Il decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69 e s.m.i. cosiddetto Salva Casa
(Primo scritto di approfondimento)
di Massimo GRISANTI

Leggo sui media una narrazione delle disposizioni del decreto-legge n. 69/2024, convertito con modificazioni nella legge 24 luglio 2024, n. 105, che ritengo fuorviante, perciò potenzialmente pericolosa per i cittadini, per i motivi che vengo ad esporre. Ma non prima di ricordare, a me stesso, che le leggi iniziano una vita propria all’indomani della loro promulgazione, cosicché i lavori preparatori hanno una rilevanza nella loro interpretazione solo in caso di ambigua formulazione delle relative disposizioni.
Con una serie di scritti estivi intendo partecipare le risultanze dei miei approfondimenti delle disposizioni del Salva-casa. Questo primo è dedicato alle modificazioni apportate all’art. 2-bis t.u.e.
    1. Sulle modificazioni all’art. 2-bis (Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati) del Testo unico dell’edilizia.
        1.1. Il legislatore avrebbe inteso agevolare il recupero a fini abitativi dei sottotetti con le disposizioni del comma 1-quater, le quali, tuttavia, mi appaiono di favore solo in apparenza.
        1.2. In primis, il sintagma «sono comunque consentiti» determina sia l’assoggettamento dell’intervento al permesso di costruire, sia l’impossibilità della sua sanatoria.
Sarebbe stato conseguito un effetto diverso se al posto del verbo consentire, che implica l’adozione di un preventivo provvedimento di assenso, fosse stato utilizzato il verbo ammettere. Infatti, l’ipotetico sintagma «sono comunque ammessi» avrebbe abilitato tanto la realizzazione dell’intervento anche con segnalazione certificata d’inizio attività, tanto la sua sanatoria.
        1.3. In secundis, le «condizioni» del rispetto dei limiti di distanza vigenti all’epoca della realizzazione dell’edificio, del divieto di apportare modifiche nella forma e nella superficie all’area del sottotetto e del rispetto dell’altezza massima dell’edificio assentita dal titolo che ne ha previsto la costruzione, sono bidirezionali norme di azione perché rivolte tanto ai funzionari quanto ai responsabili dell’attività edilizia.
Sin dall’inizio dell’iniziativa edilizia, le condizioni per il rilascio del titolo edilizio imprimono al manufatto una natura precaria. Infatti, così come sono ammissibili se apposte alla licenza edilizia (v. TAR Toscana, sez. III, sentenza n. 1543/2011), a maggior ragione lo sono se contemplate da speciali disposizioni di legge.
È noto che per il caso in cui detta condizione non sia soddisfatta l’opera non potrà dirsi assentita perché solo in apparenza il conseguito permesso di costruire avrebbe abilitato i lavori. In tal caso è stata instaurata una situazione di precarietà a cagione di requisiti insussistenti. Si consideri, a tal proposito, che una costruzione abusiva in tutto o in parte ha un diritto dominicale precario quanto al suo contenuto di ricchezza acquisita: situazione che verrebbe evidentemente meno per effetto della regolarizzazione urbanistica del manufatto, la quale, però, non potrebbe essere conseguita se assenti ab origine le condizioni.
Invero, non bisogna dimenticare che queste disposizioni in materia di recupero dei sottotetti hanno un carattere marcatamente derogatorio, perciò speciale, rispetto alla disciplina edilizia ordinaria: basti la circostanza che consentono l’esecuzione dei lavori secondo le norme in materia di distanze vigenti non all’attualità bensì all’epoca di costruzione dello stabile. Per non dire che, per pacifica giurisprudenza di legittimità civile, tutto quanto eccede dalla sagoma è una sopraelevazione: perciò una nuova costruzione ai fini del rispetto delle distanze.
Concludendo sul punto, l’inesistenza ab origine delle condizioni, o la loro inosservanza in corso d’opera, ritengo determini, da un lato, l’impossibilità di ricorrere alle disposizioni dell’art. 21 novies L. 241/1990 e, dall’altro lato, la trasmutazione di tutto quanto eseguito in manufatto sine titulo con conseguente obbligo dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione e rimessa in pristino ex art. 31 t.u.e.
L’inesistenza determina una sorta di perdita dei benefici conseguiti – “… istituto che, pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell’autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato …”, così Cons. Stato, adunanza plenaria, n. 18/2020 – con peculiari connotazioni che la accomunano alla decadenza ex art. 75 d.P.R. 445/2000 a cui non sono applicabili le disposizioni e le acquisizioni dell’art. 21-novies L. 241/1990 in ragione del carattere vincolato del potere una volta accertato il ricorrere dei presupposti.
        1.4. Qualora le distanze dagli edifici e dai confini delle pareti perimetrali che delimitano l’area del sottotetto, oppure l’altezza massima assentita dell’edificio, fossero già non rispettose della disciplina vigente all’epoca di costruzione, l’intervento non è consentibile perché lo «stato legittimo» ex art. 9-bis t.u.e. è solo una presunzione, come tale vincibile da prova contraria.
Infatti, con la sentenza n. 217/2022 la Corte costituzionale ha evidenziato che le disposizioni in tema di «stato legittimo» definiscono un paradigma le cui funzioni sono quelle di semplificare l’azione amministrativa nel settore edilizio, di agevolare i controlli pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti su beni immobili. Ma con molte altre sentenze, a partire dalla n. 529/1995, ha statuito e ribadito che la regolarizzazione degli immobili può essere conseguita solo per effetto di espresse disposizioni di legge statale.
Siccome nell’attuale testo dell’art. 9-bis t.u.e. non è dato rinvenire volontà sananti, ecco che all’attestazione di «stato legittimo» non è consentito attribuire un tale effetto. Se ad una successiva verifica delle condizioni ex lege di recupero dei sottotetti dovesse emergere che queste non ricorrevano l’opera eseguita viene a versare nello stato di abusività e la pubblica amministrazione, se chiamata a rispondere del proprio operato innanzi al giudice ordinario, rischia ex art. 1227, primo comma, del Codice civile di dover risarcire il danno arrecato in misura pari alla metà (v. Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 9879/2023) perché con una prestazione non professionale lo ha concausato.
Appare opportuno ricordare l’interpretazione della nozione di «stato legittimo» ex art. 9-bis t.u.e. datane dalla Suprema Corte, sez. 3 penale, nella sentenza n. 35848/2023 (Pres. Ramacci, Est. Reynaud, Imp. Busillo-Lepre) con la quale ha confermato la condanna per concorso in abuso edilizio a carico dei tecnici comunali – i quali si difendevano appellandosi alla presunzione di legittimità dei titoli abilitativi edilizi – per aver consentito l’esecuzione di ulteriori interventi in un box auto eretto in forza di permesso di costruire illegittimamente rilasciato ai sensi dell’art. 9 della L. 122/1989: per la Cassazione non è legittimo ciò è costruito in violazione della sostanziale disciplina urbanistico-edilizia seppur nel rispetto del titolo abilitativo edilizio illegittimamente rilasciato (v.  https://lexambiente.it/index.php/materie/urbanistica/dottrina184/urbanistica-in-tema-di-stato-legittimo-degli-immobili-e-relative-conseguenze).
        1.5. Si consideri, infine, ma non per ultimo, che la verifica del rispetto delle condizioni viene compiuta ex art. 6 L. 241/1990 dal responsabile del procedimento, il quale ha il dovere di mettere per iscritto le risultanze dell’istruttoria e di redigere la proposta di provvedimento al dirigente qualora non gli siano stati assegnati poteri decisionali.
Nel caso in cui la verifica sia non favorevole, pur in presenza di un sottotetto conforme alla licenza edilizia di costruzione, il dirigente ha il dovere di adottare un provvedimento di accertamento negativo col quale consacra l’illegittimità della licenza e del sottotetto perché non rispettosi della disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento del rilascio e della costruzione. E ciò ancorché, poi, non ingiunga la demolizione oppure non proceda all’annullamento della licenza.
Il provvedimento in parola, rilevante tanto quanto i titoli abilitativi verificati, deve essere conservato alla pari e unitamente a questi, perché trattasi di documento essenziale per l’attestazione di «stato legittimo», sia che essa sia effettuata dalla pubblica amministrazione oppure dal libero professionista, essendo destinata, sempre più per il futuro, ad essere allegata ai contratti di compravendita degli immobili quale documento su cui si fonda la garanzia per evizione resa dal venditore a favore dell’acquirente. 
Pertanto, il dovere di adottare l’atto di accertamento in parola consegue dall’applicazione non solo dei principi fondamentali della disciplina edilizia – vedi in ultimo le modificazioni apportate all’art. 9-bis t.u.e. – ma, essenzialmente, dei principi generali dell’azione amministrativa, positivizzati dal legislatore nel comma 2-bis dell’art. 1 della L. 241/1990, visto che il proprietario dell’immobile o a chi si appresta a divenire tale essendo titolare di contratto preliminare di acquisto – ai quali è stata garantita l’assenza di irregolarità determinante l’esistenza di oneri che impediscano di godere del bene in modo pieno (cfr. Suprema Corte di cassazione, sez. II civile, sentenza n. 10947/2012), ossia compresa la facoltà di mutarlo radicalmente, ovviamente nel rispetto della disciplina edilizia – devono poter sapere che un’unità immobiliare priva del requisito dello «stato legittimo» non può essere oggetto di interventi eccedenti quelli conservativi di quanto esistente.
Porre in essere comportamenti commissivi o omissivi che, con dolo o colpa, non fanno emergere gli oneri gravanti sul bene può esporre l’Ente a richiesta di risarcimento danni, ma in particolare il dirigente visto che l’ordinamento consente al cittadino, che ha confidato nell’operato professionale del funzionario, di citarlo direttamente in giudizio innanzi al giudice ordinario senza al contempo chiamare in causa la pubblica amministrazione (v. in ultimo Suprema Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 20115/2024 pubblicata il 22 luglio 2024).