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Sez. 3, Sentenza n. 18347 del 21/04/2004 (Ud. 11/03/2004 n.00472 ) Rv. 228457
Presidente: Savignano G. Estensore: Zumbo A. Imputato: P.M. in proc. Cravanzola. P.M. Esposito V. (Conf.)
(Annulla con rinvio, Trib. Alba, 19 aprile 2001).
ACQUE - Tutela dall'inquinamento - Insediamento produttivo - Scarico da impianto di depurazione - Smaltimento dei soli reflui del ciclo produttivo - Disciplina sui rifiuti - Applicabilità - Esclusione - Fondamento.
CON MOTIVAZIONE

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Massima Fonte CED Cassazione

L'impianto di depurazione di un normale insediamento produttivo costituisce parte integrante del medesimo ed ove limiti la propria funzione depurativa alle sole acque reflue del ciclo produttivo dà luogo ad uno scarico in senso tecnico disciplinato dal decreto legislativo 11 maggio 1999 n. 152, atteso che solo ove il collegamento fra fonte di riversamento e corpo recettore sia interrotto si esula dal concetto di scarico ed i reflui vanno sottoposti alla disciplina sui rifiuti di cui al decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. SAVIGNANO Giuseppe - Presidente - del 11/03/2004
1. Dott. ZUMBO Antonio - Consigliere - SENTENZA
2. Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - N. 472
3. Dott. GRILLO Carlo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
4. Dott. VANGELISTA Vittorio - Consigliere - N. 42168/2001
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Procuratore Repubblica di Alba nei confronti di:
Cravanzola Bruno n. Alba il 19/10/1941;
avverso la sentenza del Tribunale di Alba in data 19 aprile 2001 Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Zumbo;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. Esposito Vitaliano che ha concluso per l'annullamento con rinvio;
Udito il difensore avv. Roberto Ponzio;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza in data 19 aprile 2001, il giudice del Tribunale di Alba assolveva Cravanzola Bruno dal reato di cui agli art. 28, 51, primo comma, lettera a), D.L. 5 febbraio 1997 n. 22 perché il fatto non sussiste.
Rilevava il Tribunale che lo smaltimento delle sostanze di cui al capo di imputazione ricade nella previsione dell'art. 28 D.L. 22/97, che l'art. 62, comma 11, D.L. 152/99 stabilisce che i titolari degli scarichi esistenti devono adeguarsi alla nuova disciplina entro tre anni dalla data di entrata in vigore del decreto e che, alla data cui si riferiscono i fatti contestati al Cravanzola, il termine dilatorio non era ancora decorso.
Il Procuratore della Repubblica di Alba proponeva ricorso per erronea applicazione di legge sostenendo che il richiamo alla disciplina in tema di inquinamento delle acque è improprio non vertendosi ne' in ipotesi di scarico ne' d'acque reflue per cui l'impianto di depurazione non può usufruire del termine triennale dilatorio concesso solo per l'inquinamento delle acque.
Anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 5.2.1997 n. 22 non è sostanzialmente mutato il driscrimine tra l'ambito di applicazione della normativa sui rifluiti e quello della normativa sulla tutela delle acque.
Tale decreto legislativo conferma la nozione tradizionale di rifiuto, vigente nel diritto nazionale e in quello comunitario, laddove, nell'art. 6, lett. a), lo definisce come "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso, o abbia l'obbligo di disfarsi".
L'allegato A., dapprima, elenca queste categorie di rifiuti (in numero di sedici); e subito dopo precisa che la Commissione Europea ha il compito di preparare ed aggiornare un elenco di rifiuti che rientrano nelle categorie suddette, denominato comunemente Catalogo Europeo di Rifiuti (CER). Secondo l'allegato, il catalogo vuole essere una "nomenclatura di riferimento", da prendere come base per il programma comunitario di statistiche sui rifluiti deciso dal Consiglio Europeo: quindi, esso ha dichiaratamente un carattere non esaustivo e uno scopo di armonizzazione amministrativa, ed è soggetto a revisione al fine di tener conto dei progressi scientifici e tecnici.
E, quindi l'inclusione di una sostanza nel CER non può costituire un criterio legislativo di identificazione della nozione di rifiuto, giacché esso contiene semplicemente un elenco non esaustivo, e tecnicamente aggiornabile, delle sostanze che possono rientrare nelle sedici categorie legislativamente definite. E tuttavia resta indiscutibile che il legislatore comunitario e quello italiano, dopo aver confermato la definizione tradizionale di rifiuto come qualsiasi sostanza, proveniente dall'attività umana, che debba essere abbandonata dal detentore, per sua volontà o per obbligo di legge, hanno voluto classificare i rifiuti in sedici generali categorie, di cui l'ultima ha carattere di "chiusura" (qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie precedenti). In secondo luogo, il decreto legislativo n. 22/1997 sostituisce il concetto di scarico con quello di acque di scarico, laddove, all'art. 8 lett. e), esclude dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti "le acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido". In tal modo il legislatore ha opportunamente reso omogenei i due termini di confronto, nel senso che se prima si confrontava un fenomeno dinamico quale lo scarico idrico definito dall'art. della legge 319/1976 (spesso, ma non sempre, prodotto da un'attività umana) con un elemento statico quale il rifiuto, per se stesso considerato come oggetto, ora si confrontano due elementi omogenei, statisticamente considerati come oggetti (acque di scarico e rifiuti).
Si impone, dunque, una demarcazione tra la normativa sulla tutela delle acque e quella sui rifiuti.
Dopo un lungo travaglio giurisprudenziale e dottrinale, la regolazione più razionale di questi confini è quella tracciata dalle sentenze delle sezioni unite (Cass. Sez. Un. n. 12310 del 13.12.1995, ud. 27.9.1995, Forina, rv. 20289) e della Corte Costituzionale (n. 173 dell'8-20 maggio 1998).
Questa impostazione, prendendo atto della coincidenza parziale tra acque di scarico e rifiuti liquidi, assume come unico criterio di discriminazione tra le due discipline, non già la differenza della sostanza, bensì la diversa fase del processo di trattamento della sostanza, riservandosi alla disciplina della tutela delle acque solo la fase dello "scarico", cioè quella della immissione diretta nel corpo ricettore".
Infatti, secondo la sentenza Forina, il D.P.R. n. 915/1982 (ora sostitutivo dal D.Lgs. 22/1997) disciplina tutte le singole operazioni di smaltimento dei rifiuti, siano essi solidi o liquidi, fangosi o sotto forma di liquami, con esclusione di quelle fasi concernenti i rifiuti liquidi che sono attinenti allo scarico e come tali sono riconducibili alla disciplina stabilita dalla legge 319/1976, con l'unica eccezione dei fanghi e dei liquami tossici e nocivi, che sono regolati sotto ogni profilo dal D.P.R. 915/1982 (v. art. 2, comma sesto e comma settimo lett. d).
Dal canto suo la Corte costitutizionale precisa che nello stesso senso è interpretabile anche il più recente D.Lgs. n. 22/1997, il quale, pur abrogando esplicitamente il D.P.R. 915/1982, ne mantiene tuttavia la stessa impostazione rispetto alla regolamentazione degli scarichi idrici, dato che, all'art. 8 lett. e), ricomprende espressamente nel proprio ambito disciplinare i rifiuti liquidi, distinguendoli dalle acque di scarico. Ad avviso del collegio, va aggiunto che, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 22/1997, per effetto della norma transitoria di cui all'art. 57, comma 1, del medesimo decreto, che equipara i rifiuti tossici e nocivi della normativa precedente con i rifiuti pericolosi della normativa vigente, restano sempre esclusi dalla disciplina sulla tutela delle acque i rifiuti pericolosi.
Una chiara conferma di questo diritto vigente viene ora dal legislatore nazionale, col recentissimo D.Lgs. 11.5.1999 n.1552, che reca disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepisce la direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane.
Infatti, all'art. 2 lett. b), questo decreto definisce per la prima volta lo "scarico" idrico, identificandolo con "qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla sua natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione".
Inoltre, all'art. 36, dopo aver vietato l'utilizzo per lo smaltimento di rifiuti degli impianti di trattamento di acque urbane (salva specifica autorizzazione o il caso in cui l'impianto di trattamento abbia capacità depurativa adeguata), precisa significativamente che "il produttore e il trasportatore di rifiuti costituiti da acque reflue sono tenuti al rispetto della normativa in materia di rifiuti del decreto legislativo 5.2.1997 n. 22 e successive modifiche e integrazioni".
Al riguardo, l'intenzione del legislatore è chiaramente espressa nella relazione governativa al decreto, che conviene richiamare per esteso nei passaggi salienti che attengono al nostro tema. Dopo aver ricordato la particolare delicatezza delle definizioni di scarico, anche per la sua funzione di "discrimine tra applicazione della legge sui rifiuti e applicazione della legge di tutela delle acque", la relazione dichiara di aver seguito le definizioni di cui alla sentenza n.12310/95 delle SS.UU. della Cassazione penale e alla sentenza della Corte Costituzionale n.173 del 20.5.1998, nonché all'ordine del giorno approvato dalla Commissione Ambiente del Senato il 24.4.1998. "Tali sentenze - annota la relazione - hanno ricondotto la nozione di scarico a quella di acque di processo immesse in corpi idrici o nel suolo, includendovi tutte le operazioni allo stesso strettamente finalizzate". Dopo aver riportato il menzionato testo della massima ufficiale della sentenza Forina, la relazione ne fa conseguire "che la disciplina degli impianti di trattamento dei rifiuti liquidi in conto terzi e relative ulteriori operazioni, le quali presuppongono il trasporto non canalizzato delle acque di processo, ricade sotto la normativa 22/1997, mentre le operazioni connesse allo scarico delle acque, cioè all'immissione diretta, e il trattamento preventivo delle stesse, poste in essere dallo stesso titolare dello scarico, sottostanno alla disciplina sulle acque". Secondo questo orientamento, quindi, è stato definito "scarico solo quello diretto in corpi idrici ricettori (acque superficiali, sotterranee, suolo, sottosuolo, fognature) convogliato o convogliarle tramite condotta".
"La nozione di scarico - continua la relazione - si completa con quanto disposto dall'art. 36.
Nell'ottica sopra delineata, infatti, il trasporto di acque reflue mediante autobotte, o altri mezzi, interrompendo il nesso funzionale e diretto dell'acqua reflua con il corpo idrico ricettore e la riferibilità al titolare dello scarico, è soggetto alla disciplina sui rifiuti cosi come si evince dall'art. 36, che sottopone alla disciplina del D.Lvo 5.2.1977 n. 22, e successive modifiche, il trasportò di rifiuti costituite da acque di scarico, nonché il successivo smaltimento in impianti di trattamento. In tal senso l'ordine del giorno della Commissione Ambiente del Senato 24.4.1998 raccomandava al Governo affinché 'per rifiuti allo stato liquido si intendano le acque reflue di cui il detentore si disfaccia avviandole a smaltimento, trattamento o depurazione a mezzo trasporto su strada o comunque non canalizzate'".
Ad avviso di questo collegio, quindi, non sembra dubitabile la scomparsa di quello che la giurisprudenza qualificava come scarico indiretto, ovvero la sua trasformazione in rifiuto liquido. Più esattamente, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 152/1999, se per scarico si intende il riversamento diretto nei corpi recettori, quando il collegamento tra fonte di riversamento e corpo ricettore è interrotto, viene meno lo scarico (indiretto) per far posto alla fase di smaltimento del rifiuto liquido.
La normativa sui rifiuti, considerata l'ampiezza dei termini "rifiuto" e "smaltimento", rappresenta la normativa base per la protezione dell'ambiente, con la conseguenza che il rinvio alla disciplina sull'inquinamento delle acque (legge 319 del 1976 ed ora D.Lgs. 152 del 1999) opera solo allorché si verifichi uno "scarico", ossia un'immissione diretta di "acque reflue domestiche" o di "acque reflue industriali" in un corpo recettore.
L'impianto di depurazione di un normale insediamento produttivo fa parte integrante del medesimo e se limita la propria funzione depurativa alle sole acque reflue del ciclo produttivo da luogo ad uno scarico in senso tecnico, sottoposto al D.lgs. 152 del 1999 sia per quanto riguarda la preventiva autorizzazione sia per l'osservanza dei limiti legali; non trova ad esso applicazione la distinta disciplina sui rifiuti (d.lgs. 22 del 1997) in quanto il "rifiuto liquido" è assorbito nel concetto di scarico di "acque reflue industriali" (Cass., sez. 3^, 5 gennaio 2000, Podella). "In tema di tutela delle acque dall'inquinamento, dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, intendendosi per scarico il riversamento diretto nei corpi ricettori, quando il collegamento fra fonte di riversamento e corpo ricettore è interrotto viene meno lo scarico precedentemente qualificato come indiretto, per fare posto alla fase di smaltimento del rifiuto liquido. Conseguentemente in tale ipotesi si rende applicabile la disciplina di cui al d.lgs. 22 del 1997 e non quella della legge 319 del 1976, come sostituita dal d.lgs. 152 del 1999" (Cass., Sez. 3^, 3 agosto 1999, n. 2358). P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione annulla l'impugnata sentenza con rinvio al Tribunale di Alba.
Così deciso in Roma, il 11 marzo 2004.
Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2004