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IL DIRITTO ALL’INFORMAZIONE AMBIENTALE (note a margine di Cons. St., Sez. V, 14.2.2003, n. 816).

di Viviana Fox

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La pronuncia in commento si segnala all’attenzione in ragione della novità delle opzioni ermeneutiche espresse in relazione al D.Lgs. 39/1997, emanato in attuazione della Direttiva 90/313/CEE, relativo alla libertà di accesso alle informazioni in materia ambientale.

Per la migliore comprensione della reale portata precettiva della pronuncia in rassegna, anche alla luce della recentissima Direttiva 2003/4/CE che riscrive la precedente normativa derivata, si impone, in via preliminare, un sintetico inquadramento dell’istituto del diritto all’informazione ambientale, con riguardo sia all’ordinamento giuridico italiano che a quello sovranazionale (comunitario e internazionale).

1. – Le norme quadro racchiuse nella legge 349/1986

Il punto di partenza per un’analisi del diritto di accesso all’informazione in materia ambientale nell’ordinamento interno è rappresentato dalla nota L. 8 luglio 1986 n. 349, istitutiva del Ministero dell’Ambiente.

In particolare l’art. 14, comma 3, della legge citata, testualmente dispone che “Qualsiasi cittadino ha diritto di accesso alle informazioni sullo stato dell’ambiente disponibili, in conformità delle leggi vigenti, presso gli uffici della pubblica amministrazione e può ottenerne copia previo rimborso delle spese effettive di ufficio il cui importo è stabilito con atto dell’amministrazione interessata” .

Si tratta di una disposizione dalla portata estremamente innovativa, emanata in un momento storico in cui la segretezza era ritenuta indispensabile al corretto funzionamento dell’Amministrazione pubblica, mentre la pubblicità e l’accesso alle informazioni ed alla documentazione amministrativa erano considerate l’eccezione[1].

Ed infatti, solo nel 1990, quindi ben quattro anni dopo l’entrata in vigore della normativa in esame, il legislatore, da un canto, ha riconosciuto il diritto di accesso agli atti delle Amministrazioni comunali e provinciali in funzione di controllo democratico (art. 7 e ss. L. 142/1990); dall’altro, in strettissima sequenza, ha introdotto l’istituto generale dell’accesso alla documentazione nei confronti di tutte le Amministrazioni pubbliche, anche al fine di dare effettività agli isitituti di partecipazione procedimentale introdotti dalla stessa legge sulla trasparenza (art. 22 e  ss. L. 241/1990).

Tuttavia, queste forme generali di accesso non si sono sovrapposte alla disciplina precedentemente dettata dalla l. n. 349/1986 in tema di informazione ambientale, che, anzi, resta in vigore in virtù del suo carattere di specialità.

Peraltro, le due discipline (quella generale e quella speciale, relativa all’ambiente) non coincidono quanto a campo soggettivo di applicazione, poiché il diritto all’informazione ambientale, a differenza del più generale diritto di accesso alla documentazione amministrativa, non è riservato alle sole parti interessate al procedimento, o ai cittadini singoli ed associati portatori di posizioni giuridiche differenziate, o ai cittadini residenti, ma è esteso dall’art. 14 cit. a qualunque cittadino, ed è pertanto rivolto erga omnes [2].

Anche alla luce della suddetta normativa sulla trasparenza, l’indeterminata formulazione dell’art. 14 l. 349/1986, con particolare riferimento all’inciso secondo cui l’accesso è consentito a qualunque cittadino “in conformità delle leggi vigenti”, ha alimentato diversità di opinioni in dottrina.

Secondo un primo orientamento, la disposizione normativa in esame avrebbe conferito a qualsiasi cittadino un  diritto soggettivo incondizionato di accedere all’informazione relativa all’ambiente disponibile presso la p.A. A fronte di tale diritto, incomberebbe sulle Autorità pubbliche il dovere di fornire le informazioni in proprio possesso senza poter esercitare alcuna forma di discrezionalità in merito alla accoglibilità delle richieste di informazione pervenute. I sostenitori di questo primo orientamento interpretano l’inciso “in conformità delle leggi vigenti” nel senso che le uniche circostanze nelle quali una richiesta di informazioni può essere respinta sono quelle espressamente previste dalla legge.[3]

Con tali conclusioni non concorda altra parte della dottrina che adotta un’interpretazione più cauta dell’inciso “in conformità delle leggi vigenti” sul rilievo della natura programmatica e non immediatamente precettiva della disposizione normativa in esame, che si sarebbe limitata a riconoscere in termini generali il diritto di accesso in materia ambientale, il cui esercizio resterebbe quindi disciplinato dalle “leggi vigenti”.[4]

Per quel che riguarda, l’elaborazione giurisprudenziale, gli unici due precedenti noti provengono dal Giudice amministrativo.[5] In entrambi i casi si è affermato che l’art. 14, comma 3, cit. è inteso a conferire un diritto soggettivo di accesso alle informazioni relative all’ambiente, finalizzato al soddisfacimento di un interesse privato. Peraltro, essendosi qualificato tale diritto come manifestazione particolare del diritto di accesso p.A. regolato dalla l. 241/90, tutte le questioni non disciplinate dalla legge 349/1986, quali ad esempio quella della ampiezza del diritto di accesso, delle cause di esclusione dell’accesso e delle Autorità competenti a conoscere le controversie in materia di accesso all’ informazione, sono risolte dai TAR facendo riferimento alle norme della l. 241/1990.

2. – Il diritto all’informazione previsto dal D. Lgs. 39/1997 attuativo della direttiva 90/313/CE.

Il carattere di specialità della informazione ambientale, già riconosciuto dall’art. 14 della l. 349/86, che invero non ha ricevuto nella pratica una significativa e costante applicazione, ha poi trovato consacrazione, nel nostro ordinamento, ad opera del D. Lgs. 25 febbraio 1997 n. 39, che ha finalmente dato attuazione ai principi dettati dalla Direttiva 90/313/CEE.

La citata normativa derivata costituisce il primo strumento legislativo a livello internazionale che riconosce un diritto di accesso all’informazione ambientale e, soprattutto, ad inquadrarlo in una prospettiva estensiva sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.

Ed infatti, la normativa comunitaria, muovendo dal presupposto che una migliore protezione dell’ambiente si realizza attraverso una corretta e libera informazione del cittadino, esclude (a differenza della coeva legge interna sulla trasparenza di cui alla L. 241/1990) ogni possibile forma di selezione dei soggetti legittimati, operando un esteso riconoscimento del diritto di accesso che prescinde dall’esistenza e dalla verifica di una qualsivoglia posizione di interesse qualificato.

Il D.Lgs. 39/1997, sulla falsariga della disciplina comunitaria, all’esplicitato fine di “assicurare a chiunque la libertà di accesso alle informazioni relative all’ambiente” (art. 1), stabilisce all’art. 3 che “le autorità pubbliche sono tenute a rendere disponibile le informazioni relative all’ambiente a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse”. Si tratta, dunque, di una tutela che è stata opportunamente definita “desoggettivata[6], in quanto, da un parte, non limita, come invece fa l’art. 14 L. 349/86, la titolarità del diritto a qualunque cittadino, recependo invece il peculiare carattere di diffusività spaziale e temporale del diritto dell’ambiente come diritto della persona umana; dall’altra, non impone al richiedente di allegare uno specifico interesse all’acquisizione delle informazioni richieste, ritenendo evidentemente che esso sia in re ipsa proprio perché ogni persona è titolare del diritto all’ambiente.

La giurisprudenza amministrativa ha anche chiarito che la legittimazione all’accesso alle informazioni sullo stato dell’ambiente spetta non solo alle persone fisiche, ma anche alle associazioni di protezione ambientale, sancendo che la condizione di azionabilità del diritto di accesso è riconosciuta in ragione della protezione dell’ambiente senza che sia necessario un concreto, personale e specifico interesse.[7]

Non meno significativa risulta la dilatazione dell’accesso, operata dalla citata Direttiva, sul versante oggettivo, attraverso l’accoglimento di una nozione di documento ostensibile ben più ampia di quella delineata dall’art. 22 della l. 241/1990.

In particolare, l’art. 2, lett. a), del D. Lgs. 39/1997, riproducendo pedissequamente il dettato comunitario[8], include nel novero delle informazioni relative all’ambiente “qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora o contenuta nelle basi di dati riguardante lo stato delle acque, del suolo, della fauna, della flora, del territorio e degli spazi naturali, nonchè le attività, comprese quelle nocive, o le misure che incidono o possono incidere negativamente sulle predette componenti ambientali e le attività e le misure amministrative e i programmi di gestione dell’ambiente”.

Il concetto di “misura amministrativa” è stato poi interpretato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee[9] nel senso di ricomprendere non semplicemente l’atto amministrativo formale, ma anche dati informali e valutazioni rese dalla pubblica Amministrazione anche nell’ambito di procedimenti complessi e non ancora conclusi.

Si tratta, come è evidente, di una nozione assai ampia, volutamente estesa dal  legislatore comunitario al fine di comprendere al suo interno ogni forma di valutazione e di dato inerente alla materia ambientale, con la consapevolezza che solo attraverso una reale e completa informazione dei cittadini si possa giungere ad una responsabilizzazione degli stessi e ad una cooperazione tra Autorità amministrativa e privato nella gestione del bene ambiente[10].

Una siffatta estensione concettuale non può, tuttavia, non determinare alcuni problemi esegetici, problemi che il giudice amministrativo dovrà affrontare ogniqualvolta occorra valutare ciò che di fronte ad ogni singola fattispecie, debba effettivamente essere considerato “informazione ambientale”, oggetto del relativo diritto di accesso.

Così, per l’appunto, nel caso di specie, il TAR Liguria prima, e in sede di appello, il Consiglio di Stato sono giunti a conclusioni opposte nello stabilire, ai fini della applicazione della normativa de qua, se la documentazione riguardante concessioni edilizie per la costruzione di opere pubbliche e private in un’area di pregio naturalistico molto elevato possa qualificarsi in termini di “informazione relativa all’ambiente”.

Tuttavia, l’elasticità e l’ambiguità delle espressioni legislative utilizzate nella Direttiva - connaturate alla natura ed alla funzione della fonte comunitaria derivata, che reca previsioni rivolte ad ordinamenti nazionali eterogenei - e nel relativo decreto di attuazione possono essere ridimensionate attraverso il costante richiamo alla ratio della normativa comunitaria in materia, che è quella di garantire il più ampio accesso alle informazioni relative all’ambiente.

Pertanto, ogni soluzione interpretativa dovrà essere filtrata alla luce di tale esigenza.

La soluzione accolta dal Consiglio di Stato nella decisione annotata sembra invece non tener conto della ratio di ampia trasparenza e pubblicità che informa il dettato comunitario e, di conseguenza, la disciplina nazionale di recepimento.

Ed infatti, si legge nella sentenza in epigrafe che “Nè può darsi credito alla tesi secondo la quale la definizione di ‘ambiente’ desumibile da quest'ultima norma (art. 2, D.Lgs. 39/1997 - N.d.A.) sia tale da comprendere "tutti gli atti che comportino trasformazioni  del territorio" (pag. 18 della memoria difensiva del 18 ottobre 2002). Giacché in tal modo le materie dell'urbanistica e dell'edilizia si confonderebbero con l'ambiente, in contraddizione con una linea evolutiva della legislazione nazionale che ha portato a distinguere (articolo 117 comma secondo e terzo della Costituzione nel testo sostituito dall'articolo 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ‘la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali’, come materia attribuita alla legislazione esclusiva dello Stato, dal ‘governo del territorio’ affidato invece alla legislazione concorrente.

Senza volersi addentrare in una disamina eccessivamente approfondita della statuizione in esame, che richiederebbe una più puntuale conoscenza degli atti di causa, ci si limita a sottolineare che una interpretazione così rigida e preclusiva della definizione del concetto di informazione ambientale, oltre a contrastare con la ratio sottesa alla normativa comunitaria di settore, si pone in stridente palese contraddizione con un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza secondo il quale “Le nozioni di ambiente ed urbanistica ormai dopo una decennale evoluzione normativa e giurisprudenziale, possono considerarsi pressoché equivalenti. L’urbanistica infatti, intesa come assetto del territorio, risulta, nella sua stessa essenza, una disciplina che interferisce con tutti gli interessi particolari che sul territorio stesso necessariamente si localizzano (...) Naturalmente tra questi interessi vi è anche la tutela dell’ambiente. In altri termini, l’urbanistica va considerata non tanto di per sè, quanto come sistema di organizzazione di vari valori od interessi presenti nel territorio.” (TAR Veneto, Sez. III, 28.10.2002, n. 6118).

Sembra, inoltre, che la pronuncia in rassegna non consideri i principi recentemente affermati da Corte Cost., 26 luglio 2002, n. 407[11], che ha chiarito come, nell’assetto di competenze delineato dal Titolo V della Costituzione nel testo novellato dalla legge di revisione costituzionale n. 3/2001, la tutela dell’ambiente non configuri ambito materiale in senso tecnico, ma rappresenti piuttosto valore costituzionalmente protetto e trasversale (facendone discendere la configurabilità di competenze regionali in materia). Sulla scorta di siffatti principi deve ritenersi che ricadano nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 39/1997 anche quei documenti e quelle informazioni che, pur afferendo all’esercizio di potestà (come quelle in materia edilizia ed urbanistica) la cui causa tipica non sia riconducibile, in via immediata, alla materia ambientale, possano comunque assumere rilievo a fini di protezione di valori ed interessi alla stessa funzionalmente correlati in ragione dell’oggetto del potere esercitato e delle concrete modalità di esercizio.

Peraltro, l’orientamento restrittivo accolto dal Consiglio di Stato risulta ancor più ingiustificato ove si consideri la disciplina del diritto all’informazione ambientale dettata dall’ordinamento internazionale, sul quale si tornerà più avanti.

Né tantomeno può ipotizzarsi che la fatti specie rientri fra quelle in cui la libertà di informazione è suscettibile di restrizioni.

L’art. 4 del D. Lgs. 39/1997, infatti, esclude il diritto all’informazione ambientale liddove dalla divulgazione dei dati possa derivare un danno all’ambiente stesso, ovvero quando sussiste l’esigenza di salvaguardare determinati interessi ritenuti prevalenti, quali: riservatezza delle deliberazioni, relazioni internazionali, difesa nazionale, ordine e sicurezza pubblica, questioni che sono in discussione o sotto inchiesta od oggetto di azione investigativa preliminare, riservatezza commerciale ed industriale, riservatezza dei dati o schedari personali, materiale fornito da terzi (art. 4, comma 1). Il rifiuto può essere altresì opposto allorché la richiesta sia talmente generica da non consentire l’individuazione dei dati da mettere a disposizione (art. 4, comma 5)

A specificazione della norma comunitaria, quella nazionale precisa all’art. 4, comma 2, che “le informazioni non possono essere sottratte all’accesso se non quando sono suscettibili di produrre un pregiudizio concreto ed attuale agli interessi indicati nel comma 1” .

La giurisprudenza, in sede di interpretazione dell’art. 4, comma 2, cit., ha chiarito che gli interessi a presidio dei quali è posta la limitazione in discorso sono interessi ben diversi da quello ambientale. Viene, dunque, in considerazione, a tal fine, non già il “il pregiudizio concreto ed attuale all’ambiente”, ma gli interessi dinanzi passati in rassegna. Pertanto, ove l’accesso alle informazioni ambientali possa “produrre un pregiudizio concreto ed attuale” ad uno o più di detti interessi, le informazioni in questione potranno legittimamente essere sottratte all’accesso, con la puntuale indicazione, in sede di diniego, dell’interesse che tale limitazione giustifichi e del pregiudizio allo stesso paventato per effetto della divulgazione[12].

Ciò considerato, nessuna delle ipotesi legali di sottrazione all’accesso sembra ricorrere nel caso in esame.

3. – La Convenzione di Aarhus e la recentissima Direttiva 2003/4/CEE

Il delineato quadro normativo nazionale in materia di informazione ambientale, oltre a dare attuazione della Direttiva comunitaria 90/313/CEE, va oggi rivisitato alla luce della normativa internazionale, peraltro applicabile in un ambito territoriale ben più vasto di quello comuntario. 

La materia, in particolare, nel 1998 è stata disciplinata dalla Convenzione di Aarhus sull’accesso all’informazione, sulla partecipazione del pubblico e sul ricorso alla giustizia in materia ambientale, ratificata dalla Repubblica italiana con L. 16 marzo 2001 n. 108 e vigente dal mese di ottobre 2001, data in cui è stato raggiunto il numero minimo di ratifiche previsto dall’accordo.

La definizione di informazione ambientale contenuta nella Convenzione è intenzionalmente di ampia portata ed è suddivisa in tre parti:

- lo stato degli elementi dell’ambiente;

- fattori ambientali, attività e misure;

- lo stato della salute e della sicurezza umana, le condizioni della vita umana, i luoghi culturali e le strutture.[13]

E’, pertanto, compresa in tale concetto qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva sonora o contenuta in banche dati circa lo stato delle acque, dell’aria, del suolo, della fauna, della flora, del territorio e degli spazi naturali, degli organismi geneticamente modificati, nonché quelle riguardanti sostanze, energie, rumori o radiazioni, accordi ambientali, pratiche, legislazioni, piani, programmi che influenzano o potrebbero influenzare l’ambiente.

La Convenzione, oltre ad ampliare l’ambito oggettivo della direttiva 90/313 ne precisa il quadro soggettivo, riconoscendo espressamente, per la prima volta nel diritto internazionale, il ruolo delle associazioni di protezione ambientale non governative ed il loro diritto ad accedere alle informazioni sullo stato dell’ambiente.

E’ presumibile che tale normativa internazionale, ispirata ad un particolare favor per l’accessibilità delle informazioni ambientali, abbia influenzato la revisione della Direttiva n. 90/313/CEE conclusasi di recente con l’emanazione della nuova Direttiva 2003/4/CEE (G.U.C.E. del 14.2.2003 n. 41)[14].

In realtà si è precisato che “è opportuno, nell’interesse di una maggiore trasparenza, sostituire la direttiva 90/313/CEE anziché modificarla, in modo da fornire agli interessati un testo legislativo unico, chiaro e coerente” (direttiva 2003/4/CE – considerando 6). 

Tale Direttiva, che, per quel che qui rileva, fornisce una definizione di informazione ambientale più ampia e completa della precedente e per alcuni aspetti anche della Convenzione di Aarhus, stabilisce anche i contenuti ritenuti minimi della documentazione amministrativa disponibile per il pubblico in generale.

Si legge, infatti, nel considerando 10 della fonte derivata, che “la definizione di informazione ambientale dovrebbe essere chiarita per comprendere l’informazione, in qualsiasi forma, concernente lo stato dell’ambiente, i fattori, le misure o le attività che incidono o possono incidere sull’ambiente ovvero sono destinati a proteggerlo, le analisi costi-benefici e altre analisi economiche usate nell’ambito di tali misure e attività, nonché l’informazione sullo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, i siti e gli edifici di interesse culturale, nella misura in cui essi siano o possano essere influenzati da uno qualsiasi di questi elementi.”

Ma ancor più rilevante, ai fini che qui rilevano, è la dettagliata disciplina dell’istituto dell’accesso all’informazione ambientale su richiesta, racchiusa nell’art. 3 della Direttiva in esame.

In particolare, il comma 3 dell’art. 3 della Direttiva cit., stabilisce che: “Se la richiesta è formulata in modo eccessivamente generico, l’autorità pubblica chiede al più presto e non oltre il termine di cui al paragrafo 2, lettera a) (quanto prima possibile o al più tardi entro un mese dal ricevimento della richiesta) al richiedente di specificarla e lo assiste in tale compito (...)” . Liddove, di contro, si è illustrato come la previgente normativa derivata (art. 4) consentisse in ipotesi siffatte di opporre al richiedente il diniego all’accesso.

Vero è che la Direttiva 2003/4/CE dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 14 febbraio 2005 e che pertanto le disposizioni dianzi richiamate non sono allo stato precettive; tuttavia i principi innovativi enunciati dalla Direttive ed il favor per l’ampliamento dell’accesso ad essa sotteso dovrebbero costituire parametri imprescindibili ai fini della interpretazione e della applicazione delle norme contenute nel D. Lgs. 39/1997.

Alla luce di tali rilievi, la soluzione adottata nella decisione in commento non sembra allineata con le esigenze di estrema trasparenza e pubblicità che informano il diritto di accesso in materia ambientale sia in ambito europeo che internazionale.

A questo punto, non resta che augurarsi che lo Stato italiano si determini al sollecito recepimento della Direttiva 2003/4/CE, evitando i ritardi verificatisi nella attuazione della precedente Direttiva in materia ambientale, avvenuta a distanza di ben sette anni dall’emanazione della fonte comunitaria.



[1] M. Balletta e B. Pillon, Il danno ambientale Principi ed esperienze - Giurisprudenza - Normativa - Documenti, Sistemi Editoriali, 2002, 19 ss

[2] G. MORANDI, Informazione ambientale e accesso ai documenti amministrativi, in Riv. Giur. Ambiente, 1992

[3] Si vedano M. LIBERTINI, Il diritto all’informazione in materia ambientale, in Rivista Critica del Diritto Privato, 1989, 640; U. SALANITRO, Il diritto all’informazione in materia ambientale alla luce della recente normativa sull’accesso ai documenti della Pubblica Amministrazione, in Riv. Giur. Ambiente, 1992, 411; T. E. FROSINI, Sul nuovo diritto all’informazione ambientale, in Giurisprudenza Costituzionale, 1992, 4463.

[4] Si vedano P. LANDI, La tutela processuale dell’ambiente, Cedam, Padova, 1991, 302; M. MONTINI, Il diritto di accesso all’informazione in materia ambientale: la mancata attuazione della direttiva CE 90/313, in Riv. Giur. Ambiente 1997, 325.

[5] Si veda TAR Sicilia, Catania, II sez., 9.4.1991, n.118; TAR Emilia – Romagna, Bologna, sez. II, 20.2.1992, n. 78

[6] Cfr. TAR Lombardia, Brescia, 30.4.1999, n. 397.

[7] Cfr. TAR Toscana, III sez., 19.12.2000, n. 2731, ove il diritto viene riconosciuto ad una associazione che, come il WWF, ha tra i fini istituzionali quello della valorizzazione della natura e dell’ambiente.

[8] Si veda l’art. 2, lett. a), della Direttiva n. 90/313/CE.

[9] Corte di Giustizia CE, sez. VI, 17.6.1998, causa C-321/96.

[10] MIRATE S., Diritto di accesso e informazione relativa all’ambiente: il Consiglio di Stato applica il D. Lgs. 39/97, in Urb. e appalti, 3/2001, 322 e ss.

[11] in Giust.it. – www.giust.it

[12] Cfr. TAR Lombardia, Brescia, 30.4.1999, n. 397.

[13] HARRISON J., “Legislazione ambientale europea e libertà di informazione: la Convenzione di Aarhus”, in Riv. giur.amb. 1/2000, 27 e ss.

[14] Il testo della Direttiva si può consultare sul sito internet www.europa.eu.int