essendosi qualificato tale diritto come manifestazione particolare del
diritto di accesso p.A. regolato dalla l. 241/90, tutte le questioni non
disciplinate dalla legge 349/1986, quali ad esempio quella della ampiezza del
diritto di accesso, delle cause di esclusione dell’accesso e delle Autorità
competenti a conoscere le controversie in materia di accesso all’
informazione, sono risolte dai TAR facendo riferimento alle norme della l.
241/1990.
2.
– Il diritto all’informazione previsto dal D. Lgs. 39/1997 attuativo della
direttiva 90/313/CE.
Il
carattere di specialità della informazione ambientale, già riconosciuto
dall’art. 14 della l. 349/86, che invero non ha ricevuto nella pratica una
significativa e costante applicazione, ha poi trovato consacrazione, nel nostro
ordinamento, ad opera del D. Lgs. 25 febbraio 1997 n. 39, che ha finalmente dato
attuazione ai principi dettati dalla Direttiva 90/313/CEE.
La
citata normativa derivata costituisce il primo strumento legislativo a livello
internazionale che riconosce un diritto di accesso all’informazione ambientale
e, soprattutto, ad inquadrarlo in una prospettiva estensiva sia sotto il profilo
oggettivo che soggettivo.
Ed
infatti, la normativa comunitaria, muovendo dal presupposto che una migliore
protezione dell’ambiente si realizza attraverso una corretta e libera
informazione del cittadino, esclude (a differenza della coeva legge interna
sulla trasparenza di cui alla L. 241/1990) ogni possibile forma di selezione dei
soggetti legittimati, operando un esteso riconoscimento del diritto di accesso
che prescinde dall’esistenza e dalla verifica di una qualsivoglia posizione di
interesse qualificato.
Il
D.Lgs. 39/1997, sulla falsariga della disciplina comunitaria, all’esplicitato
fine di “assicurare a chiunque la libertà
di accesso alle informazioni relative all’ambiente” (art. 1), stabilisce
all’art. 3 che “le autorità pubbliche
sono tenute a rendere disponibile le informazioni relative all’ambiente a chiunque
ne
faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse”.
Si tratta, dunque, di una tutela che è stata opportunamente definita “desoggettivata”[6], in
quanto, da un parte, non limita, come invece fa l’art. 14 L. 349/86, la
titolarità del diritto a qualunque
cittadino, recependo invece il peculiare carattere di diffusività spaziale
e temporale del diritto dell’ambiente come diritto della persona umana;
dall’altra, non impone al richiedente di allegare uno specifico interesse
all’acquisizione delle informazioni richieste, ritenendo evidentemente che
esso sia in re ipsa proprio perché
ogni persona è titolare del diritto all’ambiente.
La
giurisprudenza amministrativa ha anche chiarito che la legittimazione
all’accesso alle informazioni sullo stato dell’ambiente spetta non solo alle
persone fisiche, ma anche alle associazioni di protezione ambientale, sancendo
che la condizione di azionabilità del diritto di accesso è riconosciuta in
ragione della protezione dell’ambiente senza che sia necessario un concreto,
personale e specifico interesse.[7]
Non
meno significativa risulta la dilatazione dell’accesso, operata dalla citata
Direttiva, sul versante oggettivo, attraverso l’accoglimento di una nozione di
documento ostensibile ben più ampia di quella delineata dall’art. 22 della l.
241/1990.
In
particolare, l’art. 2, lett. a), del D. Lgs. 39/1997, riproducendo
pedissequamente il dettato comunitario[8],
include nel novero delle informazioni relative all’ambiente “qualsiasi
informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora o contenuta nelle basi
di dati riguardante lo stato delle acque, del suolo, della fauna, della flora,
del territorio e degli spazi naturali, nonchè le attività, comprese quelle
nocive, o le misure che incidono o possono incidere negativamente sulle predette
componenti ambientali e le attività e le misure amministrative e i programmi di
gestione dell’ambiente”.
Il
concetto di “misura amministrativa”
è stato poi interpretato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee[9] nel senso di ricomprendere non semplicemente l’atto
amministrativo formale, ma anche dati informali e valutazioni rese dalla
pubblica Amministrazione anche nell’ambito di procedimenti complessi e non
ancora conclusi.
Si
tratta, come è evidente, di una nozione assai ampia, volutamente estesa dal
legislatore comunitario al fine di comprendere al suo interno ogni forma
di valutazione e di dato inerente alla materia ambientale, con la consapevolezza
che solo attraverso una reale e completa informazione dei cittadini si possa
giungere ad una responsabilizzazione degli stessi e ad una cooperazione tra
Autorità amministrativa e privato nella gestione del bene ambiente[10].
Una
siffatta estensione concettuale non può, tuttavia, non determinare alcuni
problemi esegetici, problemi che il giudice amministrativo dovrà affrontare
ogniqualvolta occorra valutare ciò che di fronte ad ogni singola fattispecie,
debba effettivamente essere considerato “informazione ambientale”, oggetto
del relativo diritto di accesso.
Così,
per l’appunto, nel caso di specie, il TAR Liguria prima, e in sede di appello,
il Consiglio di Stato sono giunti a conclusioni opposte nello stabilire, ai fini
della applicazione della normativa de qua,
se la documentazione riguardante concessioni edilizie per la costruzione di
opere pubbliche e private in un’area di pregio naturalistico molto elevato
possa qualificarsi in termini di “informazione relativa all’ambiente”.
Tuttavia,
l’elasticità e l’ambiguità delle espressioni legislative utilizzate nella
Direttiva - connaturate alla natura ed alla funzione della fonte comunitaria
derivata, che reca previsioni rivolte ad ordinamenti nazionali eterogenei - e
nel relativo decreto di attuazione possono essere ridimensionate attraverso il
costante richiamo alla ratio della normativa comunitaria in materia, che è quella di
garantire il più ampio accesso alle informazioni relative all’ambiente.
Pertanto,
ogni soluzione interpretativa dovrà essere filtrata alla luce di tale esigenza.
La
soluzione accolta dal Consiglio di Stato nella decisione annotata sembra invece
non tener conto della ratio di ampia trasparenza e pubblicità che informa il dettato
comunitario e, di conseguenza, la disciplina nazionale di recepimento.
Ed
infatti, si legge nella sentenza in epigrafe che “Nè
può darsi credito alla tesi secondo la quale la definizione di ‘ambiente’
desumibile da quest'ultima norma (art. 2, D.Lgs. 39/1997 - N.d.A.)
sia tale da comprendere "tutti gli atti che comportino trasformazioni
del territorio" (pag. 18 della memoria difensiva del 18 ottobre
2002). Giacché in tal modo le materie dell'urbanistica e dell'edilizia si
confonderebbero con l'ambiente, in contraddizione con una linea evolutiva della
legislazione nazionale che ha portato a distinguere (articolo 117 comma secondo
e terzo della Costituzione nel testo sostituito dall'articolo 2 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ‘la tutela dell'ambiente,
dell'ecosistema e dei beni culturali’, come materia attribuita alla
legislazione esclusiva dello Stato, dal ‘governo del territorio’ affidato
invece alla legislazione concorrente”.
Senza
volersi addentrare in una disamina eccessivamente approfondita della statuizione
in esame, che richiederebbe una più puntuale conoscenza degli atti di causa, ci
si limita a sottolineare che una interpretazione così rigida e preclusiva della
definizione del concetto di informazione ambientale, oltre a contrastare con la ratio
sottesa alla normativa comunitaria di settore, si pone in stridente palese
contraddizione con un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza secondo
il quale “Le nozioni di ambiente ed
urbanistica ormai dopo una decennale evoluzione normativa e giurisprudenziale,
possono considerarsi pressoché equivalenti. L’urbanistica infatti, intesa
come assetto del territorio, risulta, nella sua stessa essenza, una disciplina
che interferisce con tutti gli interessi particolari che sul territorio stesso
necessariamente si localizzano (...) Naturalmente tra questi interessi vi è
anche la tutela dell’ambiente. In altri termini, l’urbanistica va
considerata non tanto di per sè, quanto come sistema di organizzazione di vari
valori od interessi presenti nel territorio.” (TAR Veneto, Sez. III,
28.10.2002, n. 6118).
Sembra,
inoltre, che la pronuncia in rassegna non consideri i principi recentemente
affermati da Corte Cost., 26 luglio 2002, n. 407[11],
che ha chiarito come, nell’assetto di competenze delineato dal Titolo V della
Costituzione nel testo novellato dalla legge di revisione costituzionale n.
3/2001, la tutela dell’ambiente non configuri ambito materiale in senso
tecnico, ma rappresenti piuttosto valore costituzionalmente protetto e
trasversale (facendone discendere la configurabilità di competenze regionali in
materia). Sulla scorta di siffatti principi deve ritenersi che ricadano
nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 39/1997 anche quei documenti e
quelle informazioni che, pur afferendo all’esercizio di potestà (come quelle
in materia edilizia ed urbanistica) la cui causa tipica non sia riconducibile,
in via immediata, alla materia ambientale, possano comunque assumere rilievo a
fini di protezione di valori ed interessi alla stessa funzionalmente correlati
in ragione dell’oggetto del potere esercitato e delle concrete modalità di
esercizio.
Peraltro,
l’orientamento restrittivo accolto dal Consiglio di Stato risulta ancor più
ingiustificato ove si consideri la disciplina del diritto all’informazione
ambientale dettata dall’ordinamento internazionale, sul quale si tornerà più
avanti.
Né
tantomeno può ipotizzarsi che la fatti specie rientri fra quelle in cui la
libertà di informazione è suscettibile di restrizioni.
L’art.
4 del D. Lgs. 39/1997, infatti, esclude il diritto all’informazione ambientale
liddove dalla divulgazione dei dati possa derivare un danno all’ambiente
stesso, ovvero quando sussiste l’esigenza di salvaguardare determinati
interessi ritenuti prevalenti, quali: riservatezza delle deliberazioni,
relazioni internazionali, difesa nazionale, ordine e sicurezza pubblica,
questioni che sono in discussione o sotto inchiesta od oggetto di azione
investigativa preliminare, riservatezza commerciale ed industriale, riservatezza
dei dati o schedari personali, materiale fornito da terzi (art. 4, comma 1). Il
rifiuto può essere altresì opposto allorché la richiesta sia talmente
generica da non consentire l’individuazione dei dati da mettere a disposizione
(art. 4, comma 5)
A
specificazione della norma comunitaria, quella nazionale precisa all’art. 4,
comma 2, che “le informazioni non
possono essere sottratte all’accesso se non quando sono suscettibili di
produrre un pregiudizio concreto ed attuale agli interessi indicati nel comma
1” .
La
giurisprudenza, in sede di interpretazione dell’art. 4, comma 2, cit., ha
chiarito che gli interessi a presidio dei quali è posta la limitazione in
discorso sono interessi ben diversi da quello ambientale. Viene, dunque, in
considerazione, a tal fine, non già il “il
pregiudizio concreto ed attuale all’ambiente”, ma gli interessi dinanzi
passati in rassegna. Pertanto, ove l’accesso alle informazioni ambientali
possa “produrre un pregiudizio concreto
ed attuale” ad uno o più di detti interessi, le informazioni in questione
potranno legittimamente essere sottratte all’accesso, con la puntuale
indicazione, in sede di diniego, dell’interesse che tale limitazione
giustifichi e del pregiudizio allo stesso paventato per effetto della
divulgazione[12].
Ciò
considerato, nessuna delle ipotesi legali di sottrazione all’accesso sembra
ricorrere nel caso in esame.
3.
– La Convenzione di Aarhus e la recentissima Direttiva 2003/4/CEE
Il
delineato quadro normativo nazionale in materia di informazione ambientale,
oltre a dare attuazione della Direttiva comunitaria 90/313/CEE, va oggi
rivisitato alla luce della normativa internazionale, peraltro applicabile in un
ambito territoriale ben più vasto di quello comuntario.
La
materia, in particolare, nel 1998 è stata disciplinata dalla Convenzione di
Aarhus sull’accesso all’informazione, sulla partecipazione del pubblico e
sul ricorso alla giustizia in materia ambientale, ratificata dalla Repubblica
italiana con L. 16 marzo 2001 n. 108 e vigente dal mese di ottobre 2001, data in
cui è stato raggiunto il numero minimo di ratifiche previsto dall’accordo.
La
definizione di informazione ambientale contenuta nella Convenzione è
intenzionalmente di ampia portata ed è suddivisa in tre parti:
-
lo stato degli elementi dell’ambiente;
-
fattori ambientali, attività e misure;
-
lo stato della salute e della sicurezza umana, le condizioni della vita umana, i
luoghi culturali e le strutture.[13]
E’,
pertanto, compresa in tale concetto qualsiasi informazione disponibile in forma
scritta, visiva sonora o contenuta in banche dati circa lo stato delle acque,
dell’aria, del suolo, della fauna, della flora, del territorio e degli spazi
naturali, degli organismi geneticamente modificati, nonché quelle riguardanti
sostanze, energie, rumori o radiazioni, accordi ambientali, pratiche,
legislazioni, piani, programmi che influenzano o potrebbero influenzare
l’ambiente.
La
Convenzione, oltre ad ampliare l’ambito oggettivo della direttiva 90/313 ne
precisa il quadro soggettivo, riconoscendo espressamente, per la prima volta nel
diritto internazionale, il ruolo delle associazioni di protezione ambientale non
governative ed il loro diritto ad accedere alle informazioni sullo stato
dell’ambiente.
E’
presumibile che tale normativa internazionale, ispirata ad un particolare favor
per l’accessibilità delle informazioni ambientali, abbia influenzato la
revisione della Direttiva n. 90/313/CEE conclusasi di recente con l’emanazione
della nuova Direttiva 2003/4/CEE (G.U.C.E. del 14.2.2003 n. 41)[14].
In
realtà si è precisato che “è opportuno, nell’interesse di una maggiore trasparenza, sostituire
la direttiva 90/313/CEE anziché modificarla, in modo da fornire agli
interessati un testo legislativo unico, chiaro e coerente” (direttiva
2003/4/CE – considerando 6).
Tale
Direttiva, che, per quel che qui rileva, fornisce una definizione di
informazione ambientale più ampia e completa della precedente e per alcuni
aspetti anche della Convenzione di Aarhus, stabilisce anche i contenuti ritenuti
minimi della documentazione amministrativa disponibile per il pubblico in
generale.
Si
legge, infatti, nel considerando 10
della fonte derivata, che “la
definizione di informazione ambientale dovrebbe essere chiarita per comprendere
l’informazione, in qualsiasi forma, concernente lo stato dell’ambiente, i
fattori, le misure o le attività che incidono o possono incidere
sull’ambiente ovvero sono destinati a proteggerlo, le analisi costi-benefici e
altre analisi economiche usate nell’ambito di tali misure e attività, nonché
l’informazione sullo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la
contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, i siti e
gli edifici di interesse culturale, nella misura in cui essi siano o possano
essere influenzati da uno qualsiasi di questi elementi.”
Ma
ancor più rilevante, ai fini che qui rilevano, è la dettagliata disciplina
dell’istituto dell’accesso all’informazione ambientale su richiesta,
racchiusa nell’art. 3 della Direttiva in esame.
In
particolare, il comma 3 dell’art. 3 della Direttiva cit., stabilisce che: “Se
la richiesta è formulata in modo eccessivamente generico, l’autorità
pubblica chiede al più presto e non oltre il termine di cui al paragrafo 2,
lettera a) (quanto prima possibile o al più tardi entro un mese dal
ricevimento della richiesta) al
richiedente di specificarla e lo assiste in tale compito (...)” . Liddove,
di contro, si è illustrato come la previgente normativa derivata (art. 4)
consentisse in ipotesi siffatte di opporre al richiedente il diniego
all’accesso.
Vero
è che la Direttiva 2003/4/CE dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il
14 febbraio 2005 e che pertanto le disposizioni dianzi richiamate non sono allo
stato precettive; tuttavia i principi innovativi enunciati dalla Direttive ed il
favor per l’ampliamento
dell’accesso ad essa sotteso dovrebbero costituire parametri imprescindibili
ai fini della interpretazione e della applicazione delle norme contenute nel D.
Lgs. 39/1997.
Alla
luce di tali rilievi, la soluzione adottata nella decisione in commento non
sembra allineata con le esigenze di estrema trasparenza e pubblicità che
informano il diritto di accesso in materia ambientale sia in ambito europeo che
internazionale.
A
questo punto, non resta che augurarsi che lo Stato italiano si determini al
sollecito recepimento della Direttiva 2003/4/CE, evitando i ritardi verificatisi
nella attuazione della precedente Direttiva in materia ambientale, avvenuta a
distanza di ben sette anni dall’emanazione della fonte comunitaria.
[1]
M. Balletta e B. Pillon, Il danno
ambientale Principi ed esperienze - Giurisprudenza - Normativa - Documenti,
Sistemi Editoriali, 2002, 19 ss
[2]
G. MORANDI, Informazione ambientale e
accesso ai documenti amministrativi, in Riv. Giur. Ambiente, 1992
[3]
Si vedano M. LIBERTINI, Il diritto
all’informazione in materia ambientale, in Rivista
Critica del Diritto Privato, 1989, 640; U. SALANITRO, Il diritto all’informazione in materia ambientale alla luce della
recente normativa sull’accesso ai documenti della Pubblica
Amministrazione, in Riv. Giur. Ambiente, 1992, 411; T. E. FROSINI, Sul nuovo diritto all’informazione ambientale, in Giurisprudenza
Costituzionale, 1992, 4463.
[4]
Si vedano P. LANDI, La tutela
processuale dell’ambiente, Cedam, Padova, 1991, 302; M. MONTINI, Il diritto di accesso all’informazione in materia ambientale: la
mancata attuazione della direttiva CE 90/313, in Riv. Giur. Ambiente
1997, 325.
[5]
Si veda TAR Sicilia, Catania, II sez., 9.4.1991, n.118; TAR Emilia –
Romagna, Bologna, sez. II, 20.2.1992, n. 78
[6]
Cfr. TAR Lombardia, Brescia, 30.4.1999, n. 397.
[7]
Cfr. TAR Toscana, III sez., 19.12.2000, n. 2731, ove il diritto viene
riconosciuto ad una associazione che, come il WWF, ha tra i fini
istituzionali quello della valorizzazione della natura e dell’ambiente.
[8]
Si veda l’art. 2, lett. a), della Direttiva n. 90/313/CE.
[9]
Corte di Giustizia CE, sez. VI, 17.6.1998, causa C-321/96.
[10]
MIRATE S., Diritto di accesso e
informazione relativa all’ambiente: il Consiglio di Stato applica il D.
Lgs. 39/97, in Urb. e appalti, 3/2001, 322 e ss.
[11]
in Giust.it. – www.giust.it
[12]
Cfr. TAR Lombardia, Brescia, 30.4.1999, n. 397.
[13]
HARRISON J., “Legislazione
ambientale europea e libertà di informazione: la Convenzione di Aarhus”, in
Riv. giur.amb. 1/2000, 27 e ss.
[14]
Il testo della Direttiva si può consultare sul sito internet
www.europa.eu.int