Dissenso dei condòmini, legittimità urbanistica e controlli dell’amministrazione: un ritorno alla tutela civilistica dei terzi
(nota a CGARS, sez. giurisdizionale, 5 giugno 2023, n. 392).
di Ippolito PIAZZA
pubblicato su Giustiziainsieme.it. SI ringraziano Autore ed Editore
Sommario: 1. Il tema e i fatti all’origine della controversia. – 2. Dissenso dei condòmini e legittimità urbanistica. – 3. La distinzione di piani nella sentenza del CGARS. – 4. Le ragioni per la tesi civilistica.
1. Il tema e i fatti all’origine della controversia.
Il Consiglio di Giustizia amministrativa adotta, nella sentenza in commento, una posizione netta circa la natura delle controversie edilizie tra vicini e il ruolo che (non) deve avere l’amministrazione. Ad avviso dei giudici siciliani, l’illegittimità urbanistica di un’opera non può mai dipendere dalla presunta lesione di un diritto civilistico del terzo-vicino di casa: non è infatti compito dell’amministrazione effettuare un simile accertamento, come non lo è quello di dare esecuzione a eventuali pronunce del giudice ordinario intervenute sul punto. Come si proverà ad argomentare, si tratta di una tesi condivisibile, perché consente di tenere distinti il piano delle relazioni civilistiche tra vicini da quello delle relazioni pubblicistiche tra costruttore e pubblica amministrazione, evitando così di attribuire a quest’ultima un compito che l’ordinamento non le attribuisce.
La pronuncia è importante perché sembra discostarsi da alcuni diffusi indirizzi giurisprudenziali: il primo è quello in base al quale l’amministrazione, se edotta dell’esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba effettuare un controllo sull’attendibilità di quanto affermato dal richiedente, pur non potendosi sostituire al giudice ordinario nell’effettuare valutazioni civilistiche[i]; il secondo è quello che afferma l’esistenza della cosiddetta ‘doppia tutela’, in base alla quale il terzo-vicino di casa sarebbe titolare sia di un diritto derivante dal rispetto delle norme civilistiche sugli immobili, sia di un interesse legittimo al rispetto della normativa edilizia, da far valere rispettivamente di fronte al giudice ordinario e al giudice amministrativo[ii]. La sentenza del CGARS consente quindi di svolgere alcune considerazioni riguardo all’incidenza dei rapporti privati sull’attività di controllo dell’amministrazione e alla tutela dei terzi in materia edilizia.
Prima di tutto è, però, necessario descrivere la vicenda. La controversia nasce dall’ordinanza di demolizione di una canna fumaria a servizio esclusivo di un’attività di ristorazione, posta su un muro esterno condominiale comune. La presenza della canna fumaria aveva già dato luogo a un giudizio civile tra il proprietario dell’immobile al piano terra, adibito a ristorante, e la proprietaria degli immobili soprastanti, conclusosi con una sentenza che imponeva la rimozione dell’opera per alterazione del decoro architettonico dell’edificio. Il proprietario dell’immobile al piano terreno aveva, pertanto, dapprima rimosso la canna fumaria e poi ne aveva installata una diversa, che riteneva conforme alla legge e al giudicato. La nuova collocazione della canna fumaria era autorizzata dal Comune, previo parere dell’ARPA. Anche la nuova canna fumaria veniva però rimossa, stavolta a opera dell’ufficiale giudiziario, in esecuzione della sentenza civile sopra richiamata. A questo punto, gli interessati, dopo aver presentato una Scia nel 2020 ritenuta inammissibile dal Comune, trasmettevano al Comune una CIL e reinstallavano la canna fumaria. Il caso tuttavia rimaneva aperto: in esito a un sopralluogo, i tecnici comunali e i vigili urbani evidenziavano nella loro relazione come la installazione della canna fumaria, già autorizzata dal Comune, avesse bisogno del consenso di tutti i condòmini, consenso che invece mancava nel caso di specie. In base a tale relazione, il Comune ingiungeva la demolizione della canna fumaria, pur confermando che quest’ultima rispettasse i parametri fissati dal regolamento edilizio.
Gli odierni proprietari e il conduttore dell’immobile al piano terra ricorrevano quindi al Tar per l’annullamento dell’ordine di demolizione e dei provvedimenti conseguenti[iii]. Il Tar respingeva il ricorso[iv], tra l’altro, perché condivideva la tesi dell’amministrazione secondo cui occorresse il previo assenso degli altri condòmini per la realizzazione dell’opera. La necessità di tale consenso, assente nel caso di specie, risponde secondo il Tar, «(anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie»: in quest’ottica, il provvedimento dell’amministrazione svolge una funzione arbitrale rispetto a una questione civilistica.
2. Dissenso dei condòmini e legittimità urbanistica.
La asserita mancanza del consenso dei condòmini viene quindi a condizionare, nella ricostruzione del giudice di primo grado, la legittimità dell’intervento edilizio, a causa della violazione dell’art. 1102, c. 1, del codice civile. Quest’ultima disposizione prevede che ciascun partecipante possa servirsi della cosa comune «purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto»; le modifiche apportate dal singolo condomino sono soggette inoltre al rispetto del decoro architettonico dell’edificio, limite posto in generale dall’art. 1120, c. 4, c.c., per le innovazioni nel condominio di edifici[v].
Nella prospettiva adottata dal Tar, il rispetto di questi limiti civilistici costituisce un presupposto necessario per la sussistenza della legittimazione a richiedere il titolo edilizio e deve pertanto essere soggetto a un controllo da parte dell’amministrazione. Sulla natura di questo controllo si è più volte espressa la giurisprudenza amministrativa: se, infatti, può sembrare ragionevole che l’amministrazione effettui un simile controllo (così da evitare che sia concesso un titolo edilizio a chi non è legittimato), è pur vero che su una questione civilistica la parola non può che essere affidata al giudice ordinario. In ragione di ciò, la giurisprudenza maggioritaria (sia in materia di interventi su parti condominiali comuni che, in generale, in materia di rilascio di titoli edilizi) si attesta, come noto, su una linea interpretativa mediana, in base alla quale l’amministrazione, «quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza del giudice ordinario), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili»[vi]. La specificazione della attendibilità prima facie consente di evitare che l’amministrazione sia tenuta a effettuare dispendiosi accertamenti sulla titolarità di un diritto civilistico.
Una recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha poi precisato che il controllo dell’amministrazione debba «sempre collegarsi al riscontro di profili d’illegittimità dell’attività per contrasto con leggi, regolamenti, piani, programmi e regolamenti edilizi, mentre non può essere esercitato a tutela di diritti di terzi non riconducibili a quelli connessi con interessi di natura pubblicistica, quali ad esempio il rispetto delle distanze dai confini di proprietà o del distacco dagli edifici». In altre parole, il controllo dell’amministrazione riguarderebbe solo la legittimità urbanistica delle opere; tuttavia, la stessa sentenza – in linea con l’orientamento maggioritario – fa salvo il caso in cui «de plano risulti l’inesistenza di un titolo giuridico che fondi la legittimazione attiva del richiedente il titolo edilizio»[vii]. Se da quest’ultima giurisprudenza emerge l’idea che l’amministrazione non debba, almeno in linea di principio, occuparsi di questioni civilistiche, vi sono altre pronunce, proprio in tema di opere su parti comuni, che, pur scindendo il profilo della conformità urbanistica da quello del consenso dei condòmini, ammettono invece che il controllo dell’amministrazione risponda specificamente «alla esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie»[viii].
Queste oscillazioni giurisprudenziali sulla finalità del controllo e sulla effettiva distinzione tra legittimità urbanistica e titolo civilistico mostrano come, una volta accettata l’idea che all’amministrazione competa un controllo sui titoli, non sia facile individuarne il limite. Del resto, il criterio della facile rilevabilità della contestazione – pur fondato sulle ragioni richiamate: evitare il rilascio di titoli edilizi a chi non ne abbia la legittimazione e al contempo non gravare l’amministrazione di un onere di controllo eccessivo – non appare pienamente convincente dal punto di vista teorico. Infatti, o si ritiene che la legge imponga all’amministrazione un controllo sui titoli del richiedente[ix] – e, allora, se così fosse, il controllo dovrebbe essere sempre fatto e in modo completo – oppure si ritiene che tale controllo non competa all’amministrazione.
Proprio quest’ultima è la via intrapresa dal CGARS nella sentenza che si annota: basandosi sulla distinzione tra rapporti fra condòmini e rapporto con l’amministrazione, il giudice ‘libera’ quest’ultima dall’onere del controllo sul rispetto delle regole civilistiche da parte del richiedente e si fa carico in maniera convincente delle conseguenze di tale distinzione.
3. La distinzione di piani nella sentenza del CGARS
La pronuncia ruota attorno alla questione dell’assenza del consenso dei condòmini alla costruzione della canna fumaria: il punto è, del resto, «dirimente» per i giudici dal momento che l’ordinanza di demolizione è motivata con rinvio alla relazione di sopralluogo nella quale «dopo il riferimento all’art. 1102 del c.c., testualmente è riportato che “in conseguenza del mancato assenso preventivo reso dagli altri soggetti comproprietari, viene meno la piena legittimità da parte del sig. …, alla collocazione dell’opera in argomento su parti comuni…”».
Ebbene, ad avviso del CGARS, l’errore dell’amministrazione è consistito proprio nell’aver sovrapposto il piano dei rapporti civilistici tra condòmini con quello relativo alla conformità urbanistica dell’opera. Si legge, infatti, nella pronuncia che l’amministrazione «dalla supposta violazione dell’art. 1102 c.c., il cui accertamento invece appartiene al Giudice ordinario, ha fatto derivare l’illegittimità urbanistica, con conseguente emissione dell’ordinanza di demolizione e, a seguire, quella di acquisizione»: secondo i giudici siciliani, invece, l’abusività di un’opera «che sia urbanisticamente realizzabile» non può essere «in alcun senso condizionata dall’assenso o dal dissenso degli altri comproprietari», essendo pacifico che i loro diritti «non sono giammai pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio». E tra questi diritti rientrano anche quelli connessi all’eventuale violazione dei limiti posti dall’art. 1102 c.c. e alla lesione del decoro architettonico dell’edificio. La distinzione dei piani non porta naturalmente ad affermare l’irrilevanza delle norme civilistiche ma a prendere atto che la loro violazione rileva unicamente nei rapporti fra condòmini: ricorrendo ancora alle parole della sentenza, alla violazione di tali norme «corrispondono diritti soggettivi individuali di ogni altro condomino, e non già interessi legittimi tutelabili in via amministrativa».
Ne consegue che «i diritti dei terzi sono tutelabili (esclusivamente) mediante azioni civili innanzi al Giudice ordinario». Il CGARS nega dunque la possibilità per il terzo, in un caso di questo tipo, di ottenere la ‘doppia tutela’, cioè la tutela dei diritti di fronte al giudice ordinario e degli interessi legittimi lesi dal titolo edilizio di fronte al giudice amministrativo: il condomino è, infatti, estraneo al rapporto tra l’amministrazione e il costruttore e, per definizione, non può venirne leso.
La tesi del CGARS è molto lineare e porta con sé alcune conseguenze, esplicitate nella sentenza.
In primo luogo, secondo i giudici siciliani, la legittimità di un intervento edilizio che uno dei condòmini richieda di fare sulla parte comune ai sensi dell’art. 1102 c.c. deve essere valutata dall’amministrazione «senza riguardo ai profili civilistici e ai connessi limiti posti dal cit. art. 1102», incluso quindi il rispetto del decoro architettonico. L’amministrazione è infatti competente ad autorizzare un simile intervento «solo per i profili amministrativi», mentre sui profili civilistici ha titolo di pronunciarsi unicamente il giudice civile.
La stessa distinzione di profili si realizza anche sul piano esecutivo. Secondo la tesi del CGRAS, non è compito dell’amministrazione quello di dare esecuzione alle sentenze del giudice civile[x]. Del resto, come sottolinea la sentenza, l’amministrazione ha la possibilità di intervenire in autotutela per revocare o annullare un’autorizzazione illegittima, senza che ciò dipenda da una precedente o sopravvenuta sentenza del giudice civile. Il CGARS ammette naturalmente che dalla sentenza del giudice civile possa sorgere un obbligo di rimozione di un’opera: tuttavia, un simile intervento repressivo è azionabile da chi ne abbia titolo nei modi previsti dal codice di procedura civile.
Infine, mentre la tesi del giudice di primo grado si fondava sulla difesa dei diritti dei condòmini, il CGARS svolge in proposito un ragionamento opposto: l’amministrazione non solo difetta del potere di intervenire in tal senso, ma difetta anche «degli strumenti tecnici per valutare» simili questioni civilistiche. Vi è di più: i diritti dei condòmini – prosegue la sentenza – potrebbero addirittura essere lesi dall’intervento dell’autorità pubblica («anche solo in via di stretta esecuzione delle sentenze rese dal giudice civile»). Infatti, anche dopo la demolizione imposta dal giudicato civile, le parti «restano perfettamente libere di transigere o novare ogni loro diritto od obbligo scaturente da esso»: pertanto, l’esecuzione della pronuncia da parte dell’amministrazione potrebbe ledere «il diritto di tutte le parti a ulteriormente esercitare la propria autonomia negoziale pur dopo il giudicato civile». Se, invece, la condomina controinteressata avesse inteso opporsi ancora all’attività edilizia, avrebbe dovuto coerentemente «rivolgersi nuovamente al Giudice ordinario per accertare se la nuova canna fumaria violasse ancora il decoro architettonico».
4. Le ragioni per la tesi civilistica.
La soluzione individuata dal CGARS si distingue per chiarezza dei presupposti e coerenza degli sviluppi. A fronte di una vicenda che, pur nella sua ordinarietà di lite condominiale, si era intricata per il susseguirsi di provvedimenti amministrativi e giurisdizionali, i giudici siciliani individuano la soluzione nella separazione dei rapporti che intercorrono, rispettivamente, tra i condòmini e tra il costruttore e la pubblica amministrazione.
Non si tratta di una novità: la stessa Corte di Cassazione[xi] afferma che è irrilevante, sul piano civilistico, che l’attività edilizia sia stata acconsentita dalla pubblica amministrazione. Meno limpida è invece, come s’è detto, la giurisprudenza amministrativa[xii], che anche quando riconosce che l’amministrazione non debba occuparsi di questioni civilistiche, tuttavia ritiene sussistente un dovere di controllo prima faciedell’amministrazione sul titolo del richiedente. Non sembra però potersi tenere tutto insieme: se si ammette che l’amministrazione debba – più o meno approfonditamente – occuparsi delle vicende civilistiche, allora i due piani finiscono per sovrapporsi[xiii], con le conseguenze stigmatizzate dallo stesso CGARS, cioè l’assenza dei mezzi per dirimere la controversia in capo all’amministrazione e la potenziale lesione dell’autonomia privata[xiv].
Che la soluzione di un contrasto tra privati circa la titolarità di un diritto sia un compito complesso, che sfugge alla competenza dell’amministrazione pubblica, è dimostrato anche dal caso che ci interessa, nel quale la questione civilistica pareva invece chiara, sia perché evidente risultava il dissenso di un condomino, sia perché si era addirittura formato sul punto un giudicato civile: eppure, come ammesso dallo stesso Tar nella pronuncia di primo grado, i limiti di quel giudicato non erano facilmente identificabili (si poneva infatti, in concreto, la questione di individuare a quale delle diverse canne fumarie installate nel tempo si riferisse l’ordine di demolizione del giudice civile)[xv].
Di là dalla difficoltà pratica, occorre però ancor prima domandarsi se sul piano giuridico l’amministrazione sia tenuta a svolgere una simile funzione arbitrale e se la sua attività debba essere condizionata da una contestazione sul titolo civilistico. La risposta alla domanda dovrebbe dipendere dalla disciplina della singola fattispecie: l’amministrazione è, infatti, titolata a intervenire e a effettuare un controllo quando una norma lo richieda[xvi]. Ebbene, in questo caso, sia che si ritenga (come fa il Tar) che l’installazione della canna fumaria necessitasse del permesso di costruire, sia che si ritenga invece (come il CGARS) che l’intervento richiedesse una semplice s.c.i.a., le norme che disciplinano l’attività dell’amministrazione non richiedono un controllo sul titolo del richiedente[xvii]. A quest’ordine di idee aderisce anche il CGARS, che addirittura offre un esempio in motivazione: dopo aver ribadito che non spetta all’amministrazione, «neanche incidentalmente», di valutare se l’opera integri un’alterazione della destinazione della cosa comune o se il suo utilizzo sia incompatibile con l’uso paritario altrui o se l’opera sia lesiva del decoro architettonico, i giudici sottolineano che quest’ultimo compito potrebbe spettare semmai «solo nei congrui casi» all’amministrazione dei beni culturali.
Vero è che il permesso di costruire deve essere rilasciato dall’amministrazione al «proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo», tuttavia lo stesso articolo del testo unico sull’edilizia si chiude con la clausola di salvezza dei diritti dei terzi (art. 11, c. 3, d.P.R. n. 380/2001), sulla quale si fonda il sistema. I terzi non sono pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio e non sono privati di tutela, ma possono richiederla nelle forme previste dalle leggi e dal processo civile[xviii].
Questa non è l’unica possibile interpretazione della clausola di salvezza dei diritti dei terzi. Si è, infatti, anche sostenuto in dottrina che i diritti dei terzi non solo non possano, ma neppure debbano essere lesi dall’attività dell’amministrazione. Ne conseguirebbe che l’amministrazione sarebbe tenuta a negare il rilascio del titolo edilizio ogni volta che vi sia una contestazione sul diritto del richiedente, «pur in presenza di un progetto astrattamente conforme alla normativa urbanistica della zona di riferimento»: ciò non solo nel caso in cui emerga «con chiarezza» l’assenza del titolo di godimento ma anche quando la sua sussistenza sia «incerta o contestata»[xix]. Simile ricostruzione supera, quindi, anche l’impostazione della giurisprudenza prevalente (che richiede solo un controllo prima facie sui titoli) ed è certamente coerente con le proprie premesse.
Si può, tuttavia, obiettare che il significato della clausola di salvezza sembra proprio quello di separare il rapporto che corre tra amministrazione e richiedente da quello privatistico che lega quest’ultimo a eventuali terzi. Si arriverebbe inoltre, sul piano pratico, alla conseguenza, difficilmente accettabile, che il rilascio di un titolo edilizio dovrebbe essere negato, pur se vi sia la conformità urbanistica, almeno[xx] fino alla pronuncia del giudice civile[xxi], e in presenza di una semplice opposizione[xxii] da parte di un controinteressato.
[i] Per questo orientamento, in dottrina, v. F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, in Urb. App., 2/2012, 150 ss., secondo cui «(…) il potere amministrativo di conformazione delle iniziative edilizie si pone in stretta correlazione con tutte le altre discipline che hanno come “terminale”, immediato e diretto, il territorio, nel suo complesso o nelle singole parti di cui si compone, quali, ad esempio, la materia ambientale, la materia paesaggistica e, per l’appunto, la disciplina dei rapporti negoziali e dei diritti reali contenuta nel codice civile» (ivi, 157).
[ii] Per una rassegna degli orientamenti giurisprudenziali in materia, si vedano, tra altri, A. Berra, R. Damonte, Art. 11, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, III ed., Giuffrè, Milano, 2015, spec. 336 ss. e A. Chierichetti, Testo unico in materia edilizia, Art. 11, in R. Ferrara, G.F. Ferrari (a cura di), Commentario breve alle leggi in materia di urbanistica ed edilizia, III ed., Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2019, spec. 293 ss.
[iii] Cioè il conseguente accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, nonché il provvedimento con cui veniva comunicata la immissione in possesso e l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31, c. 3, d.P.R. n. 380/2001.
[iv] Tar Sicilia, Catania, I, 13 dicembre 2021, n. 3730.
[v] In particolare, l’art. 1120, c. 4, c.c. prevede che «Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino».
[vi] La citazione è tratta da Cons. Stato, VI, 13 marzo 2023, n. 2618, pronuncia conforme alla più recente giurisprudenza del massimo giudice amministrativo. Nella stessa sentenza si legge che, in un caso simile a quello di cui ci si sta occupando, «era preciso compito dell’Amministrazione verificare l’effettiva legittimazione dell’appellante a richiedere il titolo richiesto» e che il Comune «non poteva ignorare la posizione esplicitamente espressa dal condominio» in senso contrario all’intervento edilizio. Si vedano anche, sempre in tema di costruzioni su parti comuni, Cons. Stato, VI, 30 agosto 2022, n. 7540 e Cons. Stato, IV, 4 maggio 2010, n. 2546 (dove i giudici ritengono che, pur mancando il consenso dei condòmini, lo stesso non era necessario poiché, nel caso di specie, appariva «manifesta» la «osservanza dei limiti posti dagli artt. 1102 e 1120 c.c. all’uso del tetto comune da parte dei singoli comproprietari»).
[vii] Cons. Stato, IV, 24 febbraio 2022, n. 1302, citata da M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. Giur. Ed., 3/2022, 171 ss., cui si rinvia in generale sul tema. Netta circa la distinzione tra rapporto pubblico e rapporti privati è anche Cons. Stato, 24 marzo 2011, n. 1770, ove si legge che «la concessione edilizia è un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l’attività edilizia nell’ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all’attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune» (in proposito v. anche A. Chierichetti, Testo unico in materia edilizia, Art. 11, cit., 293). La distinzione tra attività pubblicistiche e questioni civilistiche trova conferma anche nella giurisprudenza della Cassazione: si veda, per esempio, Cass. civ., II, 20 gennaio 2022, n. 1764, secondo cui «[…] in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l’aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni».
[viii] Tar Campania, VI, 18 aprile 2017, n. 2114, ove si legge che l’assenso dei condòmini «non rileva ai fini della conformità urbanistica […] trattandosi di aspetti rimessi alla esclusiva valutazione della autorità amministrativa», ma tuttavia «la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini ai fini del rilascio di titoli abilitativi al posizionamento sulle facciate dei fabbricati di canne fumarie, risponde alla esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie».
[ix] L’obbligo del controllo si potrebbe ricavare dall’art. 11, c. 1, d.P.R. n. 380/2001, che stabilisce che il permesso di costruire sia rilasciato «al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo» oppure, in generale, dall’art. 6, c, 1, lett. a) della l. n. 241/1990, laddove richiede che il responsabile del procedimento valuti «le condizioni di ammissibilità i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento» (in tal senso, v. A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 338); si veda anche F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 157.
[x] In senso conforme, v. anche la successiva sentenza del CGARS, sez. giurisdizionale, 21 agosto 2023, n. 535.
[xi] Cass. civ., SS.UU., 22 settembre 2016, n. 18571; Cass. civ., II, 20 ottobre 2021, n. 29166.
[xii] Non tutta, però: si vedano per esempio Tar Abruzzo, L’Aquila, I, 23 marzo 2016, n. 177 e Cons. Stato, V, 7 settembre 2009, n. 5223.
[xiii] Per usare le parole di A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 325, «la disciplina civilistica si proietta su quella amministrativa per quanto riguarda l’esatta individuazione del soggetto titolare dello jus aedificandi ed in quanto tale abilitato a conseguire il titolo edificatorio».
[xiv] Sul punto sia consentito rinviare a L. Ferrara, G. Mannucci, I. Piazza, Sui rapporti di vicinato in una giurisprudenza recente. Diritti soggettivi e interessi legittimi, diritti soggettivi trasformati in interessi legittimi o soltanto diritti soggettivi?, in Dir. Pubbl., 2023, spec. 315.
[xv] Si trova in ciò conferma, incidentalmente, che in sede di esecuzione civile vengono compiuti accertamenti preordinati alla stessa esecuzione della sentenza: in generale sul tema si rinvia, per tutti, a P. Biavati, Argomenti di diritto processuale civile, BUP, Bologna, 2023, 783 ss.; in particolare sulla analogia, da questo punto di vista, tra processo di esecuzione e giudizio di ottemperanza si rinvia invece a L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Giuffrè, Milano, 2003, spec. 57 ss. e 250 ss.
[xvi] Per questa impostazione, v. G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo. Dalla legalità ai diritti, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2016, 246 ss.
[xvii] Diverso è il caso delle norme sulle distanze tra le costruzioni, che, come noto, costituiscono limiti legali e integrano il parametro di conformità edilizia: oltretutto, in questo caso, «trattandosi (…) di vincoli direttamente imposti dalla legge, per essi non si pongono certo problemi in tema di “conoscibilità” dei medesimi da parte dell’Amministrazione» (A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 322). Anche su questo punto, v. G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, cit., 249 ss. Nega che la verifica dell’amministrazione sul titolo del richiedente possa «mai tradursi in una funzione arbitrale o paragiudiziale» G. Pagliari, Il permesso di costruire, in F.G. Scoca, P. Stella Richter, P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, vol. I, Giappichelli, Torino, 2018, 771 s., secondo cui l’attività dell’amministrazione debba limitarsi a una «verifica dell’idoneità giuridico-formale del documento prodotto ad attestare la titolarità del diritto di proprietà o della diversa qualità vantata per legittimare la richiesta del permesso di costruire».
[xviii] Come ricorda anche il CGARS nella sentenza, il rilascio del titolo edilizio deve avere «esclusivo riguardo alla compatibilità urbanistica» dell’opera; il che «non implica affatto che essa non sia lesiva di diritti soggettivi altrui», ma ogni questione che li riguarda ha una «unica sede competente, che è il giudizio civile». Una ricostruzione simile è seguita anche in L. Ferrara, G. Mannucci, I. Piazza, Sui rapporti di vicinato in una giurisprudenza recente, cit., spec. 314 ss.
[xix] F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 158.
[xx] Ché, come abbiamo visto, neppure il giudicato civile è a volte in grado di chiudere la questione.
[xxi] F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 159.
[xxii] Lo stesso Autore specifica che la contestazione dovrebbe essere «puntuale e dettagliat[a]» (F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 158), introducendo tuttavia così un elemento di valutazione che si scontra con la linearità della stessa tesi; anche D. Chinello, Legittimazione edilizia dei singoli condòmini per intervenire sulle parti comuni e poteri comunali di verifica, in Urb. App., 4/2012, 461, che aderisce alla tesi del controllo sui titoli da parte dell’amministrazione, suggerisce di porre a carico del richiedente una «accurata verifica tecnica» circa la applicazione dell’art. 1102 c.c. e, quindi, circa possibilità di effettuare un intervento sulle parti comuni senza aver prima ottenuto il consenso dei condòmini. Sulla necessaria ‘serietà’ delle contestazioni sul titolo civilistico, si veda la recente sentenza del CGARS, sez. giurisdizionale, 15 settembre 2023, n. 569.
Pubblicato il 05/06/2023
N. 00392/2023REG.PROV.COLL.
N. 00119/2022 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA
Sezione giurisdizionale
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 119 del 2022, proposto dai signori -OMISSIS- rappresentati e difesi dall’ avv. Salvatore Cittadino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
il Comune di Agira, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
nei confronti
la signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avv. Angelo Gagliano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania (Sezione Prima) n. 3730 del 13 dicembre 2021
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della signora -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 marzo 2023 il consigliere Giovanni Ardizzone e uditi per le parti gli avvocati come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. È stata appellata la sentenza, indicata in epigrafe, con la quale il T.a.r. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha respinto il ricorso, integrato da motivi aggiunti, n.r.g. 1806/2020, proposto dai signori -OMISSIS- quest’ultimo nella qualità di legale rappresentante pro tempore della -OMISSIS- per l’annullamento
quanto al ricorso introduttivo
- dell'ordinanza di demolizione n. -OMISSIS-, notificata il 3 ottobre 2020, con la quale viene ingiunto ai ricorrenti, nelle rispettive qualità di proprietari e di esecutore dei lavori, di procedere alla rimozione dell’opera non autorizzata ovvero una modesta canna fumaria, collocata nel muro esterno comune, al servizio dell’unità immobiliare, posta al piano terra dell’edificio ubicato in Agira, -OMISSIS- e di ogni altro atto antecedente, susseguente e connesso con il provvedimento impugnato, ivi compreso, ove occorra, la relazione di sopralluogo, effettuata dall'Ufficio tecnico comunale (U.T.C.), congiuntamente al personale della Polizia Municipale, -OMISSIS-;
quanto al ricorso per motivi aggiunti
- dell’accertamento di inottemperanza dell’ordinanza di demolizione n. -OMISSIS-, cui è attributo la natura di titolo per l’immissione in possesso e di acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune, secondo quanto previsto dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, notificato il 25 maggio 2021, nonostante non sia stata mai notificata nessuna ordinanza di demolizione ex art. 31 precitato;
- del provvedimento prot. n. -OMISSIS- con cui è stata data comunicazione di immissione in possesso e di acquisizione gratuita al patrimonio del Comune, «non si sa di cosa e presumibilmente della canna fumaria non autorizzata», con contestuale irrogazione della sanzione pecuniaria, il tutto ai sensi di quanto previsto dall’art. 31 comma 3 del d.P.R. n. 380/2001, con contestuale diffida ai ricorrenti «a non utilizzare in alcun modo l’opera, evitando tassativamente la fuoriuscita di fumi con l’accensione del forno o di qualsiasi altro dispositivo»;
- del provvedimento prot. n. -OMISSIS- dello Sportello unico attività produttive del Comune di Agira, avente ad oggetto: «Segnalazione Certificata Inizio Attività, presentata per l’avvio di attività di somministrazione e bevande da svolgersi all’interno dell’unità immobiliare distinta al NCEU al foglio -OMISSIS- - piano terra, ubicata in via -OMISSIS-. Dichiarazione di nullità e non efficacia della SCIA assunta al prot. -OMISSIS-. Intimazione a non intraprendere avvio dell’attività», con il quale si intima al signor -OMISSIS-, nella qualità di legale rappresentante della società “-OMISSIS-”, di non dare avvio all’attività di somministrazione di alimenti e bevande all’interno dell’unità immobiliare indicata in oggetto e di ogni altro atto antecedente, susseguente e connesso con i provvedimenti impugnati.
2. Per migliore intelligenza si richiamano i fatti, oggetto della controversia, come ricostruiti dal Giudice di prime cure:
- i ricorrenti sono, rispettivamente, proprietari (-OMISSIS-) e conduttore (-OMISSIS-) del piano terra dell’edificio, che ha altre due elevazioni, sito in Agira via -OMISSIS-
- da tempo, in detto edificio, esistevano una canna fumaria ed un tubo di convogliamento di fumi ed odori, regolarmente autorizzate, una (la canna fumaria) nel prospetto di via -OMISSIS-e l’altro (il tubo di convogliamento di fumi e odori) nel prospetto di via -OMISSIS-, al servizio del piano terra, dove vi era una pizzeria - tavola calda - pasticceria – rosticceria, anche da asporto, per tanti anni aperta al pubblico;
- per detti accessori vi è stato un lungo contenzioso con la proprietaria delle unità immobiliari soprastanti il piano terra, odierna controinteressata, conclusosi con una sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta n. -OMISSIS-che ne ha imposto la rimozione, per alterazione del decoro architettonico, in parziale conferma della sentenza del Tribunale di Nicosia n. -OMISSIS-, che aveva imposto lo spostamento o il rivestimento della sola canna fumaria di via -OMISSIS-;
- l’allora proprietario dell’immobile a piano terra, per dare esecuzione alla sentenza di primo grado, nel 2014, aveva rimosso la canna fumaria in via -OMISSIS-;
- successivamente, in esecuzione della sentenza della Corte di Appello, nel prospetto di via -OMISSIS-, veniva collocata una nuova canna fumaria, «nel rispetto delle distanze legali e del decoro architettonico»;
- tale nuova collocazione avveniva previa autorizzazione del Comune e parere dell’ARPA, reso con nota prot.-OMISSIS-, come si evince dalla nota prot. -OMISSIS- dell’Ufficio tecnico comunale, permettendo, così, la prosecuzione dell’attività di pizzeria, che già aveva ottenuto l’agibilità come attestato con nota -OMISSIS-;
- la nuova canna fumaria, collocata nel prospetto di via -OMISSIS-e autorizzata dal Comune, è stata eliminata coattivamente dall’Ufficiale giudiziario, «come se si fosse trattato della vecchia e ciò in presunta esecuzione della sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta che riguardava la vecchia canna fumaria già eliminata e non la nuova, collocata in diverso sito e con modalità costruttive diverse»;
- dopo una SCIA, del 2020, a mezzo della quale il signor -OMISSIS- comunicava la ricollocazione della nuova canna fumaria, che nel 2014 aveva avuto l’assenso del Comune e dell’ARPA, ritenuta non ammissibile dallo stesso Comune, in data 19 settembre 2020, uno dei ricorrenti trasmetteva – valutando l’attività che si apprestava a fare come attività edilizia libera – una C.I.L. al Comune, ai sensi dell’art. 3, comma 2, della l. r. 10 agosto 2016, n. 16 e reinstallava la stessa canna fumaria, già assentita, nel 2014, dall’Amministrazione comunale e dall’ARPA, nel rispetto delle distanze e del decoro architettonico, e ciò per potere riavviare l’attività di pizzeria;
- il Dirigente del 4° Settore tecnico del Comune, in esito al sopralluogo congiunto dell’U.T.C. e del Comando dei Vigili Urbani, di cui viene redatta apposita relazione (nota -OMISSIS-), nella quale si evidenziava che la ricollocazione della canna fumaria, già autorizzata nel 2014, necessitava del consenso di tutti i condomini, ingiungeva la demolizione della canna fumaria già realizzata, con avvertimento che in mancanza si sarebbe dato corso ai provvedimenti conseguenti.
- il Comune, quindi, adottava ulteriori provvedimenti, impugnati con ricorso per motivi aggiunti:
a) prot n.-OMISSIS-, con il quale veniva data comunicazione di immissione in possesso e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale della canna fumaria non autorizzata con contestale irrogazione della sanzione pecuniaria e intimazione a non utilizzare in alcun modo l’opera;
b) prot. -OMISSIS- dello sportello unico attività produttive con il quale veniva rigettata la SCIA presentata per l’inizio dell’attività avanzata dal signor -OMISSIS-;
- il Comune con nota prot. n.-OMISSIS- «certificava che si trattava della stessa canna fumaria sostituita nel 2014, realizzata nel rispetto dei parametri fissati dal regolamento edilizio».
3. Nel giudizio di primo grado il Comune di Agira non si costituiva, mentre si costituiva la signora -OMISSIS-, chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso.
4. Il T.a.r., con la gravata sentenza, respinge il primo motivo del ricorso con il quale i ricorrenti avevano dedotto i vizi di «violazione ed erronea applicazione dell’art 3 l.r. 16/2016; eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti; totale carenza di motivazione; illogicità e contraddittorietà manifesta», atteso che il Comune avrebbe esercitato un potere sanzionatorio senza alcuna preventiva valutazione negativa della CIL, «posto che, per esercitare un potere repressivo l’Amministrazione preventivamente deve pronunciarsi sulla legittimità dell’attività svolta e sulla assenza di una valida comunicazione per potere eseguire le opere e/o sulla presunta assenza di un provvedimento autorizzatorio». Per il T.a.r., invece, nel provvedimento demolitorio viene richiamata la relazione di sopralluogo prot. n. -OMISSIS-, «nella quale si richiamano sia l’avvenuta presentazione della C.I.L. relativa alla (re)installazione della canna fumaria in questione da parte di -OMISSIS- (con nota PEC assunta al protocollo del Comune intimato n. -OMISSIS-), sia le ragioni che precludono l’intervento in questione (ragioni legate, in sintesi, alla mancanza di assenso - ed anzi, al dissenso - dell’altro comproprietario delle parti comuni del fabbricato, come si ricava dalla vicenda giudiziaria ivi richiamata - alla realizzazione del suddetto intervento)».
Il Giudice di prime cure respinge il secondo motivo con il quale gli esponenti avevano dedotto i vizi di «violazione dell’art. 97 Cost. sotto il profilo dell’imparzialità ed il buon andamento; violazione dei principi di correttezza e buona fede; violazione degli artt. 7 e 21 nonies, della l.n. 241/1990; eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti; sviamento; totale assenza di motivazione», atteso che il Comune, nella sostanza, avrebbe annullato, a prescindere dal nomen iuris utilizzato e per presunte illegittimità, la precedente autorizzazione rilasciata nel 2014 per la realizzazione di una canna fumaria identica a quella oggi ricollocata, e ciò in palese violazione delle disposizioni rubricate e a distanza di 4 anni da quando è stato adottato il provvedimento oggetto di annullamento. Per il T.a.r., invero, l’ordine di rimozione non può essere ritenuto - né sul piano formale né su quello sostanziale - espressione dell’esercizio del potere di autotutela in funzione della caducazione della precedente autorizzazione rilasciata nel 2014. Peraltro la nota prot. -OMISSIS- dell’U.T.C. «racchiude un tenore autorizzatorio sui generis, posto che nel dare riscontro ad una segnalazione dell’odierna controinteressata in merito a lamentate emissioni dalla - nuova - canna fumaria installata, si limita ad evidenziare che il nuovo impianto si pone in conformità ai parametri in materia di distanze ed altezze del regolamento edilizio e a dare atto che, a seguito di sopralluogo, non erano state rilevate emissioni moleste e/o intollerabili».
Il T.a.r. ritiene infondato, ancora, il terzo motivo con il quale i ricorrenti avevano dedotto l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione, non potendo, a loro avviso, trovare applicazione l’art. 27, secondo comma, del d.P.R. n. 380/2001, richiamato nel gravato provvedimento, ma non applicabile alla fattispecie, «posto che non si tratta di un intervento soggetto al permesso di costruire realizzato in zona soggetta a vincolo di inedificabilità o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167». Asserivano che, per la ricollocazione della canna fumaria, l’unica sanzione ipotizzabile sarebbe stata quella «pecuniaria (come previsto per l’attività di edilizia libera, ma anche per gli interventi edilizi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA ovvero in base a SCIA inefficace o nonostante la tempestiva emanazione del provvedimento inibitorio e la difformità totale e parziale, le cui sanzioni sono quelle contemplate all’art. 37 T.U.)». Per il Giudice di primo grado tale motivo è infondato, poiché il richiamo all’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 è un mero errore, dovendosi, più correttamente, richiamare l’art. 31 dello stesso d.P.R., che pone espressamente il termine di 90 giorni per provvedere «alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi». Argomenta che la mancata o erronea indicazione delle norme di legge, su cui si fonda il provvedimento amministrativo, non costituisce ex se ragione di invalidità dell’atto. Per il Collegio l’intervento realizzato rientra nella categoria dei lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 e necessiterebbe, per tale ragione, del permesso di costruire.
Il T.a.r. ritiene, ancora, che fosse necessario il consenso degli altri condomini per la realizzazione di una canna fumaria. Reputa irrilevante il parere della Soprintendenza beni culturali e ambientali di Enna, prot. n. -OMISSIS-, «che si limita a restituire gli atti della pratica senza esprimere alcuna valutazione in merito all’opera in questione».
Il T.a.r., quanto al ricorso per motivi aggiunti, ritiene infondato il primo motivo con il quale viene dedotta «l’illegittimità derivata».
Parimenti infondato ritiene il motivo con il quale i ricorrenti avevano lamentato che «nessuna ordinanza di demolizione è stata mai adottata dal Comune Agira, ai sensi dell’art. 31 sopra richiamato (con la conseguenza che non può trovare, comunque, applicazione né il provvedimento di acquisizione con conseguente provvedimento di immissione in possesso, che peraltro avrebbe dovuto indicare rigorosamente il bene acquisito e l’area di sedime, né la sanzione pecuniaria)». I ricorrenti lamentavano che l’ordinanza adottata dal Comune «sarebbe una c.d. demolizione d’ufficio ex art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, che, per poter essere eseguita, richiede peraltro una preliminare valutazione tecnico-economica approvata dalla giunta comunale, finalizzata ad un immediato intervento demolitorio». Nella fattispecie, considerate le ridotte dimensioni dell’opera, non necessitando il permesso di costruire, non sarebbe neanche ipotizzabile l’adozione di un’ordinanza ex art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Il T.a.r., confuta tali argomentazioni ribadendo che l’ordinanza di demolizione è stata adottata ai sensi dell’art. 31 decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, «nonostante l’erronea indicazione nello stesso provvedimento dell’art. 27, comma 2, del medesimo testo normativo». Per il Giudice di primo grado la parte ricorrente, tramite l’ordine demolitorio sarebbe stata resa edotta che, in caso di inadempienza (mancata rimozione dell’opera non autorizzata entro il termine di novanta giorni dalla notificazione dell’ordinanza stessa), si sarebbe dato corso agli adempimenti conseguenti. In sentenza si puntualizza come la circostanza che l'ordine di demolizione del manufatto abusivamente realizzato non contenga l'indicazione dell'effetto acquisitivo e non descriva l'area da acquisire non è causa di illegittimità dello stesso. Quanto all’oggetto dell’immissione in possesso e dell’acquisizione gratuita, risulterebbe «chiaro dagli atti versati in giudizio che esso coincide con l’opera abusiva (id est, la canna fumaria) nella consistenza e nelle condizioni attuali in cui si trova».
Il T.a.r. ritiene infondate, infine, le doglianze dei ricorrenti secondo cui lo sportello unico attività produttive del Comune di Agira avrebbe adottato l’avversato provvedimento prot. n. -OMISSIS- (nullità e inefficacia della SCIA) «solo perché vi è l’ordinanza di demolizione, l’acquisizione al patrimonio indisponibile del Comune, vi è stata l’immissione in possesso e perché detta ordinanza non è allo stato sospesa». Per il T.a.r., invece, dall’accertata infondatezza delle doglianze articolate avverso i predetti provvedimenti discende l’infondatezza del motivo di ricorso in esame.
5. Gli appellanti, con l’odierno gravame, articolano plurime censure alla sentenza, rubricate in quattro distinti titoli.
i. «violazione degli artt. 3, 22, 31, 37 e 27 del d.P.R. n. 380/2001; violazione della l.r. 16 del 2016 di recepimento nella Regione Siciliana del d.P.R.; eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti illogicità; contraddittorietà; sviamento; totale assenza di motivazione».
Gli appellanti con il primo motivo ribadiscono che l’ordinanza di demolizione è stata adottata, erroneamente, in presunta esecuzione dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 e senza alcuna motivazione, e non dell’art. 31 del medesimo d.P.R. n. 380/2001, come statuito in sentenza. La collocazione della canna fumaria, diversamente da quanto ritenuto dal Giudice di primo grado, non necessitava del permesso di costruire e il problema del dissenso dei condomini, che comunque non ha fondamento, avrebbe dovuto essere «risolto solo dal Giudice civile e non dall’autorità amministrativa». Per gli appellanti l’intervento di mera sostituzione di una canna fumaria, peraltro con le stesse dimensioni e identica localizzazione rispetto alla precedente, andrebbe considerato, casomai come «manutenzione straordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001, soggetto quindi a Scia ai sensi dell’art. 22, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente perseguibilità dell’intervento compiuto in assenza di titolo con una sanzione pecuniaria in relazione alla gravità dell'abuso, ai sensi dell’art. 37». Il T.a.r. erroneamente, invece, avrebbe qualificato l’intervento in parola come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed impianti, per cui sarebbe stato necessario il permesso di costruire. Evidenzia come lo stesso Comune, «con l’attestazione prot. -OMISSIS-, prodotta in atti, ha certificato inequivocabilmente che si tratta della mera reinstallazione della stessa canna fumaria sostituita nel 2014, realizzata nel rispetto dei parametri fissati dal vigente regolamento edilizio e regolarmente autorizzata». Gli appellanti lamentano che il Giudice di primo grado argomentando la propria decisione con riferimento al decoro architettonico avrebbe integrato, inammissibilmente, ex post la motivazione dell’impugnato provvedimento;
ii. «violazione dell’art.97 Cost. sotto il profilo dell’imparzialità ed il buon andamento; violazione dei principi di correttezza e buona fede; violazione degli artt. 7 e 21 nonies l.n. 241/1990; eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti; sviamento; totale assenza di motivazione», atteso che il Comune non ha considerato che la canna fumaria del 2020 è la stessa collocata nel 2014, già autorizzata dal Comune e munita del parere dell’ARPA. Per tale ragione l’ordinanza di demolizione rappresenterebbe «un implicito annullamento in autotutela del provvedimento autorizzativo del 2014, intervenuto in primis oltre un ragionevole limite temporale in violazione dell’art. 21-nonies l.n. 241/1990»;
iii. «violazione per falsa ed erronea applicazione dell’art. 31, commi 3,4, e 4 bis e dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, come recepito in Sicilia con l.r.16.2016; eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti illogicità; contraddittorietà; irragionevolezza; sviamento; motivazione erronea ed insufficiente», atteso che l’ordinanza di acquisizione sarebbe stata adottata sua base della cosiddetta demolizione d’ufficio ex art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, e non dell’art. 31 come avrebbe dovuto essere. Gli appellanti lamentano che il primo Decidente avrebbe inammissibilmente integrato la motivazione del provvedimento laddove si argomenta «che l’ordinanza impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio è un’ordinanza di demolizione ex art. 31 e solo per semplice lapsus calami è stato fatto riferimento all’art. 27 d.P.R. n. 380/2001»;
iv. «illegittimità della pronuncia sulle spese», atteso che, conseguentemente, le spese andrebbero oste a carico del soccombente.
6. Anche nel presente giudizio il Comune di Agira non si è costituto.
7. Con memoria, depositata il 23 febbraio 2022, si è costituita la controinteressata, sig.ra -OMISSIS-, eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità dell’appello poiché gli appellanti «si sono limitati a una mera riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado senza formulare specifiche censure alla motivazione della sentenza». Nel merito controdeducono alle doglianze portate dal gravame.
8. Gli appellanti con memoria del 12 marzo 2022 replicano alla superiore eccezione di inammissibilità, e, previa dichiarazione di interesse alla decisione del 29 luglio 2022, depositano ulteriori memorie il 7 settembre 2022, e, in prossimità dell’odierna udienza, ai sensi dell’art. 73 del c.p.a., in data 15 febbraio 2023.
9. All’udienza del 22 marzo 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.
10. Preliminarmente, questo Collegio ritiene di affermare che l’appello è ammissibile, poiché, diversamente da quanto eccepito dalla controinteressata, la difesa dell'appellante non si è limitata a riproporre i motivi del ricorso originario. Anzi, ha censurato, sotto più profili, la sentenza impugnata, contestando, con puntuali argomentazioni, le tesi formulate dal primo giudice a sostegno della sua decisione.
11. Nel merito l’appello è fondato.
Con il primo assorbente motivo gli appellanti premettono che l’impugnata ordinanza di demolizione n. -OMISSIS- è stata adottata «in presunta esecuzione dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 e senza motivazione e non dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, come, comunque, avrebbe dovuto essere emesso ed è quindi, per ciò solo illegittima mancando i presupposti in nuce per l’emissione dell’art. 27» e precisano che, «anche a volere considerare sia stata emessa ai sensi del citato art. 31 e che ha come motivazione quella indicata nel verbale di sopralluogo» ovvero che la collocazione della canna fumaria avrebbe dovuto essere autorizzata anche dagli altri condomini, il provvedimento è comunque illegittimo perché «l’attività messa in atto non necessitava di permesso di costruire ed il problema del dissenso poteva e doveva essere risolto solo dal Giudice civile e, comunque, non ha fondamento».
Il Collegio rileva che il T.a.r., esaminando il terzo motivo del ricorso di primo grado, riproposto con il citato primo motivo di appello, ha respinto le censure dei ricorrenti argomentando che:
- il richiamo all’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, è sì «erroneo», ma inidoneo a postulare l’invalidità dell’atto, poiché agli appellanti viene assegnato il termine di novanta giorni per provvedere «alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi», previsto dall’art. 31 dello stesso d.P.R., sebbene tale ultimo articolo non sia stato espressamente indicato nella gravata ordinanza;
- l’intervento realizzato necessita del “permesso di costruire” poiché rientra nella categoria dei lavori di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3, comma 1 lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 in quanto «non è di irrilevante impatto visivo»;
- occorreva il previo assenso degli altri comproprietari, ai sensi dell’art. 1102 del c.c., e spetta al giudice verificare se l’opera arreca pregiudizio al decorso architettonico dell’edificio che, nel caso di specie, sarebbe stato acclarato dalla Corte di Appello di Caltanissetta con sentenza n. -OMISSIS-;
- è irrilevante la precisazione della parte ricorrente circa la diversità dell’originaria canna fumaria (rettangolare) rispetto a quella successivamente installata e poi rimossa (2018), sussistendo un manifesto contrasto fra i comproprietari in ordine alla realizzazione dell’intervento de quo;
- è irrilevante il parere della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali di Enna che si limita a restituire gli atti della pratica, senza esprimere alcuna valutazione in merito all’opera in questione.
Le argomentazioni del Giudice di primo grado non persuadono per la dirimente ragione che l’ordinanza di demolizione appare motivata con rinvio alla relazione di sopralluogo prot. n. -OMISSIS- nella quale, dopo il riferimento all’art.1102 del c.c., testualmente è riportato che «in conseguenza del mancato assenso preventivo reso dagli altri soggetti comproprietari, viene meno la piena legittimità da parte del sig.-OMISSIS-, alla collocazione dell’opera in argomento su parti comuni e, per effetto di ciò, la stessa deve essere considerata illecita e quindi soggetta all’adozione dei provvedimenti repressivi di legge; per le medesime motivazioni, legate al mancato assenso degli altri soggetto comproprietari, agli atti dell’U.T.C. risultano essere state rigettate le precedenti iniziative proposte per la stessa opera, sempre dal sig.-OMISSIS- […]».
Invero la P.A. dalla supposta violazione dell’art.1102 del c.c., il cui accertamento invece appartiene al Giudice ordinario, ha fatto derivare l’illegittimità urbanistica, con conseguente emissione dell’ordinanza di demolizione e, a seguire, quella di acquisizione.
Ad avviso del Collegio è, viceversa, del tutto evidente che l’abusività di un’opera (che sia urbanisticamente realizzabile: come certamente è, ex se, l’installazione di una canna fumaria su un muro perimetrale di un edificio privato non vincolato) non può essere in alcun senso condizionata dall’assenso o dal dissenso degli altri comproprietari, essendo pacifico, da un lato, che i loro diritti – ivi inclusi quelli connessi all’eventuale travalicamento dei limiti imposti a ogni comunista dall’art. 1102 cod. civ., nonché la lesione del c.d. decoro architettonico dell’edificio: ai quali corrispondono diritti soggettivi individuali di ogni altro condomino, e non già interessi legittimi tutelabili in via amministrativa – non sono giammai pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio (che è sempre legittimamente rilasciato, senza neanche bisogno di esplicitazione, con salvezza dei diritti dei terzi); dall’altro, e quale immediato corollario di quanto appena detto, che i diritti dei terzi sono tutelabili (esclusivamente) mediante azioni civili innanzi al Giudice ordinario.
Ciò vale quanto dire che la legittimità dell’intervento edilizio – che, per incidens, per l’installazione di una canna fumaria sul muro perimetrale neppure sembra poter eccedere, ex se, i limiti della straordinaria manutenzione dell’edificio, del tutto a prescindere dal fatto che sia posta in essere dal condominio o (nel proprio esclusivo interesse) da un singolo condomino – che “ciascun partecipante” alla comunione chieda alla p.a. di essere autorizzato a eseguire in forza della norma che gli consente di “servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto” (come testualmente recita l’articolo 1102 del codice civile), deve essere valutata dall’amministrazione (competente ad autorizzarlo solo per i profili amministrativi) senza riguardo ai profili civilistici e ai connessi limiti posti dal cit. art. 1102, perché tali profili e limiti sono tutti azionabili (dai titolari della specifica facultas agendi: che, per quanto attiene all’art. 1102 cod. civ., pertiene uti singuli a ciascuno degli altri comunisti) soltanto davanti al giudice civile.
Le decisioni del quale, tuttavia, operano (e dunque si eseguono) su piani diversi (in primo luogo, quello che facoltizza, ma non obbliga, all’esercizio dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare o non fare) e per nulla interferenti con le valutazioni amministrative di competenza comunale.
Pertanto, è ex se viziato l’esercizio del potere amministrativo come mero “braccio esecutivo” delle sentenze del giudice civile, appunto come il Comune di Agira si è ritenuto in dovere di fare: pur se senza dubbio in buona fede, avendo apertamente dichiarato (come sopra trascritto) che proprio (e solo) “in conseguenza del mancato assenso preventivo reso dagli altri soggetti comproprietari, viene meno la piena legittimità” dell’opera (altrimenti già amministrativamente assentita, e dunque ex se certamente assentibile) e – secondo l’erronea tesi comunale – “per effetto di ciò, la stessa deve essere considerata illecita e quindi soggetta all’adozione dei provvedimenti repressivi di legge”.
Senonché, altro sono gli interventi repressivi azionabili, dopo la condanna del giudice ordinario alla inibizione o alla rimozione dell’opera, dal titolare del diritto a tale rimozione (ex artt. 612 e ss. c.p.c.), e altro gli interventi in autotutela dell’autorità amministrativa: la quale, né ha bisogno di una sentenza civile per denegare, o revocare, un’autorizzazione illegittima; né è tenuta a denegare, o revocare, un’autorizzazione che sia altrimenti legittima sol perché ci sia stata, o sopravvenga, una sentenza del giudice civile (del quale, giova ribadirlo, l’amministrazione non è organo esecutivo).
L’amministrazione è invece tenuta a rilasciare il titolo abilitativo edilizio avendo esclusivo riguardo alla compatibilità urbanistica dell’opera richiesta – il che non implica affatto che essa non sia lesiva di diritti soggettivi altrui – lasciando ogni questione afferente a diritti soggettivi alla sua unica sede competente, che è il giudizio civile.
Non è infatti l’amministrazione comunale a poter valutare, neanche incidentalmente, se l’opera integri un’alterazione della destinazione della cosa comune (di cui un singolo comunista voglia servirsi in modo esclusivo); né se tale utilizzo sia compatibile con l’uso paritario altrui; né, infine, se l’opera sia o meno lesiva del decoro architettonico dell’edificio (ciò potendo evidentemente spettare, ma solo nei congrui casi, all’amministrazione dei beni culturali; che però, nella vicenda di specie, ha significativamente e correttamente ricusato ogni proprio intervento sull’edificio de quo).
Così come non è l’amministrazione comunale a dover dosare, modificare, revocare o confermare i propri atti di assenso amministrativo secondo le sopravvenienti decisioni del giudice civile: che, appunto, non spetta all’amministrazione comunale di eseguire o attuare, neanche intervenendo – in modi ritenuti correttivi – sui propri atti già adottati, o anche la cui adozione sia in itinere.
L’amministrazione civica, infatti, oltre a non avere gli strumenti tecnici per valutare i profili di cui si è detto, soprattutto non ha la potestà per intervenire in tali sensi e sarebbe, anzi, assai pericoloso – per la stessa tutela dei diritti soggettivi di tutti i soggetti coinvolti – se lo facesse, anche solo in via di stretta esecuzione delle sentenze rese dal giudice civile: giacché, per esempio, pur dopo un giudicato civile che abbia ordinato la demolizione dell’opera, le parti restano perfettamente libere di transigere o novare ogni loro diritto od obbligo scaturente da esso, mentre un esercizio della potestà pubblica volto a recepire i contenuti della pronuncia civile lederebbe il diritto di tutte le parti a ulteriormente esercitare la propria autonomia negoziale pur dopo il giudicato civile.
È sulla base di tali considerazioni che può concludersi l’esame della specifica vicenda sottoposta.
La fattibilità della collocazione di una nuova e diversa canna fumaria, rispetto a quella oggetto del contenzioso civile, definito con la sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta n. -OMISSIS-, avrebbe dovuto essere nuovamente esaminata dalla P.A. che avrebbe dovuto valutarne la conformità urbanistica a prescindere, nella specifica fattispecie, dalle questioni decise dal giudice civile. Altrimenti opinando, è dal mero dissenso di un comproprietario che il Comune, implicitamente e illegittimamente, avrebbe derivato la sussistenza della violazione del decoro architettonico, che è il valore che l’ordinamento civile tutela.
Quindi la controinteressata, casomai, avrebbe dovuto rivolgersi nuovamente al Giudice ordinario per accertare se la nuova canna fumaria violasse ancora il decoro architettonico. Sotto tale profilo appare fondata anche la censura alla sentenza nella parte in cui, come sostengono gli appellanti, si «fa riferimento ad una presunta violazione del decoro architettonico, integrando così ex post ed inammissibilmente la motivazione del provvedimento impugnato».
Il Collegio condivide, altresì, la censura degli appellanti laddove affermano che il T.a.r., erroneamente, ha ritenuto l’opera in parola riconducibile nella categoria dei lavori di ristrutturazioni edilizia (art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001) per i quali sarebbe stato necessario il permesso di costruire. Al riguardo il Collegio richiama l’orientamento giurisprudenziale, formatosi in esito all’esame di casi analoghi, ove si afferma che «la canna fumaria deve ritenersi ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un’opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, senza essere conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione» (T.a.r. Perugia, sez. I, 30 gennaio 2020, n. 41), non sussistendo, a contrario, elementi per ritenere che l’opera in parola incida sulla sagoma dell’immobile (occorrendo, ma solo in tal caso, il “permesso di costruire”). Conseguentemente gli interventi per i quali è richiesta semmai la SCIA o un titolo “minore”, come nel caso di specie, ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001 sarebbero eventualmente soggetti alla sola sanzione pecuniaria, ma non alla demolizione.
Per i superiori assorbenti motivi il ricorso appare fondato.
12. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, annulla gli atti impugnati.
Condanna il Comune di Agira e la signora -OMISSIS-, in solido (e nei loro rapporti interni in parti uguali), a rifondere l’appellante delle spese del doppio grado del giudizio, che liquida in € 8.000,00 (ottomila) oltre alle spese generali, agli accessori di legge e al rimborso dei contributi unificati versati.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare tutte le persone menzionate.
Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 22 marzo 2023 con l'intervento dei magistrati:
Ermanno de Francisco, Presidente
Antimo Prosperi, Consigliere
Giuseppe Chinè, Consigliere
Giovanni Ardizzone, Consigliere, Estensore
Antonino Caleca, Consigliere