Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4208, del 6 agosto 2014
Urbanistica.Identificazione catastale

L'identificazione catastale è richiesta al fine di consentire la trascrizione che non ha alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla limitata funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in caso di conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

 

 

N. 04208/2014REG.PROV.COLL.

N. 06768/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6768 del 2013, proposto da: 
Luigi Santorelli, rappresentato e difeso dall'avv. Marcello Fortunato, con domicilio eletto presso Guido Lenza in Roma, via XX Settembre, 98/E;

contro

Comune di Salerno, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv.ti Aniello Di Mauro, Luigi Mea, con domicilio eletto presso Paolo Ricciardi in Roma, viale Tiziano 80; Condominio via Mazza N.20 Salerno;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. della CAMPANIA – Sezione Staccata di SALERNO- SEZIONE I n. 02406/2012, resa tra le parti, concernente diniego del permesso di costruire



Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Salerno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 aprile 2014 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Guido Orlando (su delega di Luigi Mea) e Vincenzo Sparano (su delega di Marcello Fortunato);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.



FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale della Campania – sede di Salerno - ha respinto il ricorso di primo grado proposto dalla odierna parte appellante Signor Luigi Santorelli, volto ad ottenere l’annullamento del provvedimento n.1/2012, prot. n.16442/2012, con il quale il Comune di Salerno ha respinto l'istanza da questi presentata e tesa ad ottenere il permesso di costruire.

Questi, nella dedotta qualità di proprietario di due unità immobiliari dirute site alla via Mazza, n. 20 del Comune di Salerno ed ubicate al quarto e quinto piano del relativo fabbricato, era insorto prospettando tre articolate censure infraprocedimentali e formali, ed altrettante doglianze di merito.

Il primo giudice ha partitamente esaminato tutte le censure e le ha respinte in quanto infondate.

In particolare (quanto alle doglianze infraprocedimentali e formali) il Tribunale amministrativo ha escluso la fondatezza della tesi secondo cui era stata perpetrata una violazione del contraddittorio procedimentale, in quanto il provvedimento impugnato, nel dare formale atto della presentazione delle controdeduzioni formulate in esito dalla partecipazione dell’avviso di rigetto, le aveva respinte nel merito con l’argomentazione (di per sé non implausibile né di mero stile) per cui la prova della originaria consistenza planovolumetrica, (concretante assorbente motivo ostativo all’accoglimento della istanza articolata), era rimasta indimostrata e difettavano nuovi ed ulteriori elementi che potevano rimuovere i motivi ostativi a suo tempo formulati e prospettati.

Né tale violazione poteva conseguire al mancato riscontro alla richiesta di convocazione di apposita conferenza di servizi, essendo quest’ultima riservata ai soli casi in cui si renda necessaria l’acquisizione di assensi, comunque denominati, di amministrazioni diverse rispetto all’unica coinvolta nel procedimento per cui era causa.

Per altro verso, neppure portata dirimente assumeva la contestazione relativa alla ventilata (e non concretatasi) necessità di preliminare acquisizione del parere ex art. 90 d.p.r. n. 380/2001, in quanto essa era stata soltanto evocata nei consideranda posti a supporto motivazionale del provvedimento di diniego ma in termini eventuali ed ipotetici, non concretando l’effettiva e decisiva motivazione dell’avversato diniego.

Quanto alle censure di merito, parimenti il primo giudice ne ha escluso la fondatezza.

Il disposto dell’art. 77 del vigente regolamento edilizio era stato rispettato sia formalmente che sostanzialmente in quanto la documentazione di parte esibita in sede procedimentale correttamente era stata ritenuta dall’amministrazione (ed il detto convincimento è stato condiviso dal Tar) inidonea a comprovare in modo adeguato e non controvertibile lo status quo ante.

Ai fini della prova della esistenza e consistenza dei pregressi immobili, infatti, non era sufficiente –ad avviso del Tar- né il ripetuto e valorizzato riferimento alle sole risultanze catastali, né l’allegazione di un parere a contenuto sostanzialmente favorevole asseritamente predisposto a suo tempo dalla Soprintendenza (definito dal Tar palesemente inesistente, in quanto privo di ogni estremo anche protocollare e di sottoscrizione).

Neppure poteva utilmente invocarsi l’art. 7 comma 8 bis della legge R.C. n. 19/09: in disparte la circostanza che l’istanza non era stata avanzata facendo riferimento a tale ultima disposizione di legge, i motivi ostativi riscontrati dall’Amministrazione avrebbero spiegato effetto preclusivo anche con riferimento a tale disposizione.

Conseguentemente, l’intero ricorso di primo grado è stato disatteso.

La odierna parte appellante, già ricorrente rimasta soccombente nel giudizio di prime cure, ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha ripercorso il prolungato contenzioso intercorso con il comune appellato ed ha sostenuto che il diniego, nel merito, era del tutto illegittimo ed immotivato in quanto egli aveva prodotto tutta la documentazione in proprio possesso relativa ai due immobili diruti posseduti (titolo di proprietà; certificato della Conservatoria dei Registri Immobiliari; certificazioni catastali; certificazioni del Comune di Salerno; nota allegata al parere 10684/2007 della Soprintendenza).

Nelle schede di accertamento generale della proprietà urbana del 31.12.1939, poi risultavano indicati foglio, particella, piano e vani dell’immobile.

Quanto alle violazioni infraprocedimentali, sussisteva quella di cui all’art. 10 bis della legge n. 241/1990, in quanto nessuna effettiva contestazione era stata resa (se non una sibillina e tautologica affermazione) alle delucidazioni fornite dall’appellante; parimenti era rimasta inevasa la richiesta di procedere alla convocazione della Conferenza di Servizi e del pari sarebbe stato essenziale il parere ex art. 90 del dPR n. 380/2001.

Erroneamente era stato obliato il contenuto della nota della Soprintendenza versata in atti.

In conclusione: degli immobili diruti era provata esistenza, consistenza, ed ubicazione; essi erano anche stati ristrutturati in periodo antecedente a 50 anni orsono (ristrutturazione post-sismica giusta autorizzazioni nn. 297/1992 e 297/1997) per cui non avrebbe potuto operare la disposizione preclusiva ex art. 3, comma 1 lett. b della legge R.C. n. 19/09 (c.d. piano casa).

L’appellata amministrazione ha depositato una articolata memoria chiedendo la reiezione dell’appello previa declaratoria di inammissibilità ex art. 104 del cpa della produzione documentale (comunque non dirimente)riposante nelle schede di accertamento generale della proprietà urbana del 31.12.1939.

Alla camera di consiglio dell’8 ottobre 2013 la domanda cautelare è stata respinta con l’ordinanza n. 03993/2013 alla stregua della considerazione per cui “Rilevato con considerazione assorbente che, quanto al profilo del periculum in mora, lo stesso appare del tutto inesistente sol che si consideri che la istanza è ripropositiva di altra pregressa domanda, parimenti respinta circa dieci anni orsono;

rilevato peraltro, sotto il profilo del fumus, che l’appello non appare fornito di decisivo fumus, avuto riguardo al costante orientamento giurisprudenziale secondo cui (ex multis, Cass. civ. Sez. II, 11-08-2005, n. 16853 )”l'identificazione catastale è richiesta al fine di consentire la trascrizione che non ha alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla limitata funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in caso di conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile”.

Tutte le parti processuali hanno depositato ulteriori memorie puntualizzando le rispettive difese. In particolare l’appellante ha chiesto ammettersi quale prova le schede di accertamento della proprietà urbana del 31.12.1939 ed un verbale di assemblea condominiale ed ha sostenuto la decisività delle dette prove al fine di dimostrare preesistenza e consistenza dell’immobile per cui è causa.

Alla odierna pubblica udienza del 29 aprile 2014 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.Ritiene il Collegio che la sentenza di primo grado debba essere confermata e che l’appello debba essere dichiarato infondato e pertanto debba essere respinto.

1.1.Al fine di perimetrare il materiale cognitivo disponibile ed utilizzabile per la decisione ritiene il Collegio di precisare immediatamente la non scrutinabilità degli argomenti probatori incentrati sulla documentazione prodotta da parte appellante nel corso del giudizio di appello (schede di accertamento della proprietà urbana del 31.12.1939 e verbale di assemblea condominiale).

Invero, come puntualmente eccepito dalla difesa dell’amministrazione comunale, trattasi di “materiale probatorio” in parte assai risalente nel tempo, ed in parte formatosi successivamente rispetto alla instaurazione del giudizio.

Il divieto dei “nova” in appello, consacrato ex art. 104 del cpa (e “doppiato” dalla risalente ed ancora vigente disposizione generale di cui all’art. 345 cpc) costituisce disposizione precettiva posta a tutela del regolare andamento del contraddittorio e del rispetto del doppio grado di giudizio (principio di tendenziale applicazione nel processo amministrativo, seppur sprovvisto di “copertura” costituzionale).

Non si vuole, quindi, da parte del Legislatore che –se non in casi estremi e straordinarii- il grado di appello si trasformi in un novum iudicium” fondato su materiale cognitivo non esaminato dal Tar.

Il detto precetto processuale generale (in passato non si dubitava dell’applicabilità dell’art. 345 cpc,al rito processuale amministrativo) assume una valenza ancora più pregnante nel processo amministrativo: il provvedimento gravato, infatti, va tendenzialmente scrutinato alla luce delle emergenze probatorie utilizzate anche dall’amministrazione in sede procedimentale senza che –almeno di regola- l’illegittimità dello stesso possa essere affermata sulla scorta di documentazione di cui l’amministrazione non era in possesso, e/o comunque da questa non valutata.

Né l’art. 104 cpa, ed i principi dallo stesso presidiati possono essere dequotati al fine di supplire ad una pregressa inerzia di parte.

Quanto alla portata applicativa della disposizione succitata, è noto che recente e condivisibile giurisprudenza ha attratto nel novero del divieto di “nuove prove” nel giudizio di appello anche quelle precostituite.

Si è detto in proposito, infatti, che “nel processo amministrativo opera il divieto dello ius novorum sancito dall'art. 345 c.p.c. nella sua interezza, compreso il divieto di nuove produzioni documentali. Il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello riguarda anche le prove cc.dd. precostituite, quali i documenti, la cui produzione è subordinata, al pari delle prove cc.dd. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado, ovvero alla valutazione della loro indispensabilità .“ (Cons. Stato Sez. V, 05-07-2012, n. 3935); “anche nel processo amministrativo vige il principio del divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, sancito dall'art. 345 c.p.c., che riguarda anche le prove cd. precostituite, quali i documenti, la cui produzione è subordinata, alla pari delle prove cd. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado, ovvero alla valutazione della loro indispensabilità (divieto confermato anche dall'art. 104, comma 2, d.lgs. n. 104/2010).”(Cons. Stato Sez. V, 05-09-2011, n. 4977)

Ciò implica il superamento del pregresso orientamento secondo il quale “il divieto di ius novorum in appello riguarda, infatti, solo le prove costituende e non quelle già costituite, come i documenti. Infatti non contrasta con il principio di inammissibilità di nuovi mezzi di prova, contenuto nell'art. 345 c.p.c., la produzione in appello della documentazione concernente la legittimazione attiva alla proposizione del ricorso di primo grado, e quindi indispensabile ai fini della definizione della causa, acquisibile peraltro anche mediante l'attivazione dei poteri istruttori del giudice amministrativo.”(Cons. Stato Sez. V, 23-05-2003, n. 2782).

Deve essere pertanto escluso che in appello possa “sanarsi” mercè produzione documentale od allegazione la carenza probatoria riscontrata in primo grado.

Traslando i detti principi alla fattispecie, ne discende che l’appellante non può essere seguito allorchè chiede sia valutata documentazione in parte assai risalente (e di cui avrebbe potuto assicurarsi la disponibilità attraverso una pregressa diligente ricerca) ed in parte successiva al contenzioso instaurato.

Non v’è prova né indizio della assoluta impossibilità di acquisire le schede in epoca antecedente (prima parte del citato art. 104 del cpa) né esse appaiono indispensabili, non dando conto, a tacer d’altro, degli eventi successivi al 1939; quanto al verbale assembleare condominiale, vale la considerazione che le valutazioni ivi contenute non rivestono valore probatorio decisivo.

Sotto alcuno dei profili scolpiti nella seconda parte del comma II del citato art. 104 del cpa è possibile dare ingresso nel presente giudizio alla detta documentazione.

2. Ciò premesso, come prima anticipato il Collegio condivide pienamente la ricostruzione ermeneutica resa dal Tribunale amministrativo regionale.

2.1. Il Collegio ritiene di dovere premettere, rispetto al partito esame delle censure dedotte, il proprio convincimento circa la piena condivisibilità ed attualità del principio (ex multis, Cass. civ. Sez. II, 11-08-2005, n. 16853 ) secondo il quale l'identificazione catastale è richiesta al fine di consentire la trascrizione che non ha alcuna efficacia sostanziale, adempiendo alla limitata funzione di rendere l'atto opponibile ai terzi in caso di conflitto tra più acquirenti del medesimo immobile.

Il principio, nel caso di specie, può essere nella sostanza accostato a quello, - pure a più riprese predicato dalla giurisprudenza amministrativa- secondo il quale ( Cons. Stato Sez. IV, 14-02-2012, n. 703) “nel giudizio di impugnazione dell'ordinanza repressiva di un abuso edilizio è onere del privato fornire la prova dello "status quo ante", in quanto la p.a. non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio. Chi realizza interventi, ritenuti abusivi, su immobili esistenti, è tenuto a dimostrare rigorosamente, se intende evitare le misure repressive di legge, lo stato della preesistenza , proprio in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c. In tali casi, il privato dispone, ed è normalmente in grado di esibire, la documentazione idonea al fine di fornire utili elementi di valutazione quali fotografie con data certa dell' immobile, estratti delle planimetri catastali, il progetto originario e i suoi allegati, ecc.”.

2.2. All’uopo ritiene il Collegio doveroso innanzitutto sottolineare che, sia che la vicenda processuale venga esaminata alla stregua delle disposizioni di cui alla L.R. 28-12-2009 n. 19

art. 7 comma 8 bis (“1. La risoluzione delle problematiche abitative e della riqualificazione del patrimonio edilizio e urbanistico esistente, in linea con le finalità e gli indirizzi della legge regionale n. 13/2008, può essere attuata attraverso la promozione dello sviluppo sostenibile della città e con strategie per la valorizzazione del tessuto urbano, la riduzione del disagio abitativo, il miglioramento delle economie locali e l’integrazione sociale.

2. Al riguardo le amministrazioni comunali devono concludere il procedimento, anche su proposta dei proprietari singoli o riuniti in consorzio, con provvedimento da adottare, nel rispetto dei termini previsti dalla legge n. 241/1990, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, relativo agli ambiti la cui trasformazione urbanistica ed edilizia è subordinata alla cessione da parte dei proprietari, singoli o riuniti in consorzio, e in rapporto al valore della trasformazione, di aree o immobili da destinare a edilizia residenziale sociale, in aggiunta alla dotazione minima inderogabile di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi di cui al decreto ministeriale n. 1444/1968. Nella identificazione dei suddetti ambiti devono essere privilegiate le aree in cui si sono verificate occupazioni abusive.

3. Al fine di favorire la sostituzione e l’adeguamento integrale edilizio ai criteri costruttivi di sostenibilità nelle aree urbane da riqualificare di cui al comma 2, anche in variante e in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, è consentito l’aumento entro il limite del cinquanta per cento della volumetria esistente per interventi sugli edifici residenziali pubblici secondo le tipologie indicate dall’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, vincolando la regione all’inserimento, nella programmazione di fondi per l’edilizia economica e popolare, indicando allo scopo opportuni stanziamenti nella legge di bilancio, previa individuazione del fabbisogno abitativo delle categorie e delle fasce di reddito dei nuclei familiari in emergenza .

4. Se non siano disponibili aree destinate a edilizia residenziale sociale, le amministrazioni comunali, anche in variante agli strumenti urbanistici vigenti, possono individuare aree da utilizzare per edilizia residenziale sociale, da destinare prevalentemente a giovani coppie e nuclei familiari con disagio abitativo. Nelle aree individuate dalle amministrazioni comunali per gli interventi di cui al presente comma possono rientrare anche quelle ricadenti nella zona G del PUC o del PRG vigente, ferme restando le limitazioni e i vincoli derivanti da norme vigenti .

5. Per immobili dismessi, in deroga agli strumenti urbanistici generali e ai parametri edilizi, con particolare riferimento alle altezze fissate dagli stessi strumenti purchè nel rispetto degli standard urbanistici di cui al D.M. n. 1444/1968 e nel rispetto delle procedure vigenti, sono consentiti interventi di sostituzione edilizia a parità di volumetria esistente, anche con cambiamento di destinazione d’uso, che prevedono la realizzazione di una quota non inferiore al trenta per cento per le destinazioni di edilizia sociale di cui all’articolo 1, comma 3, del D.M. 22 aprile 2008 (definizione di alloggio sociale ai fini dell’esenzione dell’obbligo di notifica degli aiuti di stato, ai sensi degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità Europea). La volumetria derivante dalla sostituzione edilizia può avere le seguenti destinazioni: edilizia abitativa, uffici in misura non superiore al dieci per cento, esercizi di vicinato, botteghe artigiane. Se l’intervento di sostituzione edilizia riguarda immobili già adibiti ad attività manifatturiere industriali, di allevamento intensivo, artigianali e di grande distribuzione commerciale, le attività di produzione o di distribuzione già svolte nell’immobile assoggettato a sostituzione edilizia devono essere cessate e quindi non produrre reddito da almeno tre anni antecedenti alla data di entrata in vigore della presente legge.

5-bis. Per le industrie inquinanti o per quelle non compatibili con le attività residenziali limitrofe, la sostituzione edilizia è consentita a condizione della preventiva delocalizzazione dell’azienda in ambito regionale, garantendo, con un apposito piano di delocalizzazione, l’incremento del dieci per cento nei successivi cinque anni degli attuali livelli occupazionali. Il piano di delocalizzazione si realizza attraverso il piano urbanistico attuativo di cui alla legge regionale 22 dicembre 2004, n. 16 .

6. Nelle aree urbanizzate con le esclusioni di cui all’articolo 3, per edifici non superiori a diecimila metri cubi destinati prevalentemente ad uffici e residenze o alloggi di servizio che non abbiano goduto dei benefici contributivi, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, è consentito il mutamento di destinazione d’uso a fini abitativi con una previsione a edilizia convenzionata in misura non inferiore al venti per cento del volume dell’edificio, nel rispetto delle caratteristiche tecnico-prestazionali di cui al comma 4 dell’articolo 4 o del comma 5 dell’articolo 5.

6-bis. Le disposizioni di cui al comma 6 si applicano anche alle residenze turistico-alberghiere, a condizione che la quota destinata ad edilizia residenziale sociale sia superiore al trentacinque per cento del volume esistente e nel rispetto di quanto stabilito dall’articolo 5 della legge regionale 28 novembre 2000, n. 16 (Sottoposizione a vincolo di destinazione delle strutture ricettive-turistiche).

7. I comuni provvisti di strumenti urbanistici generali vigenti possono individuare, con provvedimento dell’amministrazione comunale motivato da esigenze di carattere urbanistico ed edilizio, le aree nelle quali non sono consentiti gli interventi di cui al comma 5. Sono fatti salvi gli interventi per i quali è stata presentata istanza precedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge.

8. Per le finalità di cui al presente articolo, la Giunta regionale, sentita la Commissione consiliare competente che si esprime nel termine di trenta giorni decorso il quale il parere si intende reso, approva le linee-guida con particolare riguardo ai criteri di sostenibilità edilizia ed urbana e all’uso dei materiali per l’edilizia sostenibile e può, in ragione degli obiettivi di riduzione del disagio abitativo raggiunti, determinare le modalità delle trasformazioni possibili anche promuovendo specifici protocolli d’intesa con le amministrazioni comunali ed avvisi pubblici.

8-bis. È consentito il recupero edilizio soltanto agli aventi titolo alla data di entrata in vigore della presente legge, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, mediante intervento di ricostruzione in sito, di edifici diruti e ruderi, purchè ne sia comprovata la preesistenza alla stessa data di entrata in vigore delle presente legge nonché la consistenza e l’autonomia funzionale, con obbligo di destinazione del manufatto ad edilizia residenziale e secondo le disposizioni di cui all’articolo 5 della presente legge.”) disposizione questa che, sebbene non invocata da parte appellante nella propria istanza, costituisce precetto ben rilevante e da esaminare nel contenuto, sia laddove la controversia venga scrutinata facendo riferimento agli ordinari principi processuali, la posizione di parte appellante non è suscettibile di favorevole delibazione.

2.1.1. Invero, sotto il profilo sostanziale, la disposizione in oggetto non si discosta da quella di cui all’art. 77 del vigente regolamento edilizio invocato dall’appellante.

Entrambi detti referenti normativi integrano norme di favore, in base alle quali è possibile la “ricostruzione” di ciò che, in passato sussistente, è andato ormai perduto; ed entrambe le disposizioni postulano il positivo riscontro di due emergenze fattuali: piena prova della pregressa esistenza; piena prova in ordine alla effettiva consistenza.

2.1.2. Sulla circostanza che il detto onere probatorio incomba sul privato dubbio non può residuare.

2.2. Quanto alla natura e consistenza di tale piena prova, il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dai condivisibili approdi raggiunti dalla giurisprudenza amministrativa in materia.

2.2.1. La premessa dalla quale è necessario trarre le mosse (e che in parte è stata anticipata nell’incipit della presente motivazione) riposa nella considerazione che, certamente le resultanze catastali, ex se considerate non possono rivestire una simile valenza.

La giurisprudenza civile di ciò è ben consapevole, ed in numerose pronunce, sia di merito (App. Roma Sez. I Sent., 23-11-2009 : “non può pronunciarsi una sentenza sostitutiva dell’obbligo di concludere il contratto definitivo di compravendita di immobile ex art. 2932 c.c. qualora sia giudizialmente accertata la differenza tra le risultanze catastali e l’effettiva consistenza dei beni immobili al momento del trasferimento, in mancanza di concessione edilizia o di successiva regolarizzazione di esse, e qualora il promettente venditore non abbia provveduto alla regolarizzazione con dichiarazione sostitutiva di notorietà.”) che di legittimità (ex aliis “Cass. civ. Sez. II, 19-11-2004, n. 21885 “nei contratti in materia di compravendita immobiliare ai fini dell'individuazione dell'immobile oggetto del trasferimento della proprietà l'indicazione dei confini - che concerne punti oggettivi di riferimento esterni consentendo perciò la massima precisione - assume valore decisivo e prevalente rispetto alle altre risultanze probatorie e, in particolare, ai dati catastali , allorché si risolva nella descrizione dell'intero perimetro e, a maggior ragione, quando trovi conferma in altri dati obiettivi incontrovertibilmente conducenti al fine, come la specificazione della superficie e la dettagliata descrizione della composizione e della collocazione dell'unità immobiliare nell'ambito di un più vasto complesso così eliminando ogni margine di dubbio circa la materiale consistenza dell'unità stessa. A tali fini, pertanto, il ricorso ai dati catastali - che non solo hanno natura tecnica e sono preordinati essenzialmente all'assolvimento di funzioni tributarie ma anche spesso sfuggono alla diretta percezione da parte dei contraenti - ha solo carattere sussidiario, essendo ammesso unicamente nell'ipotesi di indicazioni inadeguate o imprecise in ordine ai confini”) ha rimarcato la impossibilità di far discendere la prova della pregressa consistenza dell’immobile dalle dette risultanze catastali.

La giurisprudenza amministrativa, dal canto proprio (ex aliis si veda la completa ricostruzione contenuta nella sentenza di questa Sezione del Consiglio di Stato 18-10-2010, n. 7540) interrogandosi sui concetti di “ripristino” e “ristrutturazione”, ha avuto modo di enunciare taluni importanti principi.

In particolare, nella condivisibile decisione prima indicata si è avuto modo di chiarire che “con il termine "ripristino" s'intende, in campo edilizio, l'operazione volta ad ottenere la ricostruzione di una cosa persa, non più esistente, di cui lo strumento di pianificazione, come nel caso di specie pure ne ha ritenuto corretta la riproposizione.

In altri termini, quanto al suo contenuto, il ripristino deve tendere a ricostituire lo status edilizio quo ante, per cui il risultato finale di un siffatto intervento su un immobile non più presente perché demolito o comunque venuto meno per ragioni svariate è appunto la ricostruzione dell'edificio dov'era e com'era (nelle forme e consistenza originariamente possedute dall'edificio).

Si è detto in particolare che anche laddove la disciplina urbanistica comunale ritenga compatibile con la categoria del restauro e quella del risanamento l'intervento di ripristino, è necessario però che le parti originarie da ricostruirsi siano documentate in modo "incontrovertibile", nel senso che attraverso elementi oggettivi - caratterizzati dalla assoluta certezza - deve essere comprovata la preesistenza di quanto si vuole riedificare.

Se così è, è fuori discussione l'ammissibilità in linea generale di un intervento di riedificazione di ciò che in passato è stato (dal punto di vista edilizio) a mezzo, appunto, della modalità del ripristino diventa dirimente l'accertamento dell'esistenza incontrovertibile del precedente manufatto e della sua effettiva consistenza.

Analoghi principi, peraltro, sono predicabili peraltro allorchè ci si voglia rifare alla categoria edilizia della ristrutturazione, la cui nozione (pur comprendendo la demolizione e la fedele e integrale ricostruzione: cfr Cons Stato, Sez. IV, 28 luglio 2005, n. 4011; Sez. V, 30 agosto 2006, n. 5061) impone di assicurare la piena conformità di volume, sagoma, e superficie tra vecchio e nuovo fabbricato (in tal senso Cons Stato Sez. V 7 settembre 2004 n.5791).

In sintesi ed in via generale: per ri-edificare si deve provare che “pregresso” v’era, ed esatta consistenza del pregresso: in carenza di tale prova non v’è spazio per il rilascio di provvedimenti ampliativi.

2.3. La lacuna probatoria esattamente colta dal Comune in sede di reiezione della istanza , quindi, faceva sì che la emissione del diniego si appalesasse doverosa stante il tenore dell’art. 3 della L.R. 28-12-2009 n. 19 (recante “casi di esclusione”) che di seguito si riporta nella parte di interesse: “Gli interventi edilizi di cui agli articoli 4, 5, 6-bis e 7 non possono essere realizzati su edifici che al momento delle presentazione della Denuncia di inizio di attività di edilizia (DIA) o della richiesta del permesso a costruire risultano

a) realizzati in assenza o in difformità al titolo abilitativo per i quali non sia stata rilasciata concessione in sanatoria;

b) collocati all’interno di zone territoriali omogenee di cui alla lettera A) dell’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, [n. 1444] o ad esse assimilabili così come individuate dagli strumenti urbanistici comunali, ad eccezione degli edifici realizzati o ristrutturati negli ultimi cinquanta anni qualora non rientrino in altri casi di esclusione ai sensi del presente articolo”.

E, per incidens, la documentazione probatoria non ammessa dal Collegio nulla di decisivo avrebbe provato, riferendosi ad un epoca ben più risalente rispetto al cinquantennio dalla entrata in vigore della detta legge regionale.

3.Quanto alle dedotte doglianze infraprocedimentali, nessuna di esse appare condivisibile: il Comune non aveva l’onere di rispondere partitamente alle singole controdeduzioni dell’appellante,essendo sufficiente l’evidenziazione di profili osativi assorbenti e, peraltro, non è dato riscontrare alcuna oscurità testuale o difetto motivazionale e l’appellante era ben in grado di comprendere le ragioni dell’insanabile deficit probatorio ravvisato dall’amministrazione appellata.

Le asserite “autorizzazioni” rese dalla Soprintendenza, in quanto sprovviste di elementi che ne certificassero la reale provenienza dovevano essere considerate tamquam non essent; nessuna portata viziante può attribuirsi al mancato riscontro alla richiesta di convocazione di apposita conferenza di servizi, essendo quest’ultima riservata ai soli casi in cui si renda necessaria l’acquisizione di assensi, comunque denominati, di amministrazioni diverse e nel caso di specie non ricorreva la detta condizione, per cui non si vede la ragione che rendesse indispensabile una partita risposta sul punto.

Il diniego si giustificava e reggeva autonomamente (ed in termini assorbenti) sulla non dimostrata consistenza plano-volumetrica pregressa dell’immobile, ed esattamente il Tar ha colto che la ventilata (e non concretatasi) necessità di preliminare acquisizione del parere ex art. 90 d.p.r. n. 380/2001 (“E' consentita, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti:

a) la sopraelevazione di un piano negli edifici in muratura, purché nel complesso la costruzione risponda alle prescrizioni di cui al presente capo;

b) la sopraelevazione di edifici in cemento armato normale e precompresso, in acciaio o a pannelli portanti, purché il complesso della struttura sia conforme alle norme del presente testo unico. L'autorizzazione è consentita previa certificazione del competente ufficio tecnico regionale che specifichi il numero massimo di piani che è possibile realizzare in sopraelevazione e l'idoneità della struttura esistente a sopportare il nuovo carico.”) era stata soltanto evocata nei consideranda in termini eventuali ed ipotetici, e non concretava l’effettiva e decisiva motivazione dell’avversato diniego (peraltro neppure parte appellante ha dimostrato che, effettivamente, il detto parere fosse necessario ed indispensabile a fini ostativi, o che lo stesso avrebbe potuto immutare alcunché a fronte di una ragione di diniego assorbente rappresentata dalla carenza di prova circa la pregressa esistenza e consistenza del plesso).

3.1. Essendo incontestabile che il contraddittorio infraprocedimentale si è dispiegato fluidamente e diffusamente, e che parte appellante ha avuto modo, a più riprese, di chiarire la propria posizione al Comune (cui era ben nota la condizione dello stabile, essendosi in passato pronunciato su richieste simili a quella per cui è causa, come fatto presente dalla Sezione in sede cautelare) deve conseguentemente escludersi che l’azione amministrativa risulti viziata, sia sotto il profilo procedimentale che sostanziale.

4. L’appello va pertanto disatteso, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

4. Alla soccombenza consegue la condanna di parte appellante alle spese del presente grado di giudizio in favore di parte appellata che appare equo quantificare nella misura di Euro cinquemila (€ 5000/00) oltre oneri accessori, se dovuti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge nei termini di cui alla motivazione che precede.

Condanna parte appellante alle spese del presente grado di giudizio in favore di parte appellata nella misura di Euro cinquemila (€ 5000/00) oltre oneri accessori, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:

Riccardo Virgilio, Presidente

Nicola Russo, Consigliere

Michele Corradino, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

Andrea Migliozzi, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 06/08/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)