Cass. Sez. III n. 24481 del 21 giugno 2007 (Up 30 mag. 2007)
Pres. Papa Est. Grassi Ric. Pez
Rifiuti. Attività di lavaggio autocisterne

In tema di gestione dei rifiuti per potersi configurare l'ipotesi del deposito controllato e temporaneo di essi occorre il rispetto delle condizioni dettate dalla legge, in particolare il loro raggruppamento nel luogo di produzione e l'osservanza dei tempi di giacenza, in relazione alla loro natura e qualità. Legittimamente può escludersi che i rifiuti provenienti dall’attività di lavaggio di autocisterne possano essere considerati come prodotti nell'impianto di lavaggio, trattandosi di sostanze residue da quelle trasportate dagli automezzi le quali, in occasione della pulitura delle cisterne, venivano solo estratte da queste e gestite, non prodotte. Dette sostanze acquistano la qualità di "rifiuti" nel momento in cui, divenute parte residua o scarto, di esse il proprietario degli automezzi o il trasportatore ha necessità di disfarsi attraverso le operazioni -effettuate nell'impianto di lavaggio- di estrazione mediante pompaggio, di raccolta in vasche e di successivo avvio a ditte specializzate, per lo smaltimento.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. PAPA Enrico - Presidente - del 30/05/2007
Dott. GRASSI Aldo - Consigliere - SENTENZA
Dott. MANCINI Franco - Consigliere - N. 1659
Dott. PETTI Ciro - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. GAZZARA Santi - Consigliere - N. 3320/2007
ha pronunciato la seguente:


SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PEZ DANIELA, nata a Palmanova il 29 Gennaio 1952;
avverso la sentenza della Corte d'Appello di Trieste in data 3/7/2006;
Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
Udita la relazione fatta dal Cons. Dr. Grassi;
Udito il P.M., in persona del S. Procuratore Generale Dr. Izzo G., il quale ha chiesto il rigetto del ricorso, perché infondato. La Corte Suprema Di Cassazione:
OSSERVA
Con sentenza del Tribunale, in composizione monocratica, di Udine - sez. dist. di Palmanova - datata 6/7/2004, Daniela Pez veniva condannata, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e con il beneficio di cui all'art. 163 c.p., alla pena di 6 mesi d'arresto ed Euro 10.000,00 di ammenda e, con la sostituzione della pena detentiva nella corrispondente pecuniaria, alla pena complessiva di Euro 16.840,00 di ammenda, quale colpevole dei reati, unificati dalla continuazione, previsti dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 51, commi 1 e 5, dei quali era chiamata a rispondere per avere, quale titolare della "Eurowash System s.a.s. di Pez Daniela & C.", come accertato il 06/12/2002:
- senza autorizzazione, costruito un impianto di trattamento rifiuti ed effettuato, o fatto effettuare, attività di raccolta, smaltimento e recupero di rifiuti pericolosi, come acido solforico, cloridrico, acetico e nitrico, ipoclorito di sodio, soda caustica e colla ureica, in particolare consentendo il deposito preliminare dei detti rifiuti, contenuti nelle autocisterne oggetto di lavaggio, che faceva ricadere in apposite vasche e poi avviava ad impianti di trattamento in conto terzi; procedendo alla bonifica delle autocisterne mediante l'uso di testine rotanti e di soluzioni detergenti, nonché al trattamento delle rimanenze nelle autocisterne attraverso un impianto chimico- fisico colà esistente ed effettuando la messa in riserva della paraffina, miscelata ai rifiuti, raccolta nelle canalette recapitanti i rifiuti all'impianto chimico-fisico, al fine del suo riutilizzo;
- effettuato, in violazione del divieto di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 9, miscelazione di rifiuti pericolosi non esistendo, nel detto impianto, linee dedicate per tipologia di rifiuti, sicché essi confluivano in un'unica vasca di omogeneizzazione prima del loro trattamento chimico-fisico.
Contro tale decisione l'imputata proponeva impugnazione per chiedere, previa rinnovazione parziale dell'istruttoria dibattimentale onde acquisire dalle Province di Ravenna e Venezia le richieste loro avanzate e le risposte ricevute, l'assoluzione, con formula piena, dai reati ascrittile ed, in subordine, la riduzione della pena, perché eccessiva.
L'appellante lamentava l'erronea valutazione delle prove ed il mancato accertamento delle modalità operative dell'impianto di lavaggio da lei gestito; deduceva travisamento dei fatti ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 1 e 5, ritenendo che l'impianto di che trattasi non necessitasse dell'autorizzazione da parte della Provincia di Udine, come dalla stessa affermato con lettera in atti, in quanto l'attività sarebbe stata riconducibile al deposito temporaneo previsto dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art., 8 lett. m) e le acque reflue scaturenti dalle operazioni di lavaggio delle dette autocisterne ricadevano sotto la disciplina di cui al D.Lgs. n. 152 del 1999.
Affermava, altresì, che i residui delle sostanze trasportate dalle autocisterne non potevano essere considerati quali rifiuti e che, in ogni caso, in lei non era ravvisabile l'elemento psicologico dei reati, visto che l'impianto di lavaggio da lei gestito operava da svariati anni, lo aveva acquistato nel 1998 e lo aveva sempre gestito con diligenza, attenzione e rispetto delle norme in vigore. La Corte d'Appello di Trieste confermava, con sentenza del 3/7/2006, la decisione impugnata, affermando e ritenendo, fra l'altro:
a) che non appariva necessaria la chiesta rinnovazione parziale dell'istruttoria dibattimentale, sia perché vi erano in atti elementi sufficienti per decidere, sia perché la difesa dell'appellante aveva prodotto la nota del 27/04/2006 con la quale l'Amministrazione provinciale di Ravenna aveva fornito le informazioni richieste;
b) che la relazione tecnica dell'impianto di autolavaggio, risalente al 1998 ed allegata alla richiesta di variante della concessione edilizia inoltrata al Comune di Torviscosa, nella quale si precisava che erano state costruite due vasche per la raccolta e lo stoccaggio dei residui liquidi contenuti nelle autocisterne, pompabili all'esterno prima delle operazioni di lavaggio, rendeva inverosimile ed illogica la tesi difensiva secondo cui dette vasche sarebbero poi rimaste inutilizzate, come riferito dal teste a discolpa Dugaro, da considerarsi per questa parte della deposizione inattendibile;
c) che irrilevante era la testimonianza resa dall'altro teste a discolpa, Zamaro, il quale aveva detto di aver sempre fatto lavare la propria autocisterna a vuoto, senza mai previamente scaricare presso l'impianto della Pez liquidi residui, dal momento che egli -nella migliore delle ipotesi - aveva riferito quanto a lui accaduto, il che non era sufficiente per escludere che detti residui fossero stati estratti, prima del lavaggio, da altre autocisterne;
d) che la responsabilità penale dell'imputata, in ordine ad entrambe le contravvenzioni contestatele, emergeva dagli accertamenti di p.g. esperiti nel corso delle indagini preliminari, nonché dal registro di carico e scarico dei rifiuti tenuto dalla Pez ed, altresì, dalle numerose annotazioni di carico, testualmente riferite a "rifiuti liquidi da lavaggio cisterne", riguardanti i rifiuti ordinariamente prodotti dall'impianto di che trattasi, ossia i fanghi residuati dal trattamento di depurazione delle acque reflue di lavaggio, prima del loro convogliamento nella fognatura consortile;
e) che nella condotta dell'imputata erano ravvisatoli gli estremi della raccolta e del deposito preliminare di rifiuti in vista del loro conferimento a terzi per lo smaltimento, attività che avrebbe dovuto essere previamente autorizzata ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 28, essendo evidente che i residui liquidi pompati all'esterno della cisterne, prima del loro lavaggio, immesse nelle vasche di stoccaggio dell'impianto, costituivano "rifiuti", trattandosi di sostanze delle quali il detentore, ossia il conducente dei singoli automezzi, intendeva disfarsi prima del lavaggio di essi;
f) che produttore e luogo di produzione dei detti rifiuti andavano individuati non nello impianto di lavaggio gestito dalla Pez, bensì nel trasportatore o nella ditta alle cui dipendenze costui lavorava, sicché, non trattandosi di rifiuti prodotti dall'impianto di lavaggio, lo stoccaggio, nelle apposite vasche, dei residui liquidi estratti dalle autocisterne configurava non l'ipotesi di deposito temporaneo di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, lett. m), bensì quella del deposito preliminare soggetto ad autorizzazione, prevista dal citato D.Lgs., lett. l);
g) che, dunque, lo stoccaggio in apposite vasche ed il successivo conferimento a terzi, per lo smaltimento, delle sostanze di scarto previamente estratte dalla cisterne da lavare, costituiva attività di gestione di rifiuti allo stato liquido, soggetta alla disciplina del D.Lgs. n. 22 del 1997 e non a quella del D.Lgs. n. 152 del 1999 in materia di tutela delle acque dallo inquinamento, applicabile solo all'attività di scarico delle acque reflue nei corpi ricettori finali, tramite sistema di canalizzazione;
h) che l'assoggettabilità dell'impianto in questione alla disciplina in materia di acque di scarico doveva ritenersi con riferimento solo ai reflui prodotti dall'attività di lavaggio delle cisterne vuote, convogliati tramite condotta, dopo il trattamento depurativo, alla fognatura consortile, non anche ai residui liquidi estratti dalle cisterne prima della loro pulizia;
i) che anche il reato di cui alla seconda parte del capo a) della rubrica doveva ritenersi correttamente ravvisato a carico dell'imputata, alla luce dell'avvenuto rinvenimento, nei locali dell'impianto di lavaggio, di sacchi di juta contenenti paraffina in essi stoccata in attesa del conferimento a terzi per il relativo recupero;
j) che non era condivisile la tesi difensiva secondo cui detta paraffina non sarebbe derivata dalle operazioni di preventivo svuotamento delle autocisterne, bensì da quelle periodiche di pulitura delle pareti delle canalette di scarico dell'impianto di autolavaggio, sia in considerazione della rilevante quantità di prodotto rinvenuto, incompatibile con la sua provenienza da mere operazioni di pulizia periodica delle dette canalette, sia in virtù della deposizione resa dal teste Dugaro il quale aveva precisato che la paraffina, presente allo stato solido nelle pareti delle cisterne da lavare, veniva estratta dopo essere stata resa liquida mediante un procedimento di riscaldamento e, quindi, accumulata al fine della successiva cessione a terzi per lo smaltimento o il riutilizzo;
k) che i residui di paraffina estratti dalle autocisterne da pulire mantenevano la qualificazione di rifiuti a fronte di una condotta di conferimento all'impianto di lavaggio da parte del loro detentore, a fini di smaltimento o di recupero;
l) che lo stoccaggio o la messa in riserva di tale sostanza ai fini del relativo riutilizzo, costituiva attività soggetta al preventivo rilascio dell'autorizzazione di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 28, non richiesta, ne' ottenuta dalla Pez;
m) che la contravvenzione prevista dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 5 - capo b) della imputazione - relativa alla illecita miscelazione di rifiuti pericolosi, era da ritenersi in atti provata alla luce degli accertamenti peritali compiuti dal dott. Flego, dai quali era emerso che l'impianto del quale si discute era dotato di linee di scolo delle acque reflue di lavaggio delle autocisterne comunicanti fra loro senza separazione alcuna, non distinte per tipologia di rifiuto trattato e tutte confluenti in un'unica vasca di omogeneizzazione dove inevitabilmente avveniva la loro miscelazione prima del trattamento di depurazione;
n) che l'assunto dell'appellante, secondo cui in mancanza di prelievi ed analisi non sarebbe provata la natura pericolosa dei rifiuti, era smentito anche dalla tipologia delle sostanze chimiche, quasi tutte classificate come pericolose, per le quali l'impianto era stato autorizzato a svolgere l'attività di lavaggio delle cisterne;
o) che l'elevata potenzialità dell'impianto, la verificata incapacità del sistema di depurazione di abbattere in modo significativo i valori inquinanti delle sostanze contenute nei reflui di lavaggio, il conseguente accumulo e mescolamento di tali inquinanti nei fanghi residui del processo depurativo e l'intervallo temporale di alcuni mesi, con il quale i detti fanghi erano stati oggetto di raccolta e smaltimento, fornivano adeguata dimostrazione dell'avvenuto raggiungimento di concentrazioni quantitative non minimali di sostanze pericolose;
p) che era da ritenersi esistente, nell'imputata, l'elemento psicologico dei reati contravvenzionali ascrittile, integrato anche dalla mera colpa, pure in considerazione del fatto che la stessa avrebbe dovuto informarsi adeguatamente, se necessario presso la Provincia di Udine, circa le autorizzazioni necessarie all'espletamento dell'attività di lavaggio delle autocisterne e di gestione dei conseguenti rifiuti;
q) che la pena inflitta in primo grado era da ritenersi congrua ed adeguata, come tale non suscettibile di riduzione, in considerazione della non modesta gravità dei fatti e del pregiudizio derivato dalla mancata osservanza di norme a tutela dell'ambiente. Avverso la decisione di secondo grado la Pez ha proposto ricorso per Cassazione e ne chiede l'annullamento per violazione di legge e difetto di motivazione.
Deduce, in particolare, la ricorrente:
1. che l'impianto di lavaggio da lei gestito aveva prodotto rifiuti da esso stesso generati e che, dunque, non vi sarebbe stato alcun deposito di rifiuti prodotti altrove, in quanto le autocisterne da lavare arrivavano nell'impianto già vuote;
2. che gli altri impianti di lavaggio similari, esistenti in Italia, avevano operato in assenza dell'autorizzazione di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 27 e 28 ed avrebbero effettuato solo la comunicazione, alle Province competenti, dell'esistenza di un deposito temporaneo di rifiuti e del relativo quantitativo di stoccaggio;
3. che la Provincia di Udine, organo preposto nella Regione a Statuto Speciale Friuli Venezia Giulia al rilascio delle dette autorizzazioni, più volte da lei interpellata, aveva ufficialmente ribadito, per l'iscritto, la non necessità di esse, essendo l'attività in esame riconducibile al deposito temporaneo, ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, lett. m);
4. che tutte le acque reflue derivanti dal lavaggio delle autocisterne erano state convogliate nelle canalette di prima decantazione e, poi, tramite apposite condotte, nella vasca di accumulo per essere successivamente trattate attraverso il depuratore fisico-chimico in dotazione;
5. che i rifiuti solidi esistenti ancora nelle autocisterne prima del loro lavaggio, come la paraffina, erano stati recuperati a caldo e gestiti a parte, previa loro annotazione sullo apposito registro di carico e scarico e, poi, trasportati e smaltiti, di volta in volta, da aziende specializzate;
6. che gli esami effettuati dall'A.R.P.A. dimostrerebbero solo un momentaneo cattivo funzionamento dell'impianto di depurazione delle acque;
7. che la riscontrata presenza, in prossimità dell'impianto di autolavaggio, di sacchi di juta contenenti paraffina non legittimerebbe l'accusa di stoccaggio illecito di rifiuti, in quanto detta sostanza costituiva il residuo della pulitura delle pareti delle canalette di scarico dell'impianto e non il prodotto abituale dello svuotamento delle cisterne;
8. Che la paraffina o è materia prima utilizzabile, ad esempio, per la fabbricazione di candele ed, allora, non è qualificabile come rifiuto, ovvero, se la si ritiene essere rifiuto prodotto dalla ditta di autolavaggio, dovrebbe essere considerata colà depositata temporaneamente, in attesa di smaltimento;
9. che l'impianto di lavaggio delle autocisterne produce inevitabilmente rifiuti, essendo preordinato alla bonifica degli automezzi, ma detti rifiuti erano sempre stati inviati allo impianto di depurazione;
10. che le acque reflue prodotte, convogliabili direttamente nei corpi ricettori, sarebbero da considerare acque di scarico e non rifiuti liquidi, in quanto non soggetti a trattamento dopo trasporto su strada;
11. che la mera esistenza di vasche per il deposito di sostanze liquide prodotte dal lavaggio delle autocisterne non costituirebbe esercizio di attività attinente al trattamento dei rifiuti, trattandosi di contenitori strumentali ad un impianto di trattamento di acque reflue debitamente autorizzato;
12. che non vi sarebbe prova, in atti, della pericolosità dei rifiuti, non essendo stati essi sottoposti ad analisi e la presenza, nelle vasche di decantazione, di percentuali infinitesimali di sostanze potenzialmente pericolose, non li trasformerebbe in reflui o rifiuti pericolosi;
13. che, del resto, il deposito controllato di rifiuti pericolosi - o non - destinati allo smaltimento o al recupero, effettuato nello stesso luogo di produzione, integrerebbe l'ipotesi di deposito temporaneo di essi, soggetto non ad autorizzazioni o comunicazioni, ma solo alla tenuta del registro di carico e scarico;
14. che, in ogni caso, avrebbe dovuto essere assolta, da entrambi i reati ascrittile, per averli commessi in buona fede e con ignoranza inevitabile della legge penale, avendo avuto assicurazioni, dalla Provincia di Udine, circa la legittimità del proprio operato ed essendo, l'impianto da lei gestito, munito di regolare autorizzazione allo scarico delle acque reflue.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è destituito di fondamento e, come tale, deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente - a mente dell'art. 616 c.p.p. - al pagamento delle spese processuali. La Pez, gerente di un impianto di lavaggio di autocisterne, è accusata di avere, senza autorizzazione, effettuato attività di raccolta, smaltimento e recupero di rifiuti pericolosi contenuti negli automezzi da pulire, rifiuti che venivano raccolti in apposite vasche per poi essere avviati ad impianti di trattamento in conto terzi, come quello della "Fingel s.r.l." e di avere messo in riserva paraffina, miscelata a detti rifiuti, derivata dal procedimento di bonifica delle autocisterne (D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 1), nonché di avere miscelato rifiuti pericolosi, in violazione del divieto di cui al citato D.Lgs., art. 9, non esistendo nell'impianto di autolavaggio distinte linee dedicate alle diverse tipologie di rifiuti che confluivano, tutti, in un'univa vasca di omogeneizzazione prima del loro trattamento chimico-fisico (D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 5).
I Giudici di merito, le motivazioni delle cui decisioni - di segno conforme - si integrano, hanno accertato:
- che nell'impianto di Torviscosa, gestito dall'imputata, venivano lavate anche autocisterne che, al loro interno, avevano ancora una parte delle sostanze trasportate, recuperabili tramite operazione di pompaggio, le quali - estratte - erano avviate in due vasche di stoccaggio, classificate con il codice corrispondente ed iscritte nell'apposito registro di carico e scarico;
- che le operazioni di bonifica riguardavano automezzi contenenti residui di prodotti chimici, fra i quali acido solforico, acido cloridrico, acido nitrico, soda caustica ed ipoclorito di sodio, classificati come pericolosi e nel piazzale dell'impianto si trovavano alcuni sacchi di juta contenenti paraffina solida. La ricorrente sostiene che i rifiuti di che trattasi sarebbero stati prodotti nell'impianto, a seguito del lavaggio delle autocisterne e non altrove, dal momento che gli automezzi arrivavano vuoti, sicché si tratterebbe di rifiuti colà in deposito temporaneo, controllato. Tale tesi non può essere condivisa.
In tema di gestione dei rifiuti, infatti, per potersi configurare l'ipotesi del deposito controllato e temporaneo di essi, previsto dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, lett. m), occorre il rispetto delle condizioni dettate da detto articolo di legge, in particolare il loro raggruppamento nel luogo di produzione e l'osservanza dei tempi di giacenza, in relazione alla loro natura e qualità (v. conf. Cass. Sez. 3^, pen., 11/04/2002, Brustiae 7/11/2004, Giovannoni). In sede di merito è stato legittimamente escluso che i rifiuti di che trattasi possano essere considerati come prodotti nell'impianto di lavaggio, trattandosi di sostanze residue da quelle trasportate dagli automezzi le quali, in occasione della pulitura delle cisterne, venivano solo estratte da queste e gestite, non prodotte. Dette sostanze acquistavano la qualità di "rifiuti" nel momento in cui, divenute parte residua o scarto, di esse il proprietario degli automezzi o il trasportatore aveva necessità di disfarsi attraverso le operazioni - effettuate nell'impianto di lavaggio - di estrazione mediante pompaggio, di raccolta in vasche e di successivo avvio a ditte specializzate, per lo smaltimento.
Non può neppure essere condivisa la tesi secondo cui l'impianto di lavaggio di che trattasi avrebbe prodotto solo acque di scarico soggette alla disciplina del D.Lgs. n. 152 del 1999 e non a quella dei rifiuti.
La nozione di scarico, introdotta da tale decreto legislativo, costituisce il parametro di riferimento per stabilire, relativamente alle acque ed ai rifiuti liquidi, l'ambito di operatività delle relative normative, sicché solo lo scarico di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliatoli, diretto in corpi idrici ricettori, specificamente indicati, rientra nella normativa specifica sopra richiamata, mentre i rifiuti allo stato liquido, costituiti da acque reflue delle quali il detentore si disfaccia senza versamento diretto nei corpi ricettori, avviandole cioè allo smaltimento, al trattamento o alla depurazione a mezzo di trasporto su strada o, comunque, non canalizzato, rientrano nella disciplina dei rifiuti (v. conf. Cass. sez. 3^, pen., 4/05/2000, n. 5000 e 18/10/2006, Marelli). Nella fattispecie in esame in sede di merito è stato accertato che i rifiuti liquidi, estratti dalle autocisterne, non venivano fatti confluire in corpi ricettori e tanto basta per affermare che legittimamente essi sono stati considerati soggetti alla disciplina prevista dal D.Lgs. n. 22 del 1997.
L'accertata esistenza di una apposita struttura stabile, costituita da due vasche di raccolta e le annotazioni rilevate nel registro di carico e scarico, hanno legittimamente indotto i Giudici di merito a ritenere che i rifiuti liquidi, pompati dalle autocisterne prima del loro lavaggio, venissero raccolti e poi avviati allo smaltimento, non immessi in corpi idrici ricettori.
Essi quindi, in attesa di conferimento a terzi per lo smaltimento, erano in deposito preliminare che avrebbe dovuto essere autorizzato ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 27 e 28.
La paraffina trovata in numerosi sacchi di juta rinvenuti nel piazzale dell'impianto è stata correttamente considerata quale rifiuto messo in riserva, in quanto destinato al recupero o riutilizzo.
Anche la messa in riserva di essa avrebbe dovuto essere previamente autorizzata.
La violazione del divieto di miscelazione di rifiuti pericolosi, contenuto nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 9, è stata legittimamente ritenuta esistente con motivazione incensurabile, in questa sede, perché adeguata, giuridicamente corretta e non manifestamente illogica, basata sull'avvenuto accertamento tecnico, da parte del consulente dott. Flego, del fatto che le linee di scolo delle acque reflue derivanti dalla bonifica delle autocisterne erano fra loro comunicanti, senza distinzione alcuna per tipologie di rifiuti e confluivano in un'unica vasca di omogeneizzazione dove le dette acque si miscelavano prima di essere avviate all'impianto chimico-fisico. Anche la pericolosità dei rifiuti e delle acque reflue è stata ritenuta con motivazione immune da censure, in quanto la natura dei reflui e/o dei rifiuti non deve necessariamente essere accertata attraverso prelevamento di campioni ed analisi di essi. Il Giudice di merito può pervenire alla loro identificazione anche attraverso altri elementi di prova specifica, a condizione che motivi al riguardo in maniera congrua, giuridicamente corretta e logica. Nel caso in esame la detta pericolosità è stata ritenuta alla luce delle analisi effettuate dall'A.R.P.A. il 13/11/2002 e dei rilevamenti del consulente tecnico del P.M. il quale ha individuato e descritto analiticamente la natura dei reflui.
L'elemento psicologico dei reati contravvenzionali dei quali è stata ritenuta colpevole è stato ritenuto esistente, nella Pez, con motivazione adeguata e giuridicamente corretta.
I Giudici di merito, infatti, hanno considerato la sicura consapevolezza, da parte dell'imputata, della natura dei rifiuti e della pericolosità di sostanze come la soda caustica o l'acido solforico, nonché l'assenza di certificazione di agibilità dell'impianto, la difformità di esso dal progetto approvato dal Comune e la violazione dei limiti del provvedimento concessorio per quanto atteneva alle tipologie dei rifiuti trattati. La circostanza che la Pez avesse chiesto all'Amministrazione provinciale, peraltro in epoca successiva al sequestro dell'impianto, notizie circa la necessità di autorizzazioni imposte dalla normativa sui rifiuti e le risposte negative, dal contenuto poco chiaro, ricevute al riguardo, non legittimano, nella stessa, alcuno stato di ignoranza inevitabile della legge penale, che doveva essere da lei conosciuta, in quanto gerente responsabile dell'impianto, anche attraverso attività di informazione tempestiva ed adeguata. P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Rigetta il ricorso proposto da Daniela Pez avverso la sentenza della Corte d'Appello di Trieste in data 3/07/2006 e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 30 maggio 2007.
Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2007