Consiglio di Stato Sez. II n. 2851 del 3 aprile 2025
Urbanistica.Destinazione di un edificio a luogo di culto

Se il compimento di riti religiosi è in linea di principio libero – salvo il limite espresso del “buon costume” e quelli, che la giurisprudenza ha ricavato dal sistema e in particolare dall’art. 8, secondo comma, Cost., della tutela dell’ordine pubblico, della sicurezza e della salute, individuale e collettiva – la stabile destinazione di un edificio a luogo di culto presenta un impatto sull’ordinato sviluppo dell’abitato e deve quindi avvenire nel rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia, in cui trovano composizione i vari interessi pubblici e privati che si rivolgono al territorio quale terminale delle attività umane (peraltro tali discipline possono a loro volta essere sottoposte al sindacato della Corte costituzionale, se di fonte legislativa, o del giudice comune, se di natura amministrativa, quando siano irragionevolmente limitative della libertà religiosa). È quindi necessario che la stabile e duratura destinazione di un edificio a luogo di culto sia legittima tanto sul piano formale, per effetto dell’acquisizione del titolo edilizio previsto dalla legge (con pagamento degli oneri connessi), quanto su quello sostanziale, in ragione della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia. Rimane inteso che tali requisiti non riguardano l’ipotesi dell’uso isolato e saltuario di un edificio o di un luogo per il compimento del tutto occasionale di pratiche religiose, il quale, non comportando un significativo impatto sul territorio, non determina mutamento di destinazione dell’immobile e rientra tra le facoltà di godimento del bene che sono correlate al diritto di proprietà su di esso.

Pubblicato il 03/04/2025

N. 02851/2025REG.PROV.COLL.

N. 06594/2024 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6594 del 2024, proposto dall’associazione di promozione sociale Ittihad, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati Ilaria Brunelli, Marco Biagioli e Caterina Caregnato, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Roma, via degli Scialoja, n. 18;

contro

comune di Venezia, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Stefano Gattamelata, Antonio Iannotta, Nicoletta Ongaro, Federico Trento, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via di Monte Fiore, n. 22;

nei confronti

Regione Veneto, Spring s.r.l., non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione II, 18 giugno 2024, n. 1488, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del comune di Venezia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2025 il consigliere Alessandro Enrico Basilico e udita per l’appellante l’avvocata Ilaria Brunelli;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. L’associazione appellante impugna la sentenza che ha respinto il ricorso contro il provvedimento con cui il comune di Venezia ha intimato di ripristinare l’uso commerciale dei locali di cui questa ha la disponibilità e che sarebbero in realtà utilizzati come luogo di culto.

2. In punto di fatto, con ordinanza del 15 maggio 2023, notificata quello stesso giorno all’associazione appellante in quanto utilizzatrice dei locali, il comune di Venezia ha rilevato che l’immobile in questione, pur avendo destinazione commerciale (in forza della licenza edilizia n. 421 del 1958 e successivo condono del 28 settembre 1993), è di fatto usato come luogo di culto e, ritenuto che il cambio di destinazione senza titolo sia rilevante tanto sotto il profilo urbanistico, quanto sotto quello edilizio, con particolare riferimento alla disciplina contenuta nella legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11, ha ordinato di ripristinare la destinazione d’uso commerciale dei locali.

3. L’associazione ha impugnato dinanzi al T.a.r. per il Veneto il provvedimento e gli atti presupposti, con particolare riferimento al verbale degli accertamenti e rilievi del 5 maggio 2023 e alla relazione del Comando di Polizia locale di Venezia del 12 maggio 2023.

4. Il Tribunale, dopo aver sospeso l’esecutività dell’ingiunzione prima con decreto 8 luglio 2023, n. 334, poi con ordinanza 9 settembre 2023, n. 448, nel merito ha infine respinto il ricorso, compensando tra le parti le spese di lite.

5. L’associazione ha proposto appello contro la decisione, chiedendo la concessione di misure cautelari.

Nel giudizio di secondo grado si è costituito il comune di Venezia, domandando il rigetto del gravame.

6. Con ordinanza 17 settembre 2024, n. 3505, l’istanza cautelare è stata accolta, con sospensione dell’esecutività dell’ingiunzione impugnata in primo grado.

7. Nel prosieguo del giudizio le parti hanno depositato scritti difensivi, approfondendo le rispettive tesi.

8. All’udienza pubblica del 28 gennaio 2025 la causa è stata trattenuta in decisione.

9. Prima di esaminare i motivi di ricorso, il collegio ritiene opportuno esporre alcune considerazioni di ordine generale in merito all’uso degli immobili per il culto, tematica che risulta estremamente rilevante tanto sul piano giuridico, venendo in rilievo diritti e interessi di rango costituzionale, quanto sul piano sociale, per la conflittualità che può derivarne e che spesso si traduce in contenzioso dinanzi al giudice amministrativo.

9.1. L’esercizio del culto, in forma individuale o associata, in privato o in pubblico, è oggetto di un diritto inviolabile o, più precisamente, di una “libertà”, riconosciuta a “tutti” dall’art. 19 Cost. – nonché, in termini analoghi, dall’art. 9 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo e dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – e intimamente connessa alla “pari dignità sociale” di ciascuno nonché alla necessità di assicurare le condizioni per il “pieno sviluppo della persona umana” cui fa riferimento l’art. 3 della Carta.

Anche per questo, la giurisprudenza costituzionale è da tempo consolidata nell’affermare, da un lato, che il “principio supremo” della laicità dello Stato è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Costituzione, e dall’altro nel precisare che questo «implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale» (Corte cost., 12 aprile 1989, n. 203).

9.2. Ne deriva, tra l’altro, che le amministrazioni sono tenute a mantenere una leale collaborazione con le varie confessioni e con le associazioni mediante le quali la libertà religiosa viene esercitata, i cui rappresentanti sono a loro volta chiamati a interagire con i pubblici poteri in buona fede, come stabilito dal comma 2-bis dell’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (inserito dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito in legge 11 settembre 2020, n. 120), nell’adempimento di un dovere che ha portata “bilaterale” e si rivolge tanto all’amministrazione quanto ai soggetti che a vario titolo intervengono in un dato procedimento (Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 19 e n. 20).

Leale collaborazione e buona fede – le quali, rispetto all’agire pubblicistico dell’amministrazione, trovano fondamento nei principi d’imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost. – devono orientare soprattutto l’esercizio del potere discrezionale, nell’ambito del quale l’interesse pubblico primario viene posto in relazione e bilanciato con gli altri interessi pubblici e privati a vario titolo coinvolti: così è, per esempio, rispetto alla pianificazione urbanistica, che deve essere elaborata tenendo conto del fatto che «la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di culto» (Corte cost., 24 marzo 2016, n. 63, la quale aggiunge che «il difetto di ponderazione di tutti gli interessi coinvolti potrà essere sindacato nelle sedi competenti, con lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli interessi attinenti alla libertà religiosa» e che lo stesso vale per «un eventuale cattivo uso della discrezionalità programmatoria, atto a penalizzare surrettiziamente l’insediamento delle attrezzature religiose»), e che quindi sulle autorità pubbliche grava il duplice dovere, in positivo, di prevedere e mettere a disposizione spazi pubblici per le attività religiose e, in negativo, di astenersi dal frapporre ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e dal discriminare le confessioni nell’accesso a quelli pubblici (Corte cost., 5 dicembre 2019, n. 254, la quale comunque precisa, anche richiamando la già citata sentenza n. 63 del 2016, che divieto di discriminare «non vuol dire […] che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione»; sul divieto di opporre «un illegittimo e insormontabile ostacolo all’esercizio della libertà di culto» anche la recente Cons. Stato, sez. VII, 27 febbraio 2025, n. 1710 relativamente alla pianificazione urbanistica).

9.3. La prospettiva è invece differente quando viene in rilievo un potere a esercizio doveroso e contenuto vincolato qual è quello di repressione degli abusi edilizi (tra le tante, Cons. Stato, sez. II, 19 agosto 2024, n. 7170 e n. 7168).

Se infatti il compimento di riti religiosi è in linea di principio libero – salvo il limite espresso del “buon costume” e quelli, che la giurisprudenza ha ricavato dal sistema e in particolare dall’art. 8, secondo comma, Cost., della tutela dell’ordine pubblico, della sicurezza e della salute, individuale e collettiva (ancora, Corte cost., 24 marzo 2016, n. 63; nonché Cons. Stato, sez. III, 20 novembre 2023, n. 9897) – la stabile destinazione di un edificio a luogo di culto presenta un impatto sull’ordinato sviluppo dell’abitato e deve quindi avvenire nel rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia, in cui trovano composizione i vari interessi pubblici e privati che si rivolgono al territorio quale terminale delle attività umane (peraltro tali discipline, come anticipato, possono a loro volta essere sottoposte al sindacato della Corte costituzionale, se di fonte legislativa, o del giudice comune, se di natura amministrativa, quando siano irragionevolmente limitative della libertà religiosa).

La libertà di culto sarebbe anzi “malintesa” se si pretendesse d’invocarla per sottrarsi al rispetto «della cornice normativa di rango primario e secondario e dei vincoli cui le attività umane di rilevanza pubblica sono astrette a salvaguardia della convivenza civile tra i consociati (subditi legum sumus, ut liberi esse possimus)» e, in particolare, per giustificare «una destinazione urbanistica di un immobile diversa da quella impressa dai pubblici poteri – con provvedimento non impugnato – nell’esercizio dell’attività conformativa in materia urbanistico-edilizia» (Cons. Stato, decreti 11 marzo 2024, n. 856 e 857; lo stesso art. 9, comma 2, della Cedu, nell’affermare «la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo» la subordina – solo – a quelle limitazioni che siano, da un lato, previste dalla legge e, dall’altro, che costituiscano «misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza pubblica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui»).

È quindi necessario che la stabile e duratura destinazione di un edificio a luogo di culto sia legittima tanto sul piano formale, per effetto dell’acquisizione del titolo edilizio previsto dalla legge (con pagamento degli oneri connessi), quanto su quello sostanziale, in ragione della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia. Rimane inteso che tali requisiti non riguardano l’ipotesi dell’uso isolato e saltuario di un edificio o di un luogo per il compimento del tutto occasionale di pratiche religiose, il quale, non comportando un significativo impatto sul territorio, non determina mutamento di destinazione dell’immobile e rientra tra le facoltà di godimento del bene che sono correlate al diritto di proprietà su di esso.

10. A tal proposito, nel caso di specie occorre ricordare anche che la Regione Veneto, con la l.r. 12 aprile 2016, n. 12, ha previsto una disciplina specifica per gli “Edifici e le attrezzature d’interesse comune per servizi religiosi” e per la “Realizzazione e pianificazione delle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, introducendo, rispettivamente, gli artt. 31-bis e 31-ter nella l.r. 23 aprile 2004, n. 11, che detta “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”.

In particolare, il legislatore regionale ha attribuito agli enti territoriali il compito d’individuare i criteri e le modalità per la realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi e richiesto che per esse sia garantita, con previsioni dello strumento urbanistico comunale, la presenza di strade di collegamento, opere di urbanizzazione primaria, distanze adeguate, parcheggi pubblici, servizi igienici, accessibilità da parte dei disabili, conformità agli strumenti territoriali sovraordinati. Ha inoltre disposto che, fino all’adeguamento dello strumento urbanistico comunale, tali attrezzature possano essere comunque realizzate previa stipula di apposita convenzione con il comune.

Si deve altresì ricordare che la Corte costituzionale, con sentenza 7 aprile 2017, n. 67, ha escluso che gli artt. 31-bis e 31-ter si pongano in contrasto con i principi che la giurisprudenza ha elaborato in materia di libertà religiosa a partire dall’art. 19 Cost., sia perché si tratta di una disciplina che «prende in considerazione tutte le diverse possibili forme di confessione religiosa – la Chiesa Cattolica, le confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost., e le altre confessioni religiose – senza introdurre alcuna distinzione in ragione della circostanza che sia stata stipulata un’intesa con lo Stato», sia perché la Regione, nell’esercizio della competenza legislativa concorrente in materia di “governo del territorio” ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., «è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure»: per tali ragioni, la Corte ha precisato che la realizzazione di un luogo di culto può legittimamente essere subordinata alla stipulazione di una convenzione con il comune interessato purché questa sia «ispirata alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati» e ha dichiarato l’incostituzionalità della sola parte della l.r. Veneto n. 12 del 2016 che consentiva all’amministrazione di esigere, tra i requisiti per la stipulazione di tale accordo, «l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto», essendo questo del tutto eccentrico rispetto agli interessi urbanistici che fondano e limitano la potestà legislativa regionale in questa materia.

11. Alla luce delle considerazioni appena è possibile affrontare le questioni sollevate nel caso di specie, in cui è controverso il mutamento di destinazione d’uso di un immobile situato a Venezia da commerciale a luogo di culto, esaminando i quattro motivi in cui si articola l’appello dell’associazione.

11.1. Con il primo motivo, si deduce: «ERRONEA INTERPRETAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELLA L.R. 12/2016 CON RIFERIMENTO AL PRIMO MOTIVO DI RICORSO: “Eccesso di potere per travisamento di fatto e difetto di istruttoria in relazione all’applicabilità della L.R. 12/2016 – Eccesso di potere per sviamento in relazione alle finalità dell’ordine di conformazione”».

In particolare, si sostiene che il T.a.r., così come l’amministrazione prima di esso, abbia errato nel ritenere applicabili al caso di specie gli artt. 31-bis e 31-ter della l.r. 11 del 2004, i quali riguarderebbero solamente le istituzioni rappresentative di confessioni religiose e non le associazioni private di promozione sociale, qual è l’appellante.

12. Con il secondo motivo di appello si deduce: «ASSOLUTA OMISSIONE DI PRONUNCIA IN ORDINE AL SECONDO MOTIVO DI RICORSO: “Illegittimità del provvedimento sotto altro profilo – Eccesso di potere per difetto di presupposto e per travisamento di fatti. Violazione di legge – violazione dell’art. 23 ter D.P.R. 380/2001”; IN SUBORDINE: falsa interpretazione ed erronea applicazione dell’art. 23 ter D.P.R. 380/2001 con conseguente erroneità della sentenza e fondatezza del ricorso». In particolare, si nega che, diversamente da quanto assunto dal T.a.r. e dal comune, vi sia stata mutazione di destinazione d’uso dell’immobile in senso urbanisticamente rilevante, sia perché le attività culturali non sarebbero incompatibili con la destinazione commerciale, sia perché il mutamento della precedente destinazione a supermercato comporterebbe una riduzione, e non un aumento, del carico urbanistico.

Vengono inoltre contestati i verbali della polizia locale che avevano riscontrato un afflusso di oltre cinquecento persone, osservando che si è trattato di un solo giorno e che comunque la presenza non era contemporanea, nonché rilevando che non vi sono limiti di legge o regolamento per l’accesso ai luoghi privati.

13. Con il terzo motivo si deduce: «ERRONEITÀ DELLA SENTENZA IN RELAZIONE AL TERZO MOTIVO DI RICORSO: “Illegittimità del provvedimento sotto altro profilo – Violazione di legge – violazione dell’art. 71 D. Lgs. 117/2017”».

In particolare, si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal T.a.r., l’appellante rientri tra gli enti del terzo settore, dato che la domanda d’iscrizione nell’elenco è stata accolta con effetto che – in tesi – retroagirebbe sino al momento della presentazione, così da risultare sussistente al momento di emissione del provvedimento; trattandosi di una sede di un ente del terzo settore, quindi, la sua destinazione sarebbe compatibile con tutte le destinazioni.

14. Con il quarto motivo si deduce: «ASSOLUTA OMISSIONE DI PRONUNCIA IN ORDINE AL QUARTO MOTIVO DI RICORSO: “Eccesso di potere per difetto di presupposto e per travisamento di fatti e per difetto di istruttoria sotto altro profilo. Violazione di legge – violazione dell’art. 31 bis L.R. 11/2004 come modificata dalla L.R. 12/2016”».

In particolare, si sostiene che, al contrario di quanto ritenuto dal T.a.r. e dal comune, comunque il locale in questione rispetterebbe i requisiti degli artt. 31-bis e 31-ter della l.r. 11 del 2004.

15. I motivi sono infondati.

15.1. In primo luogo, i verbali della polizia municipale – che sono atti pubblici e, ai sensi dell’art. 2700 c.c., fanno piena prova fino a querela di falso dei fatti che gli agenti attestano avvenuti i loro presenza – consentono di ritenere appurato che l’immobile in questione, avente destinazione commerciale, è stato utilizzato in maniera non saltuaria come luogo di culto.

Lo si evince:

- dal verbale degli accertamenti eseguiti il 5 maggio 2023, in cui si è registrata la presenza di cassette delle offerte, scarpiere, cartelli riportanti gli orari delle preghiere, lavatoi, tappeti, amplificatori e una cattedra, tutti oggetti che l’amministrazione, non irragionevolmente, ha ritenuto tipici delle celebrazioni religiose islamiche;

- dal verbale del sopralluogo dell’8 maggio 2023, in cui si dà atto della presenza «di circa 30 soggetti, alcuni inginocchiati su dei tappeti ed altri in piedi ai lati della stanza, tutti intenti a pregare»;

- dalle sommarie informazioni raccolte l’11 maggio 2023, in cui si riferisce di «una folla di persone all’interno dei locali alcuni inginocchiati» il giorno 21 aprile 2023;

- dalla comunicazione inviata quello stesso giorno da tre agenti, le quali riportano di aver ispezionato i locali e di aver raccolto informazioni da una persona che ha dichiarato di trovarsi abitualmente lì per fare lavori di restauro oltre che per pregare cinque volte al giorno;

- dall’annotazione di polizia giudiziaria del 12 maggio 2023, in cui i verbalizzanti raccontano di essere entrati nell’edificio e di avervi rinvenuto «numerosi soggetti», presumibilmente corrispondenti alle 516 persone viste uscire dai locali in un quarto d’ora, «i quali erano inizialmente seduti in ginocchio su dei tappeti posti a coprire la quasi totalità della superficie dell’u.i.. Gli stessi, poi, su richiamo, in lingua presumibilmente araba, di un soggetto posto sul fondo dei locali, si alzavano in piedi, per poi piegarsi con il busto rivolto in avanti e le mani appoggiate sulle ginocchia, e infine alzarsi nuovamente e inginocchiarsi»;

- dall’esame del libro dei soci prodotto in appello dall’associazione, da cui risulta che questi nel 2023 erano dodici (dunque, un numero sicuramente inferiore a quello delle persone che accedevano alla struttura, la quale era quindi aperta al pubblico o, comunque, a una collettività indeterminata) e sono aumentati solo a partire dal 2024.

A supporto della conclusione può essere portata anche l’ordinanza n. 1296 del 20 aprile 2023 della questura di Venezia avente a oggetto “Venezia e provincia – Celebrazioni per la fine del Ramadan”, in cui si elencano i luoghi e i momenti in cui i centri culturali musulmani presenti sul territorio hanno organizzato le rispettive celebrazioni, dando conto del fatto che l’associazione appellante «ha riferito che la cerimonia di fine Ramadan potrebbe svolgersi all’interno della nuova sede sita in via [omissis], nei locali precedentemente occupati dal gruppo vendita [omissis], qualora i lavori di riqualificazione siano ultimati».

Questi elementi, valutati nel loro complesso, conducono a ritenere dimostrato, quantomeno per presunzioni, che l’immobile oggetto di causa è effettivamente utilizzato dall’appellante come luogo di culto in via stabile e non meramente saltuaria (la correttezza di questa deduzione è confermata dal fatto che lo stesso segretario dell’associazione appellante, sentito dalla polizia locale il 23 febbraio 2024, ha descritto le attività svolte nei locali riferendo dello svolgimento di sermoni da parte dell’Imam il venerdì, anche per più venerdì consecutivi, e che a tale momento partecipano mediamente tra 500 e 600 fedeli).

15.2. Il mutamento di destinazione d’uso da immobile commerciale a luogo di culto rende applicabili gli artt. 31-bis e 31-ter della l.r. Veneto n. 11 del 2004.

Nel confutare questo assunto e sostenere che invece essi si applicherebbero solo alle istituzioni che abbiano la rappresentanza delle confessioni religiose e non anche alle associazioni, l’appellante richiama la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 3803 del 15 giugno 2020, che in effetti aveva ritenuto che la legge regionale riguardasse solo la realizzazione delle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi e non fosse applicabile a un’associazione culturale islamica.

Se in sede cautelare si era ritenuto di sospendere l’esecutività del provvedimento impugnato anche alla luce di questo precedente, all’esito del più approfondito scrutinio proprio della fase del merito si deve invece concludere che gli artt. 31-bis e 31-ter si applichino anche all’associazione appellante – meglio, all’attività da questa svolta nei locali per cui è causa.

Conducono a questo esito considerazioni di natura letterale, sistematica e costituzionale.

Sotto il primo profilo, l’art. 31-bis, comma 2, lettera d), ricomprende espressamente tra le attrezzature di interesse comune per servizi religiosi «gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone, in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali»: il riferimento alle comunità “in qualsiasi forma costituite” nonché l’elenco esemplificativo comprendente “sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali” porta infatti a ritenere che l’accento non debba porsi sul soggetto, bensì sull’attività svolta, che nella specie, per le ragioni esposte, consiste nell’esercizio del culto.

Che questa sia la lettura da dare alle disposizioni emerge anche dalla finalità da esse perseguita, che è – e non può che essere, stanti i limiti della potestà legislativa regionale in materia di “governo del territorio” per rapporto all’esercizio dell’attività religiosa – quella di assicurare lo sviluppo armonico dei centri abitati e la realizzazione dei servizi di interesse pubblico (in questi termini, anche Corte cost., sent. n. 67 del 2017): è infatti l’attività, più che il soggetto che la svolge, a determinare un impatto sul territorio, tale da giustificare una regolamentazione da parte dei pubblici poteri.

Infine, se le disposizioni regionali fossero applicabili solo alle istituzioni rappresentative delle confessioni religiose, e non invece a qualunque soggetto utilizzi un edificio per l’esercizio collettivo del culto, si porrebbero in contrasto con l’art. 20 Cost., secondo cui «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative»: anche per questo, gli artt. 31-bis e 31-ter devono essere intesi – come peraltro induce a fare il dato letterale – come riferiti all’uso degli immobili a prescindere dalla natura del soggetto che ne ha la disponibilità.

Per tali ragioni è infondato il primo motivo di appello.

15.3. L’applicabilità degli artt. 31-bis e 31-ter della l.r. Veneto n. 11 del 2004 all’immobile dell’appellante impone di assicurare la presenza dei requisiti in essi indicati mediante stipulazione di una convenzione con il comune, che nella specie manca, e il successivo rilascio del titolo edilizio.

A tal proposito, le argomentazioni dell’appellante volte a dimostrare che già sussisterebbero le condizioni richieste dall’art. 31-ter sono generiche e comunque, incentrandosi solo sull’affermata compatibilità della destinazione con la disciplina urbanistica della zona in cui si trova l’immobile, non riguardano tutti i requisiti elencati dalla norma (strade di collegamento, opere di urbanizzazione primaria, distanze adeguate dalle aree o edifici utilizzati per altri culti, parcheggi pubblici, servizi igienici adeguati e accessibilità da parte dei disabili).

Per tali ragioni è infondato il quarto motivo di appello.

15.4. Il contrasto del mutamento di destinazione con le previsioni della legge regionale ne comporta l’illiceità sul piano edilizio e giustifica di per sé l’emissione dell’ordinanza di ripristino, senza che sia necessario esaminare anche il profilo urbanistico, correlato all’aumento del fabbisogno di servizi rispetto alla precedente destinazione commerciale (affermato dal comune e negato dall’appellante), che è oggetto del secondo motivo di appello.

15.5. Quanto alla questione dell’applicabilità dell’art. 71 del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, invocato dall’associazione, secondo cui «le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica», si deve considerare che, in base a un principio consolidato in giurisprudenza, la legittimità di un provvedimento deve essere esaminata tenendo conto dello stato di fatto e di diritto esistente nel momento in cui è stato adottato.

Nel caso di specie, l’ordine di ripristino è stato emesso il 15 maggio 2023, mentre l’appellante è stata iscritta nel registro unico del terzo settore (c.d. RUNTS) il 9 giugno successivo, con atto che non può incidere sulla legittimità dell’ingiunzione emessa in precedenza.

In particolare, non può condividersi la tesi dell’appellante secondo cui l’iscrizione retroagirebbe alla data di presentazione della domanda, risalente al 31 gennaio 2023, in quanto l’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 117 del 2017 prevede l’iscrizione nel registro come requisito indispensabile per la qualificazione di un’associazione come ente del Terzo settore, subordinandola alla verifica della sussistenza dei presupposti soggettivi e oggettivi di legge, e l’art. 7 del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali n. 106 del 15 settembre 2020, che definisce la relativa procedura, stabilisce, nel rispetto della norma primaria, che «l’iscrizione nel RUNTS ha effetto costitutivo relativamente all’acquisizione della qualifica di Ente del Terzo settore e costituisce presupposto ai fini della fruizione dei benefici previsti dal Codice e dalle vigenti disposizioni in favore degli ETS».

15.6. Esulano quindi da questo giudizio le conseguenze che discendono dall’intervenuta iscrizione, con particolare riferimento alla possibilità di adibire legittimamente i locali in questione a sede dell’associazione appellante, a prescindere dalla loro destinazione urbanistica in applicazione dell’art. 71 del d.lgs. n. 117 del 2017, per lo svolgimento delle attività istituzionali, comprese le attività culturali di interesse sociale con finalità educativa di cui all’art. 5, comma 1, lettera d), rimanendo tra i “poteri non ancora esercitati” dall’amministrazione la valutazione circa l’attuale eseguibilità dell’obbligo di ripristinare effettivamente l’originario uso commerciale.

16. L’appello è dunque meritevole di rigetto nel suo complesso.

17. La novità della vicenda e la sua particolarità, anche in fatto, giustificano la compensazione delle spese di lite del grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione II, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge; compensa tra le parti le spese di lite del grado.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2025 con l’intervento dei magistrati:

Luigi Massimiliano Tarantino, Presidente FF

Francesco Frigida, Consigliere

Cecilia Altavista, Consigliere

Maria Stella Boscarino, Consigliere

Alessandro Enrico Basilico, Consigliere, Estensore