MUTABILITA’ DELLA CLASSIFICAZIONE URBANISTICA DI UNA AREA DA PARTE DELL’AMMINISTRAZIONE (COMMENTO ALLA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO, SEZ IV, 16.02.2011, N. 1015): BREVI RIFLESSIONI SULLA INADEGUATEZZA DEL SISTEMA CODIFICATO DEI RIMEDI ALLO “JUS VARIANDI IN PEIUS” E SULLE NUOVE PROSPETTIVE.

di Ennio Moro

1. Non sussiste un diritto del privato alla immutabilità della classificazione urbanistica di una area.

 

Da edificatoria ad agricola: il PRG cambia ma il declassamento è del tutto legittimo.

 

L’esistenza di un’area a “naturale” vocazione edificatoria inizialmente riconosciuta tale anche da formali atti comunali non costituisce, infatti, condizione sufficiente a conseguire una sorte di “diritto” alla immutabilità della destinazione originariamente impressa.

 

Tutto ciò rientra unicamente in una visione privatistica e “dominicale” della vicenda, nel senso che la vocazione edificatoria dell’area, sia pure in fatto veritiera e sussistente e ancorché inizialmente consacrata in atti amministrativi, non può certo condizionare le scelte urbanistiche da effettuarsi da parte dell’Ente locale cui compete il potere di pianificazione territoriale, rispetto al quale le posizioni del privato sono necessariamente recessive.


Peraltro, per consolidato orientamento giurisprudenziale le scelte effettuate dalla P.A. in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale che nel merito appaiono insindacabili e che sono per ciò stesso attaccabili solo per di errori di fatto, per abnormità e irrazionalità delle stesse scelte.

 

Inoltre, in ragione di tale discrezionalità tecnico-amministrativa l’Amministrazione non è tenuta a fornire un’apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l’impostazione del piano.

 

Va, inoltre, tenuto conto che le scelte adottate per ciò che attiene alla destinazione delle singole aree non necessitano di specifica motivazione se non nel caso che la scelta vada ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate ravvisabili nell’esistenza di piani e/o progetti di lottizzazione già approvati.

 

Nel caso in esame, la parte vantava relativamente all’area de qua unicamente un progettato intervento di utilizzazione edificatoria, come dire, una sorte di desiderata che certo non può avere alcuna valenza vincolistica in ordine alla immutabilità della destinazione originaria e neppure costituisce un affidamento appezzabile da meritare una specifica motivazione circa un diverso divisamento dell’Amministrazione.

 

Del resto, la preesistente destinazione urbanistica è del tutto irrilevante e comunque insufficiente ad impedire l’introduzione di previsioni di segno diverso, giacché se cosi non fosse sarebbe messo in discussione lo jus variandi dell’Amministrazione il cui esercizio in subjecta materia è pacificamente ammesso.

 

Ciò nondimeno, a voler configurare un onere di motivazione a carico dell’Amministrazione comunale, va considerato il fatto che la scelta operata dal comune si inserisce nell’ambito di valutazioni di carattere generale ritenute opportune alla luce dei criteri contenuti in una deliberazione giuntale al fine di rendere omogeneo l’assetto territoriale della zona: tale circostanza ben può costituire ragione giustificativa delle nuove scelte, senza che si debba dare rilievo e neppure rendere contezza dello stato dei luoghi preesistente.

 

In ragione di ciò queste scelte non devono essere sorrette da una specifica motivazione  - che tenga conto, anche solo eventualmente, delle aspirazioni dei cittadini - in quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri generali di impostazione del piano, ed è quindi  al riguardo sufficiente il semplice riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di piano.

 

Di conseguenza le  scelte pianificatorie possono essere censurate soltanto in presenza di evidenti vizi logico-giuridici nel quadro delle linee portanti della pianificazione.

 

La regola generale dell’ampia discrezionalità amministrativa nelle scelte di pianificazione urbanistica subisce un'eccezione in alcune situazioni specifiche in cui il principio della tutela dell’affidamento impone che il piano regolatore dia conto del modo in cui è stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e sono state operate le scelte di pianificazione. Meritevoli di questa particolare forma di tutela sono peraltro solo quelle situazioni caratterizzate da un affidamento “qualificato” (Consiglio di Stato, sez. IV, 7 aprile 2008, n. 1476). Tale posizione è stata riconosciuta: a) nel superamento degli standard minimi di cui al d.m. 2 aprile 1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree; b) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia (oggi permesso di costruire) o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione; c) nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 22 dicembre 1999, n. 24, Consiglio di Stato, sez. III, 6 ottobre 2009, n. 1610; sez. V, 2 marzo 2009, n. 1149; sez. VI, 18 aprile 2007, n. 1784). Negli altri casi l’esistenza di una precedente diversa previsione urbanistica non comporta invece per l’amministrazione la necessità di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle diverse scelte operate anche quando queste sono nettamente peggiorative per i proprietari (e per le loro aspettative), dovendosi (in tali altri casi) dare prevalente rilievo all’interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie intendono perseguire.

 

Con specifico riferimento ai presupposti per il legittimo esercizio dello jus variandi in sede di adozione di un nuovo strumento urbanistico, l’obbligo di una puntuale motivazione sussiste quando le nuove scelte incidano su aspettative qualificate del privato, quale quelle derivanti: a) dalla stipulazione di una convenzione di lottizzazione; b) da una sentenza dichiarativa dell’obbligo di disporre la convenzione urbanistica; da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia; c) dalla decadenza di un vincolo preordinato all’espropriazione; non sussiste invece un obbligo di motivazione specifica nel caso di reformatio in peius di precedenti previsioni urbanistiche che in origine consentivano una più proficua utilizzazione dell’area, essendo sufficiente in tali ipotesi fare riferimento ai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento urbanistico.

 

L’unico limite che incontra l’ente locale nell’esercizio della delicata funzione di pianificazione urbanistica, oltre quello intrinseco della non arbitrarietà, non irragionevolezza e non irrazionalità, è costituito dalle "direttive" contenute nei piani territoriali di coordinamento ed in quelli ad essi assimilati; tali direttive indicano – evidentemente – i parametri minimi a cui deve adeguarsi, per la protezione di alcuni specifici interessi urbanistici ovvero per la tutela di altri interessi pubblici incidenti sulla materia urbanistica (tutela paesaggistica, difesa del suolo, etc.), la discrezionalità dell’ente locale, senza poter impedire che il concreto esplicarsi della funzione di pianificazione possa accordare ai predetti interessi pubblici una tutela anche maggiore di quella minima di riferimento.

 

Le norme in materia urbanistica contenute nella legislazione statale  ed in quella regionale, che disciplinano il concreto esercizio della funzione di pianificazione urbanistica e il relativo uso della discrezionalità, indirizzandola all’effettivo soddisfacimento dell’interesse pubblico - salvo limitatissime previsioni, che devono considerarsi eccezionali e di stretta interpretazione - non possono essere interpretate nel senso di imporre all’Amministrazione comunale determinate scelte urbanistiche, facendo del relativo strumento urbanistico generale un atto a contenuto, anche parzialmente, vincolato.

 

In linea con questo consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa il Consiglio di Stato, con Sentenza  16 febbraio 2011, n. 1015, ha rigettato un ricorso avverso le scelte pianificatorie di un comune lombardo, imperniato sull’assunto che l’ente locale avrebbe omesso di fornire una specifica motivazione a fronte di legittime aspettative vantate dal ricorrente, in ordine alla diversa classificazione dell'area di sua proprietà.

 

In merito il Collegio ha ribadito che in ragione della discrezionalità che connota queste valutazioni le scelte effettuate dalla P.A. in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono censurabili solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità delle stesse (cfr Cons Stato Sez. IV 6/2/2002 n. 664; idem 27/7/2010 n. 4920).

 

Motivo per cui l'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate in sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano (in tal senso questa Sezione 10/8/2004 n. 4550).

 

N. 1015/2011 REG.PROV.COLL.

N. 02808/2006 REG.RIC.

N. 02809/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

 

SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale 2808 del 2006, proposto da: F. Lente S.r.l., rappresentato e

difeso dagli avv. Amos Andreoni, Luciano Ongaro, con domicilio eletto presso il primo , in Roma,

via Bergamo, 3;

 

contro

 

Comune di P., rappresentato e difeso dagli avv. Mario Benedetti, Federico Carella, con domicilio

eletto presso il secondo, in Roma, via degli Scipioni 8;

sul ricorso numero di registro generale 2809 del 2006, proposto da: F. Lente S.r.l., rappresentato e

difeso dagli avv. Amos Andreoni, Luciano Ongaro, con domicilio eletto presso il primo, in Roma,

via Bergamo, 3;

 

contro

 

Comune di P., Regione Lombardia;

 

per la riforma

 

- quanto al ricorso n. 2808 del 2006:

della sentenza del T.a.r. Lombardia – Sez. Staccata Di Brescia n. 00172/2005, resa tra le parti, concernente: DINIEGO CONCESSIONE EDILIZIA (RIS. DANNO)

 

- quanto al ricorso n. 2809 del 2006:

della sentenza del T.a.r. Lombardia – Sez. Staccata Di Brescia n. 00173/2005, resa tra le parti, concernente: DINIEGO CONCESSIONE EDILIZIA (RIS. DANNO)

 

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 gennaio 2011 il Cons. Andrea Migliozzi e uditi per le

parti gli avvocati Franzin su delega di Andreoni, Ongaro e Crisci su delega di Benedetti Franzin su

delega di Andreoni, e Ongaro;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

 

La Società F. Lente S.r.l., proprietaria di un’area sita in località V. di Sotto del Comune di P., classificata come edificabile dal PRG comunale adottato nel 1987 e approvato nel 1990, presentava in data 28 gennaio 2002 all’anzidetto Comune istanza di rilascio di concessione edilizia per la realizzazione sul terreno di sua proprietà di un nuova costruzione residenziale .

La domanda era oggetto della relativa istruttoria , ma intanto con deliberazione consiliare n.7 del 22 marzo 2002 il Comune adottava un nuovo PRG che imprimeva all’area della F. Lente una nuova, diversa destinazione, incompatibile con la suindicata richiesta di edificazione.

La Commissione edilizia comunale nella seduta del 10 aprile 2002 esprimeva parere negativo in ordine all’intervento edilizio richiesto in ragione del contrasto con la normativa recata dal nuovo PRG adottato dal Comune e tale parere veniva recepito dal Responsabile dell’Ufficio Tecnico con atto del 16/4/2002. lo comunicava alla predetta Società

F. Lente s.r.l. Impugnava innanzi al TAR per la Lombardia – Sezione di Brescia – l’anzidetto provvedimento, il pregresso parere della CEC nonché la presupposta delibera del Consiglio Comunale di P. recante l’adozione del nuovo PRG, deducendone la illegittimità per i vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto vari profili.

L’adito TAR con sentenza n.1702 del 25/3/2005 rigettava il ricorso , ritenendolo infondato.

La Società F. Lente ha impugnato con l’appello n.2808/2006 tale sentenza , ritenendola errata nelle osservazioni e prese conclusioni.

A sostegno del proposto gravame sono stati dedotti i seguenti motivi:

1) Violazione dell’art..4 della legge n.793 del 1993 che regola il procedimento di rilascio di concessione edilizia ed eccesso di potere , sotto il profilo dell’illegittimo aggravamento del procedimento amministrativo;

2) Violazione e falsa applicazione dell’art.3 della legge n.241/90 ed eccesso di potere sotto il profilo dell’assenza di motivazione;

3) Eccesso di potere sotto il profilo della palese irragionevolezza, dell’erroneità della valutazione dei luoghi e della disparità di trattamento; 4) della legge e falsa applicazione dell’articolo unico della legge n.1902/1952;

Con un quinto motivo parte appellante ha poi chiesto che il Comune intimato venga condannato al risarcimento dei danni patiti e patiendi conseguenti alla dedotta illegittimità del mancato accoglimento della richiesta del permesso di costruire.

Si è costituito in giudizio il Comune di P. che ha eccepito l’improcedibilità (rectius) l’inammissibilità dell’appello per carenza / indeterminatezza dei motivi avversi l’impugnata sentenza, concludendo nel merito per l’infondatezza del proposto gravame di cui ha chiesto la reiezione.

Intanto, con un successivo ricorso la Società F. Lente impugnava le deliberazioni del Consiglio Comunale di P. n.30 del 15/12/2002 e n.13 del 13 agosto 2003 di controdeduzioni alle osservazioni

al PRG presentate nonché la deliberazione della Giunta Regionale della Lombardia n.17567 del 17/5/2004 recante l’approvazione del PRG del Comune di P. di cui alla delibera comunale n. 7/2002, denunciando anche qui a carico degli attui gravati vari profili di illegittimità.

Con sentenza n.173 del 21 /372005 il TAR rigettava anche questo secondo gravame, ritenendolo parimenti infondato.

La Società F. Lente ha quindi impugnato con altro appello (il n. 2809/2006) tale sentenza, riproducendo a sostegno del gravame i motivi di illegittimità già dedotti col ricorso proposto avverso la sentenza n.172/05 che ha definito l’impugnativa dei pregressi atti comunali concernenti il

sostanziale diniego di concessione edilizia e di adozione del nuovo Piano Regolatore Generale e reiterando anche in questa sede la già formulata richiesta di risarcimento danni.

All’udienza dell’11 gennaio 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

 

DIRITTO

 

I due appelli all’esame vanno preliminarmente riuniti per evidenti ragioni di connessione sia soggettiva che oggettiva intercorrenti fra gli stessi..

Ciò premesso, va disattesa l’eccezione di inammissibilità dedotta dal Comune relativamente al primo dei predetti appelli.

Invero, i motivi di contestazione delle statuizioni assunte dal primo giudice sono agevolmente evincibili dal testo del proposto gravame e comunque in ragione dell’effetto devolutivo del gravame

le proposte censure sia per l’oggetto che per come articolate appaiono ammissibili.

Col primo mezzo dell’appello n.2808/2006, specificatamente rivolto avverso l’atto comunale del 14/3/2002 parte appellante sostiene che il Comune di P. con le sue richieste istruttorie avrebbe (illegittimamente) aggravato il relativo procedimento , ritardando strumentalmente l’esame della richiesta di autorizzazione ad aedificandum allo scopo di far intervenire il regime delle misure di salvaguardia.

Il motivo è privo di fondamento.

La normativa di cui alla legge n.493 del 4/12/1993, posta alla base della dedotta censura, assegna per l’istruttoria delle pratiche edilizie il termine di sessanta giorni dalla data di presentazione della domanda e tale circostanza di fatto e di diritto è sufficiente ad evidenziare per come si sono svolti i fatti , come nella specie non sussista alcuna violazione dei tempi procedimentali di istruzione della domanda di rilascio di concessione.

Infatti, la richiesta di edificazione è datata 28 gennaio 2002, per cui il termine di 60 giorni messo a disposizione del Comune per l’istruttoria sarebbe venuto a scadere il 29 marzo 2002 e cioè successivamente alla data di adozione del PRG coincisa con il 22 marzo del predetto anno, di guisa che la questione sollevata dall’appellante risulta appare del tutto irrilevante, avendo, in particolare, il Comune ha agito nell’ambito dello spatium temporis consentito dalla legge, non senza peraltro osservare che risulta del tutto indimostrato l’assunto relativo al comportamento strumentalmente dilatorio dell’Amministrazione e, in particolare, al carattere pretestuoso delle integrazioni documentali poste a carico della richiedente.

Le doglianze formulate col secondo e terzo motivo di gravame (che vanno unitariamente esaminate) si appuntano precipuamente sulle scelte operate col PRG , lì dove il Comune avrebbe omesso di fornire una specifica motivazione a fronte di legittime aspettative vantate da F. Lente, in ordine alla diversa classificazione dell’area di sua proprietà da zona di completamento a zona di tutela del paesaggio agrario e collinare , così come del tutto immotivata ed illogica sarebbe la scelta di includere l’area in discussione nel perimetro del centro storico di V. di Sotto.

Le dedotte censure non meritano positiva considerazione.

Per consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, le scelte effettuate dalla P.A. In sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale che, nel merito, appaiono insindacabili e che sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità delle stesse (cfr Cons. Stato Sez. IV 6/2/2002 n. 664 ; idem 27/7/2010 n. 4920).

In ragione di tale discrezionalità, l’Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio comunale , se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l’impostazione del piano (in tal senso questa Sezione 10/8/2004 n.4550).

Sempre al riguardo, giova rammentare che le scelte adottate per ciò che attiene la destinazione delle singole aree non necessitano di una specifica motivazione se non nel caso che la scelta vada ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate ravvisabili unicamente però nell’esistenza di piani e/o progetti di lottizzazione convenzionati già approvati o situazioni di diverso regime urbanistico accertate da sentenze passate in giudicato (in tal senso, ex plurimis, questa Sezione 10/2/2009 n. 2418; idem 30/3/2010), ipotesi, queste non rinvenibili nel caso di specie.

Con riferimento ai suindicati criteri ermeneutici da tempo affermati da questo Consesso parte appellante non può invocare una sorte di diritto alla immutabilità della classificazione urbanistica dell’area di sua proprietà sulla scorta di una semplice richiesta di edificazione, presentata peraltro nell’imminenza dell’adottando Piano Regolatore Comunale, che è del tutto inidonea a configurare una posizione qualificata rispetto ai nuovi intendimenti dell’Amministrazione.

Ne deriva , allora, in linea generale, che la preesistente destinazione urbanistica non impedisce l’introduzione di previsioni di segno diverso in virtù dell’esercizio di uno jus variandi pacificamente riconosciuto all’Amministrazione ed inoltre, che la posizione dell’appellante assume un contenuto di semplice aspettativa , senza che perciò, possa configurarsi a carico dell’Ente locale un onere di specifica motivazione in ordine alla disposta variazione urbanistica dell’area, ben potendo soccorrere al riguardo l’esposizione delle ragioni di carattere generale sottese alle scelte di gestione del territorio comunale (cfr Ad. Pl. n. 24 del 22/12/1999).

In ogni caso, quanto alla fattispecie all’esame nella documentazione tecnico-illustrativa che accompagna le tavole di PRG sono pienamente rinvenibili le ragioni sulla scorta delle quali il Comune di P. si è determinato a mutare la destinazione dell’area de qua , da zona di completamento residenziale a in parte zona di tutela di paesaggio agrario collinare e in altra parte in zona A- Centro Storico, venendo, in particolare, tale ultima scelta opportunamente motivata col valore storico della frazione V., in quanto riconosciuto sito facente parte dei nuclei originari del centro storico.

Col quarto motivo di appello si censura il fatto che il Comune ha dichiarato improcedibile l’istanza di concessione sul rilievo dell’avvenuta adozione del PRG, mentre si sarebbe dovuto limitare a sospendere ogni statuizione .

Il mezzo di gravame è infondato, oltreché al limite della inammissibilità.

L’Amministrazione, invero, con il provvedimento del 16/4/2002 ha correttamente trasmesso il parere negativo reso sulla istanza de qua dalla Commissione edilizia comunale, concretizzandosi così l’arresto procedimentale imposto dalla doverosa applicazione delle misure di salvaguardia intervenute a seguito dell’adozione del PRG .

Ad ogni modo il rilievo mosso dalla Società ricorrente è irrilevante vuoi perché è la stessa parte appellante a qualificare come provvedimento di diniego l’atto impugnato vuoi perché l’intera impugnativa è costruita come contestazione delle previsioni urbanistiche recate dal nuovo Piano Regolatore Generale e indicate come ostative dalla CEC.

Quanto, infine, alla richiesta risarcitoria pure espressamente formulata , la stessa si appalesa destituita di ogni giuridico fondamento , non solo e non tanto perché genericamente dedotta e sprovvista di quale che sia principio di prova in ordine al lamentato pregiudizio patrimoniale, ma perché nella specie una siffatta pretesa è del tutto inconfigurabile nei confronti dell’Amministrazione intimata , tenuto conto che gli atti adottati qui in contestazione , come sopra evidenziato, risultano esenti dai vizi di legittimità (cfr Ad. Pl. n.12/2007).

L’appello, in quanto infondato, va respinto.

Passando all’appello n.2809/06 rivolto avverso la sentenza Tar Lombardia n.173/05 che respinge il ricorso proposto avverso la delibera del Consiglio Comunale di P. recante le controdeduzioni alle osservazioni al Piano adottato nonché avverso la delibera regionale di approvazione del PRG, tale gravame deve seguire la stessa sorte del precedente appello appena esaminato.

Invero, con la seconda impugnativa vengono dedotti, in termini del tutto identici, gli stessi motivi di

illegittimità già denunciati col primo degli appelli, sicchè non possono qui non valere le osservazioni e conclusioni in precedenza enunciate.

Le spese e competenze del presente grado del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate

come in dispositivo.

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe indicati, previa riunione degli stessi, li rigetta.

Condanna la Società appellante al pagamento delle spese e competenze del presente grado del giudizio che si liquidano complessivamente in euro 3.000,00 ( tremila ) oltre IVA e CPA.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2011 con l’intervento dei magistrati: F.to Sergio De Felice  (Presidente FF), Sandro Aureli (Consigliere), Raffaele Greco (Consigliere), Raffaele Potenza (Consigliere), Andrea Migliozzi (Consigliere, Estensore) DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 16/02/2011(Art. 89, co. 3, cod. proc. Amm.)

 

2. Brevi riflessioni sulla inadeguatezza del sistema codificato dei rimedi allo “jus variandi in peius” e sulle nuove prospettive.

 

Rispetto all’inadeguatezza del sistema dei rimedi codificati occorre escogitarne di nuovi.

 

Risponde a questa esigenza la figura della presupposizione creata praeter legem dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

 

Ritornando alla questione affrontata dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento ed ipotizzando che alla società F. Lente S.r.l. (che di seguito, per brevità, indicheremo semplicemente con l’espressione Alfa) l’area gli sia pervenuta in virtù di atto di acquisto stipulato con Beta e che Alfa, perché vuole edificarvi, abbia convenuto e pagato a Beta un prezzo considerevole di acquisto del terreno in quanto edificabile; ma di lì a poco il piano regolatore cambia ed il terreno diventa inedificabile ed il contratto diventa così pesantemente dannoso per Alfa. Stando così le cose, quali sono i possibili rimedi esperibili da Alfa ?

 

Se si fosse pattuita la condizione risolutiva della sopravvenuta inedificabilità, Alfa potrebbe invocare lo scioglimento del contratto.

 

Alfa non può chiedere l’annullamento per errore, allegando che ignorava la prospettiva dell’inedificabilità, poi verificatasi: difatti l’errore di previsione, che cada su eventi futuri, non è rilevante perché si considera errore sui motivi, non essenziale.

 

Non può chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità, ad es. perché le prestazioni non erano differite, o comunque sono esaurite.

 

Alfa può invocare il principio della presupposizione ed il giudice accoglie la sua domanda di liberarsi del contratto, rilevando che è venuto meno un presupposto del contratto stesso (l’edificabilità del terreno).

 

Il presupposto può essere una situazione di fatto o di diritto.

 

Può riguardare una situazione presente o futura.

 

Deve essere obiettivo ed esterno al contratto: cioè indipendente dalla volontà e dall’attività dei contraenti e non dedotto a materia di un’obbligazione contrattuale.

 

Deve essere non contemplato dal contratto.

 

Deve essere condiviso da entrambe le parti; o, se assunto da una sola di esse, quanto meno noto all’altra.

 

Deve essere inteso dalle parti (o da una parte, nella consapevolezza dell’altra) come dotato di valore determinante per la costituzione o la permanenza del vincolo contrattuale.

 

Deve essere percepito come certo: se le parti lo percepissero come incerto, tale percezione autorizzerebbe a pensare ch’esse hanno accettato il rischio della sua inesistenza o del suo venir meno.

 

La giurisprudenza non è univoca nel fissare il rimedio applicabile quando la situazione presupposta come presente al tempo del contratto risulta invece inesistente; o quando la situazione presupposta come destinata a crearsi o permanere in futuro non si crea o viene meno successivamente.

 

Spesso si parla, indistintamente, d’invalidità o di risoluzione: può pensarsi di riferire l’invalidità ai casi di difetto originario e la risoluzione ai casi di difetto sopravvenuto.

 

Il fondamento della figura viene indicato nel principio di buona fede (oggettiva), nella buona fede precontrattuale (art.1337 c.c.: Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede) che indica come è giusto distribuire fra le parti obblighi d’informare ed oneri d’informarsi su presupposti e rischi dell’operazione; nella buona fede ermeneutica (art. 1366 c.c.: Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede) che aiuta a trovare il senso del testo contrattuale in ordine al piano di ripartizione dei rischi nonché nella buona fede esecutiva (art. 1375 c.c.: Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede) che è fonte d’integrazione del contratto, può fondare o bloccare pretese delle parti, in relazione al venir meno del presupposto.

 

I rimedi contrattuali sono tendenzialmente ablativi: contro i difetti del contratto, essi per lo più reagiscono con la cancellazione dei suoi effetti. Ciò vale in particolare per i rimedi sinallagmatici.

 

In generale, la risoluzione si presenta inidonea nei casi in cui il contratto serve a realizzare operazioni di lunga durata, tecnicamente complesse ed economicamente impegnative, che sono difficilmente reversibili.

 

Contratti del genere hanno la caratteristica d’implicare una relazione molto intensa fra le parti, ognuna delle quali organizza la propria sfera proprio in funzione di quel rapporto con l’altra: essi si definiscono relazionali (relational contracts).

 

Occorrono dunque rimedi non ablativi ed in particolare non risolutori: bensì rimedi che chiamiamo manutentivi, perché puntano a mantenere in vita il contratto; o di adeguamento, perché salvano il contratto adeguandolo alle circostanze ed esigenze sopravvenute.

 

La propensione a salvare, mediante adeguamento, contratti altrimenti votati alla cancellazione, è presente in modo diffuso nel sistema legale.

 

Basti pensare che l’errore di calcolo non dà luogo ad annullamento, ma a rettifica e che il contratto viziato da ogni genere d’errore non è annullabile se viene rettificato. Il contratto rescindibile per lesione e quello risolubile per eccessiva onerosità non si risolvono se interviene riduzione ad equità.

La sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione può determinare lo scioglimento del contratto mediante recesso del creditore; ma il contratto può anche mantenersi, riducendosi la controprestazione a suo carico. La vendita di cosa affetta da vizi può risolversi; ma in alternativa può mantenersi, previa riduzione del prezzo (art. 1492.1 c.c.: Nei casi indicati dall’articolo 1490 [Il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. Il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto, se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa] il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione.).

 

Talora l’adeguamento è un risultato voluto dalla legge come modalità di buon funzionamento del rapporto, a prescindere dalla prospettiva della sua cancellazione: il mandatario deve informare il mandante delle sopravvenienze che possono richiedere modificazioni dell’incarico (art. 1710.2 c.c.), ed il mandante è legittimato ad introdurre tali modificazioni.

 

Talora l’adeguamento scatta in modo automatico; talora è collegato ad un’iniziativa di parte.

 

La parte legittimata ad introdurlo può essere la parte a cui favore esso opera; ma in qualche caso può essere controparte.

 

Qualche volta i contenuti dell’adeguamento sono predeterminati; altre volte sono determinati dalla parte legittimata; altre volte ancora sono determinati dal giudice.

 

Ancor prima della legge, è lo stesso contratto che deve preoccuparsi del proprio futuro, dotandosi di elementi di flessibilità; il contratto può far ciò avvalendosi di schemi legali tipici.

 

In generale, risponde all’obiettivo di un rapporto flessibile la possibilità di lasciare indeterminato l’oggetto del contratto, ovvero l’adozione dello schema del contratto per relationem.

 

Con la fideiussione per debiti futuri (art. 1938 c.c. : La fideiussione può essere prestata anche per un’obbligazione condizionale o futura con la previsione, in questo ultimo caso, dell’importo massimo garantito.), si può commisurare l’impegno di garanzia ad un’entità del credito che, non nota al tempo del contratto, lo sarà solo in seguito.

 

Con le clausole di ius variandi si consente al titolare d’introdurre le modifiche del rapporto che gli paiano di tempo in tempo convenienti.

 

Nel momento stesso in cui la legge mette questi schemi a disposizione dell’autonomia privata, li circonda di limiti e cautele: la fideiussione per debiti futuri deve indicare la somma massima garantita; le clausole di determinazione unilaterale e di ius variandi sono trattate con rigore.

 

Le clausole che in presenza di determinate sopravvenienze fanno scattare meccanismi di adeguamento sono note come clausole di hardship (onerosità); esse mettono in campo tecniche adeguatrici.

 

Queste possono essere diverse a seconda del fattore cui si affida l’operazione di adeguamento.

 

Il fattore può essere un dato obiettivo della realtà (un tasso, un corso dei prezzi): qui l’adeguamento è automatico, sul modello delle clausole d’indicizzazione, ma può essere la determinazione di un terzo, cui si affida un arbitraggio eventuale ex post, di natura modificativa, può essere ancora la determinazione di una delle parti.

 

Può essere infine – e più spesso è – l’accordo delle parti, da cercare rinegoziando sui punti del rapporto investiti dalla sopravvenienza: clausole di rinegoziazione.

 

Se la rinegoziazione fallisce perché una parte rifiuta tout court di rinegoziare, questa è violazione della clausola, dunque inadempimento contrattuale.

 

Pur se la clausola non lo precisa, l’obbligo di rinegoziare va inteso come obbligo di rinegoziare secondo buona fede.

 

Può darsi che le parti non abbiano pattuito alcun rimedio di adeguamento alle sopravvenienze; interviene anche qui il principio di buona fede.

 

Esso può generare a carico delle parti, che pur non lo abbiano previsto, un obbligo di rinegoziare.

 

Il meccanismo che lo inserisce ex lege nel regolamento contrattuale è l’integrazione.

 

Posto che chi rifiuta di rinegoziare, o rinegozia contro buona fede, è inadempiente, qual è il rimedio contro il suo inadempimento?

 

Vien di fatto rispondere: risoluzione e risarcimento, ma così si regredisce al risultato che la clausola voleva evitare (la distruzione del contratto).

 

Qualcuno pensa all’art. 2932 c.c.: l’obbligo di rinegoziare è obbligo di contrarre le modifiche del contratto-base, suggerite da ragionevolezza e buona fede; la parte che per inadempimento dell’altra non ottiene questo contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sentenza.

 

- marzo 2011 -

 

*Segretario Generale di Fascia A ed avvocato specialista in diritto amministrativo e scienza della P.A.