Cass. Sez. III n. 47281 del 11 dicembre 2009 (Cc. 21 ott 2009)
Pres. Petti Est. Franco Ric. Arrigoni
Urbanistica. Ordine di demolizione e comproprietario

1. E’ ben possibile, ed anzi si verifica di frequente, che il proprietario o comproprietario non possa considerarsi soggetto di buona fede rispetto all’abuso edilizio, perché era a conoscenza dei lavori abusivi che si stavano compiendo nella sua proprietà e non ha fatto nulla per interromperli, e ciò nonostante non sia concorrente nel reato edilizio per avere tenuto un comportamento meramente passivo e di sola connivenza. La mancata condanna per concorso nel reato, quindi, non implica assolutamente il riconoscimento di una posizione di buona fede rispetto all’abuso.
2. La sentenza 20 gennaio 2009 della Corte dì Strasburgo non solo non ha escluso un ordine di demolizione dell’opera contrastante con le norme urbanistiche, eseguibile nei confronti di chiunque ne sia in possesso, anche estraneo al reato, ma ha addirittura implicitamente ritenuto che una tale sanzione ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi e non contrastante con le norme CEDU.
3.Deve ribadirsi il principio di diritto che l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ai sensi dell‘art. 31, comma 9, d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio, e deve essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato.
(Conforme e di contenuto sostanzialmente identico: Sez. III n. 48925 del 21 dicembre 2009, Viesti ed altri)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Ciro - Presidente -

Dott. CORDOVA Agostino - Consigliere -

Dott. FIALE Aldo - Consigliere -

Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere -

Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.T., nata ad (OMISSIS);

avverso l'ordinanza emessa il 31 ottobre 2008 dalla Corte d'appello

di Milano quale giudice dell'esecuzione;

udita nella udienza in Camera di consiglio del 21 ottobre 2009 la

relazione fatta dal Consigliere Dr. Amedeo Franco;

lette le conclusioni del Procuratore Generale con le quali chiede il

rigetto del ricorso.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con istanza 12.2.2008, A.T. chiese al giudice dell'esecuzione la revoca o, in via subordinata, la sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive (capannone industriale) e dell'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi disposto con sentenza di condanna nei confronti del marito M.L., emessa dal pretore di Lecco il 25.5.1999 e divenuta irrevocabile il 21.9.2001.

La ricorrente esponeva che pendevano giudizi amministrativi avverso i provvedimenti di rigetto delle istanze di condono e di diniego di variazione urbanistica; che era moglie del condannato M. L.; che da prima dei fatti era comproprietaria pro indiviso del 50% del terreno sul quale erano state realizzate le opere abusive e quindi era divenuta comproprietaria per accessione anche del capannone illegittimamente costruito dal marito; che pertanto era terza estranea sia al giudizio penale sia ai giudizi amministrativi ancora in corso, nonchè estranea alla esecuzione delle opere non autorizzate; che non aveva mai avuto conoscenza della vicenda collegata all'ampliamento abusivo del capannone di cui aveva appreso notizia solo di recente.

2. La Corte d'appello di Milano, quale giudice dell'esecuzione, con l'ordinanza in epigrafe, rigettò il ricorso.

Osservò, tra l'altro, la Corte d'appello: - che l' A. non poteva qualificarsi terza di buona fede rispetto all'opera abusiva in questione; - che la medesima, se estranea all'illecito, non aveva acquistato una quota del capannone abusivo e restava comproprietaria solo del terreno e dell'opera originaria; - che se dalla demolizione dell'opera abusiva fosse derivato un danno alla parte di cui era originariamente comproprietaria, avrebbe dovuto chiedere in sede civile i danno al marito, responsabile del fatto; - che invero alle costruzioni realizzate da uno dei comproprietari sui terreni comuni non si applica la disciplina sull'accessione ma quella sulla comunione, sicchè le opere abusivamente realizzate non diventano beni condominiali per accessione, ma appartengono al solo comproprietario costruttore; - che peraltro doveva ritenersi, in considerazione della natura e dell'entità dei lavori abusivi, che l' A. fosse stata pienamente consapevole dell'illecito edilizio commesso dal marito sul terreno comune; - che altrimenti avrebbe dovuto presumersi che l' A., asseritamente casalinga e senza occupazione lavorativa, era stata solo una prestanome del marito nell'acquisto della sua quota di proprietà, come poteva desumersi dal fatto che era priva di redditi propri e che per tanti anni non aveva mai agito come comproprietaria.

3. L' A. propone ricorso per Cassazione deducendo:

1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di sospensione dell'esecuzione, stante la pendenza di almeno due procedimenti amministrativi aventi ad oggetto il rigetto delle domande di condono ed il diniego di variazione urbanistica.

Lamenta che il giudice dell'esecuzione ha rigettato il motivo senza nemmeno avere esaminato il contenuto dei ricorsi.

2) violazione di legge, ed in particolare della L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 7, e vizio di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di revoca dell'ordine di demolizione. Osserva in particolare:

a) che l'ordinanza impugnata ha errato nel ritenere che la ricorrente non potesse considerarsi terzo di buona fede rispetto all'opera abusiva. Il reato edilizio, infatti, è reato permanente che si perfezione con la conclusione dell'opera abusiva, che nella specie è avvenuta nel (OMISSIS). E' irrilevante stabilire, come ha fatto il giudice dell'esecuzione, quale fosse l'atteggiamento psicologico della ricorrente successivamente alla consumazione del reato.

E' invece documentalmente provato, sulla base delle sentenze di condanna, che l' A. non aveva avuto alcun ruolo nella commissione del reato e che non aveva concorso nello stesso.

Di conseguenza, nessuna sentenza penale di condanna poteva avere efficacia di giudicato nei suoi confronti, essendo soggetto diverso dall'imputato e dal responsabile civile.

b) che è infondata ed ipotetica la tesi della Corte d'appello secondo cui ella sarebbe stata soltanto prestanome del marito, in quanto casalinga e priva di redditi. La qualità di casalinga non esclude infatti che potesse avere un proprio peculio. Inoltre, se fosse stata prestanome sarebbe stata quanto meno inquisita per concorso nel reato commesso dal marito.

c) che se non fosse estranea al reato andava messa in condizione di esercitare fin dall'inizio il diritto di difesa.

d) che se la sanzione accessoria dovesse trovare applicazione anche nei confronti di un terzo estraneo al reato che era già in precedenza comproprietario del terreno, la disposizione di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 7, sarebbe incostituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24 e 27 Cost.

e) che la detta norma contrasta anche con gli artt. 6 e 7 della CEDU e con la decisione 30 agosto 2007 della Corte di Strasburgo.

3) violazione di legge e vizio di motivazione nella parte in cui l'ordinanza impugnata ha ritenuto che nel caso l'immobile abusivo sia realizzato da uno solo dei comproprietari sul terreno comune, il comproprietario non acquisterebbe la comproprietà del nuovo manufatto in quanto dovrebbero applicarsi non le norme sulla accessione ma quelle sulla comunione.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è infondato.

Quanto al primo motivo, infatti, la Corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi costantemente affermati da questa Corte, secondo cui l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso con la sentenza passata in giudicato può essere revocato esclusivamente se risulta assolutamente incompatibile con atti amministrativi o giurisdizionali resi dalla autorità competente, e che abbiano conferito all'immobile altra destinazione o abbiano provveduto alla sua sanatoria (Sez. 3, 16 aprile 2002, Cassarino, m. 221.974), mentre può essere sospeso solo qualora sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che in un breve lasso di tempo sia adottato dall'autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con detto ordine di demolizione, non essendo invece sufficiente una mera possibilità del tutto ipotetica che si potrebbe verificare in un futuro lontano o comunque entro un tempo non prevedibile ed in particolare la semplice pendenza della procedura amministrativa o giurisdizionale, in difetto di ulteriori concomitanti elementi che consentano di fondare positivamente la valutazione prognostica (ex plurimis, Sez. 3, 17 ottobre 2007, n. 42978, Parisi, m. 238145; Sez. 3, 5.3.2009, n. 16686, Marano, m. 243463; Sez. 3, 30 marzo 2000, Ciconte, m. 216.071;

Sez. 3, 30 gennaio 2003, Ciavarella, m. 224.347; Sez. 3, 16 aprile 2004, Cena, m. 228.691; Sez. 3, 30 settembre 2004, Cacciatore, m.

230.308).

Nella specie, la ricorrente non ha nemmeno dedotto l'esistenza di atti amministrativi o giurisdizionali incompatibili, e non ha nemmeno prospettato quali sarebbero gli elementi concreti sulla base dei quali potrebbe ritenersi concretamente probabile l'emanazione entro breve tempo di un provvedimento amministrativo o giurisdizionale contrario all'ordine di demolizione. Anche nel ricorso per Cassazione tali elementi non sono stati specificati, essendosi la ricorrente limitata ad invocare non meglio precisati procedimenti amministrativi aventi ad oggetto il rigetto delle domande di condono ed il diniego di variazione urbanistica. Sotto questo profilo il ricorso si presenta non solo manifestamente infondato ma anche inammissibile per genericità. La sola presenza di tali procedimenti amministrativi, infatti, non può essere in alcun modo idonea ad ulteriormente procrastinare l'esecuzione dell'ordine di demolizione dopo otto anni dal passato in giudicato della sentenza che lo ha disposto.

5. Il terzo motivo - che appare opportuno esaminare ora - è infondato e comunque irrilevante. In effetti, la decisione della Cassazione civile citata dalla ordinanza impugnata (Sez. 2, 27.3.2007, n. 7523, m. 596277) si riferisce proprio ad un caso in cui uno dei due comproprietari prò indiviso del terreno aveva costruito sullo stesso un immobile abusivo (che per tale motivo non era stato menzionato nell'atto di divisione del terreno) ed ha affermato che "La disciplina sull'accessione, contenuta nell'art. 934 c.c., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui; alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non sì applica tale disciplina, ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità di detta disciplina, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all'uso delle cose comuni, cosicchè le opere abusivamente create non possono considerarsi beni condominiali per accessione ma vanno considerate appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica" (cfr. anche Cass. civ., Sez. 2, 19.11.2004, n. 21901, m.

578073; Id., 22.3.2001, n. 4120, m. 545016; Id., 18.4.1996, n. 3675, m. 497137). Deve però riconoscersi che non è molto chiaro se queste decisioni riguardino solo "il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all'uso delle cose comuni" ovvero anche il rispetto delle regole della disciplina edilizia ed urbanistica.

In ogni caso la questione è in realtà irrilevante in questa sede perchè, per le ragioni che verranno indicate, la domanda della A. deve essere respinta anche partendo dal presupposto che essa sia comproprietaria del capannone abusivo oggetto dell'ordine di demolizione.

6. Per la stessa ragione è irrilevante anche il motivo 2b), perchè, anche ammettendo che la ricorrente non sia una prestanome ma la vera ed effettiva comproprietaria del terreno e del capannone, la soluzione della questione sottoposta a questa Corte non potrebbe cambiare.

7.1. E' infondato, il motivo 2a), con il quale la ricorrente sostiene di essere una terza di buona fede, perchè la sua condizione di buona o di mala fede doveva essere valutata in riferimento all'epoca di realizzazione dell'immobile abusivo e non al tempo successivo alla consumazione del reato. Come esattamente osservato dal Procuratore generale nella sua requisitoria scritta, il giudice dell'esecuzione ha, con congrua ed adeguata motivazione, desunto la mancanza di buona fede della ricorrente non solo dal suo comportamento successivo alla consumazione del reato, ma anche da quello anteriore, non essendo ipotizzabile che al coniuge convivente dell'autore dell'abuso e comproprietario del terreno e dell'originario capannone, potesse sfuggire, con un minimo di diligenza, che nella sua proprietà il marito stava realizzando un nuovo capannone abusivo.

Il fatto che il pubblico ministero a suo tempo non abbia esercitato l'azione penale anche nei confronti della comproprietaria dell'immobile abusivo e che questa non sia stata quindi dichiarata concorrente nel reato edilizio, è irrilevante in relazione al riconoscimento o meno della buona fede. Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, il proprietario o comproprietario del terreno sui cui viene realizzato un immobile abusivo non ha un obbligo giuridico di impedire l'evento. Egli quindi può ben essere a conoscenza dei lavori abusivi, ma se non ha in concreto tenuto una condotta che integri un concorso morale o materiale con il committente dei lavori, non potrà essere ritenuto concorrente nel reato. E' pertanto ben possibile, ed anzi si verifica di frequente, che il proprietario o comproprietario non possa considerarsi soggetto di buona fede rispetto all'abuso, perchè era a conoscenza dei lavori abusivi che si stavano compiendo nella sua proprietà e non ha fatto nulla per interromperli, e ciò nonostante non sia concorrente nel reato edilizio per avere tenuto un comportamento meramente passivo e di sola connivenza. La mancata condanna per concorso nel reato, quindi, non implica assolutamente il riconoscimento di una posizione di buona fede rispetto all'abuso.

D'altra pare, va anche ricordato che la Corte costituzionale, con la sent. n. 322 del 2007, ha affermato che il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost., comma 1, è rispettato quando si attribuisca "valenza scusante all'ignoranza (o all'errore) che presenti caratteri di inevitabilità: giacchè deve poter essere mosso all'agente almeno il rimprovero di non aver evitato, pur potendolo, di trovarsi nella situazione soggettiva di manchevole o difettosa conoscenza del dato rilevante". Deve quindi ritenersi che il comportamento del soggetto non possa considerarsi incolpevole quando egli abbia violato, deliberatamente o anche per mera trascuratezza, gli specifici doveri di informazione e conoscenza che costituiscono diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost..

Nella specie il giudice del merito ha congruamente ritenuto che l' A. era stata certamente a conoscenza della costruzione, da parte del marito, di un nuovo capannone nel terreno di sua proprietà ed avrebbe quindi dovuto prendere tutte le possibili informazioni per accertare se questo nuovo manufatto aveva o meno i necessari titoli abilitativi al fine di eventualmente impedirne la costruzione. Il fatto che la stessa abbia - quanto meno - omesso di compiere questo doveroso accertamento e non abbia impedito la costruzione non può - in mancanza di un obbligo giuridico di attivarsi - integrare il concorso nel reato ma è tuttavia sufficiente ad integrare una situazione di colpevolezza che esclude una posizione di buona fede rispetto all'abuso edilizio.

7.2. Del resto il motivo 2a) è, a ben vedere, anch'esso irrilevante perchè, come si vedrà, l'ordine di demolizione non potrebbe essere revocato o sospeso nemmeno qualora alla ricorrente dovesse riconoscersi la qualifica di terzo di buona fede.

8. E' infondato anche l'assunto che la sentenza di condanna può avere effetti solo nei confronti dell'imputato e del responsabile civile e non anche nei confronti di chi è rimasto estraneo al procedimento penale.

E difatti, l'ordine di demolizione ha come suo destinatario unicamente il condannato responsabile per l'abuso. Solo questi ha l'obbligo di attivarsi e di demolire il manufatto illecito ripristinando lo stato dei luoghi. Se egli non ottempera all'ordine - come è avvento nella specie - è il pubblico ministero che dovrà curare l'esecuzione della sentenza secondo le procedure di legge.

La ricorrente non ha invece nessun obbligo di fare alcunchè, ma solo quello di non opporsi - al pari di qualsiasi altro soggetto che abbia eventualmente sull'immobile un diritto reale o personale di godimento - alla esecuzione dell'ordine di demolizione curata dal pubblico ministero.

Da ciò deriva che le spese della demolizione gravano ovviamente solo sul condannato, ma la misura - investendo il bene - finisce pur sempre per ricadere sul proprietario e sul titolare di altri diritti sul bene stesso, anche nell'ipotesi in cui nulla possa essere loro addebitato per quanto concerne l'attività abusiva.

9. Ciò dimostra anche come sia manifestamente infondato anche il motivo 2c), ossia l'assunto secondo cui sarebbe stato violato il diritto di difesa della ricorrente perchè la stessa non ha partecipato al processo penale. E difatti, non essendole stato contestato il reato, essa è rimasta estranea al processo penale e alla sentenza di condanna ed è quindi ovvio che non abbia potuto contestare in quella sede la illegittimità dell'intervento edilizio.

In quanto titolare di un diritto reale sull'immobile abusivo, però, ha avuto la piena possibilità di far valere il suo diritto di difesa in sede esecutiva, dove può contestare - relativamente agli effetti nei suoi confronti dell'esecuzione dell'ordine - anche l'esistenza di un abuso edilizio, la legittimità dell'ordine di demolizione, e comunque la permanenza di una situazione di contrasto del manufatto abusivo con gli strumenti urbanistici e di pregiudizio per il territorio.

E difatti, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, l'omessa notifica dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo "al comproprietario del bene non comporta alcuna nullità, atteso che questi non è portatore di un interesse giuridicamente rilevante a dedurre una nullità che riguarda un altro soggetto, non rimanendo escluso il suo diritto di interloquire nel procedimento di esecuzione, facendo valere in tale sede le proprie eccezioni difensive" (Sez. 3, 23.1.2003, n. 9225, Petrocchi, m. 224174).

10.1. Sono infine infondati anche i motivi 2d) e 2e), perchè il fatto che la ricorrente sia eventualmente terza di buona fede estranea al reato non comporta alcun impedimento a disporre o ad eseguire l'ordine di demolizione.

E difatti la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte - fondata sull'unica interpretazione possibile alla luce della lettera e della ratio delle disposizioni che vengono in rilievo e non suscettibile, quindi, di essere sostituita da una interpretazione diversa -, ha sempre affermato due principi di diritto tra loro collegati:

a) che oggetto del sequestro preventivo di cui all'art. 321 c.p.p., comma 1, può essere qualsiasi bene - a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato - purchè esso sia, anche indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti (v. Cass. n. 37033/2006, n. 24685/2005, n. 38728/2004, n. 1246/2003, n. 29797/2001, n. 4496/1999, n. 1565/1997, n. 156/1993, n. 2296/1992, e da ultimo Sez. 3, 17 marzo 2009, n. 17865, Quarta, m. 243751; Sez. 3, 13 luglio 2009, n. 39322, Berardi);

b) che, correlativamente, anche la demolizione dell'opera abusiva - che deve essere disposta dal giudice penale con una sentenza di condanna o ad essa equiparata, ex D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 31, u.c., - deve essere eseguita nei confronti di chiunque si trovi nel possesso dell'immobile, essendo irrilevante la circostanza che il proprietario (o comproprietario) del bene sia persona diversa dall'autore dell'illecito.

Ed invero, il provvedimento che ordina la demolizione ha natura amministrativa ripristinatoria (v. Sez. Un., 20.11.1996, Luongo), rivolta al ripristino dell'assetto urbanistico e territoriale violato, in una prospettiva di restaurazione dell'interesse pubblico compromesso dall'abuso, e tale natura esclude che allo stesso possano applicarsi i principi propri del sistema sanzionatorio penale relativi al carattere personale della pena.

Per questa ragione la giurisprudenza, con riferimento alla posizione del soggetto proprietario dell'immobile terzo rispetto al reato, è costantemente orientata nel senso che le sanzioni ripristinatorie sono legittimamente eseguite nei confronti degli attuali proprietari dell'immobile, indipendentemente dall'essere stati o meno questi ultimi gli autori dell'abuso, salva la loro facoltà di fare valere sul piano civile la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del dante causa (v. Cons. Stato, Sez. 5, 1.3.1993, n. 308; Cass. Sez. 3, 5.11.1998, Frati; Sez. 3, 24.11.1999, Barbadoro; Sez. 3, 24.4.2001, n. 35525, Cunsolo, m. 220191; e più di recente, Sez. 3, 13.10.2005, n. 37120, Morelli; Sez. 3, 10.5.2006, n. 15954, Tumminello; Sez. 3, 29.3.2007, n. 22853, Coluzzi, m. 236880).

E' poi evidente che tale principio deve valere anche nei confronti del comproprietario estraneo al reato, che avrà anch'egli la facoltà di far valere sul piano civile la responsabilità del comproprietario autore dell'illecito per i danni che l'esecuzione della demolizione potrà arrecare alla sua originaria proprietà (e non ovviamente all'immobile abusivo la cui demolizione non può evidentemente comportare un danno risarcibile).

L'ordine di demolizione contiene infatti una statuizione di natura reale, che, come il corrispondente ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, produce i suoi effetti nei confronti di tutti i soggetti che, a qualsiasi titolo, siano o diventino proprietari del bene su cui esso incide (Sez. 3, 5.3.2009, n. 16687, Romano, m.

243405).

L'interesse dell'ordinamento è nel senso che l'immobile abusivamente realizzato venga abbattuto, con conseguente eliminazione della lesione arrecata al bene protetto e, se si accedesse alla tesi dell'impossibilità di irrogare la sanzione ripristinatoria nei confronti del proprietario non responsabile dell'abuso, basterebbe una semplice alienazione (reale o simulata) per vanificare l'anzidetta fondamentale funzione (Sez. 3, 13.7.2009, n. 39322, Berardi).

10.2. L'irrilevanza del regime proprietario dell'immobile abusivo oggetto dell'ordine di demolizione si armonizza poi con la disciplina della responsabilità solidale del proprietario estraneo all'illecito posta, in materia di sanzioni amministrative, dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 6.

L'irrilevanza è anche confermata dalla previsione del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 31, comma 2, secondo il quale l'ingiunzione a demolire deve essere disposta dalla autorità comunale anche quando il proprietario del bene non si identifichi con il responsabile dell'abuso (Sez. 3, 13.7.2009, n. 39322, Berardi).

10.3. Va anche ricordata la giurisprudenza della Corte costituzionale che ha escluso - perchè in contrasto con gli artt. 3 e 42 Cost. - la possibilità di disporre l'acquisizione gratuita dell'area di sedime del manufatto abusivo nei confronti del proprietario che sia estraneo all'abuso (cfr. ord. n. 82 del 1991 e sent. n. 345 del 1991).

La Corte, infatti, dopo avere rilevato che l'acquisizione rappresenta una sanzione autonoma per l'inottemperanza all'ingiunzione a demolire e si giustifica proprio per la coazione psicologica che è in grado di esercitare al fine di ottenere quel risultato, ha però anche espressamente specificato che "non per questo viene meno la possibilità di ripristino in quanto, in tale ipotesi, la funzione ripristinatoria dell'interesse pubblico violato dall'abuso, sia pure ristretta alla sola possibilità di demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi attuazione di ufficio, in forza del principio di esecutorietà, senza che a tal fine sia necessaria l'acquisizione dell'area che, se di proprietà di soggetto estraneo all'abuso, deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d'ufficio la demolizione".

11. Può infine ricordarsi che questa Corte ha anche osservato che, a ben vedere, "il proprietario o comproprietario (non committente rispetto all'abuso) non ha interesse giuridicamente protetto ad opporsi all'esecuzione dell'ordine di ripristino. Se l'abuso è avvenuto senza o contro la sua volontà, egli non può che trarre vantaggio dal ripristino della legalità. Se l'abuso è avvenuto con il concorso della sua volontà, il fatto di avere evitato il procedimento penale non costituisce una valida ragione perchè egli si arricchisca del frutto di un abuso debitamente accertato" (Sez. 3, 14.5.1999, n. 1879, Ricci, punto 13).

12. La circostanza che l'ordine di demolizione ha carattere reale e ricade direttamente sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dalla sua partecipazione all'abuso, poi, manifestamente non si pone in contrasto con i principi costituzionali invocati dalla ricorrente, ed in particolare col principio di responsabilità personale (cfr. Sez. 3, 24.4.2001, n. 35525, Cunsolo).

Innanzitutto, infatti, tali principi valgono solo per le sanzioni penali e per quelle amministrative aventi carattere punitivo e non anche quando, come nella specie, la sanzione è chiamata ad un ruolo di carattere oggettivamente riparatorio, ossia l'eliminazione della causa della lesione.

In secondo luogo, le opere realizzate senza la necessaria concessione edilizia sono di per sè illecite - indipendentemente dal titolo di proprietà, di possesso o di detenzione - e devono essere eliminate nella loro realtà fisica, chiunque ne sia il proprietario o l'occupante.

In terzo luogo, il titolare del bene o di diritti minori sullo stesso bene potrà usare gli strumenti privatistici per addossare ai soggetti responsabili dell'attività abusiva gli effetti sopportati in via pubblicistica, non ponendosi in dubbio la circostanza che il soggetto incolpevole abbia diritto di rivalersi, per il danno subito, secondo le norme di diritto comune.

13.1. Questa costante giurisprudenza non può essere modificata a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo emessa il 20.1.2009 (sul ricorso n. 75909/01 proposto contro l'Italia dalla s.r.l. Sud Fondi ed altri).

Va innanzitutto ribadito che non è possibile dare alle norme in tema di ordine di demolizione delle opere abusive una interpretazione diversa da quella assolutamente predominante secondo cui si tratta di provvedimento ripristinatorio di natura reale che produce effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Pertanto, qualora fosse esatta la tesi della ricorrente - secondo cui dagli artt. 6 e 7 della CEDU e dalla citata sentenza della Corte di Strasburgo 20.1.2009 deriverebbe un divieto per il giudice italiano di disporre ed eseguire l'ordine di demolizione delle opere abusive in danno di terzi proprietari in buona fede estranei al reato - dovrebbe essere preliminarmente sollevata non solo la questione di legittimità costituzionale delle norme interne che vengono in rilievo per contrasto con le invocate norme della CEDU, ma ancor prima probabilmente anche la questione della compatibilità delle norme CEDU come interpretate da detta sentenza della Corte EDU del 20.1.2009 con le norme ed i principi della Costituzione italiana.

Ed infatti la Corte costituzionale, con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ha affermato la propria competenza a risolvere ogni questione relativa alla compatibilità delle norme interne con la CEDU ed ha altresì escluso che dalla copertura costituzionale della CEDU possa discendere alcuna diminuzione del proprio ruolo di supremo interprete e garante del nostro assetto costituzionale. La Corte costituzionale ha di conseguenza statuito che i giudici italiani hanno sì il dovere di interpretare le norme interne in senso conforme alle norme CEDU ed alle decisioni della Corte di Strasburgo, ma che, quando una interpretazione adeguatrice non sia possibile, i giudici comuni non possono disapplicare le norme interne ritenute in contrasto con la CEDU, neppure quando tale contrasto sia stato accertato dalla Corte di Strasburgo, in quanto te norme CEDU non possono essere assimilate a quelle comunitarie e non può essere attribuita alle prime l'efficacia diretta delle seconde.

Inoltre, secondo la Corte costituzionale, le norme della CEDU, nel significato attribuito dalla Corte di Strasburgo, integrano il parametro costituzionale ma non acquistano la forza delle norme costituzionali rimanendo pur sempre ad un livello sub-costituzionale, con la conseguenza che devono essere conformi a Costituzione e soggette anch'esse al controllo di costituzionalità. Lo scrutinio di costituzionalità, poi, non può limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (come per le norme comunitarie) ma deve estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le "norme interposte" e quelle costituzionali, con la conseguenza che la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento costituzionale italiano.

Secondo la Corte costituzionale, si tratta di una esigenza assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub- costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione.

Dunque, secondo la Corte, la regola della osservanza degli obblighi internazionali da parte delle leggi ordinarie non deve essere incondizionata, in quanto essa pure deve soggiacere ad un ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117 Cost., comma 1, e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. Anzi, sempre secondo la Corte costituzionale, anche quando le norme CEDU siano astrattamente conformi a Costituzione, esse potrebbero egualmente cedere dinanzi a contrarie statuizioni legislative che siano strumentali alla tutela di interessi che, in sede di bilanciamento, siano giudicati ancor più meritevoli di tutela.

Ora, è stato da più parti osservato che vi è una diversità di contenuto tra i principi della CEDU in tema di tutela del diritto di proprietà ed in particolare tra i principi affermati dalla citata sentenza della Corte EDU del 20 gennaio 2009, da un lato, ed i principi costituzionali in tema di tutela del territorio e dell'ambiente e di funzione sociale della proprietà, dall'altro lato, sicchè potrebbe emergere la necessità di demandare altresì alla Corte costituzionale sia la valutazione di conformità delle norme CEDU in questione con i principi costituzionali sia comunque il ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali e la tutela dei suddetti interessi costituzionalmente protetti.

13.2. Nel presente giudizio, però, non è necessario affrontare tali questioni in quanto lesesi della ricorrente è chiaramente infondata anche per un'altra ragione, e precisamente perchè alle norme CEDU ed alla citata sentenza 20.1.2009 della Corte di Strasburgo non può attribuirsi il significato e l'estensione pretesi dalla ricorrente.

Innanzitutto, infatti, la sentenza della Corte di Strasburgo invocata ha ad oggetto soltanto la possibilità per il giudice di ordinare la confisca in favore del comune dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite disposta dal giudice penale, ai sensi del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 2, anche nell'ipotesi in cui l'imputato sia stato assolto per difetto dello elemento soggettivo del reato ovvero anche nei confronti di soggetti terzi acquirenti di cui sia accertata la buona fede e l'estraneità al reato.

Come emerge chiaramente dalla motivazione, la sentenza ha avuto ad oggetto una misura che è stata ritenuta avere carattere esclusivamente o prevalentemente sanzionatorio ossia punitivo (e non ripristinatorio) e che era diretta non solo alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi ed alla eliminazione delle conseguenze dannose dell'illecito, ma anche alla perdita senza indennizzo della proprietà dei terreni, anche se non edificati; il che è apparso eccessivo e non giustificato rispetto alla finalità perseguita.

Le statuizioni di tale sentenza, pertanto, non possono riguardare la diversa questione oggetto del presente giudizio, ossia la questione se sia possibile disporre ed eseguire l'ordine di demolizione nei confronti di un immobile abusivo che sia di proprietà di un soggetto diverso dall'autore dell'illecito.

13.3. In secondo luogo, proprio sulle base delle argomentazioni svolte dalla sentenza della Corte europea 20 gennaio 2009, Sud Fondi, emerge che la demolizione - a differenza della confisca - non può considerarsi una "pena" nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU perchè essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge.

13.4. In terzo luogo, la medesima sentenza europea in esame (140), nel mentre ha ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo perseguito dalla norma, ossia mettere i terreni interessati in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche, la confisca (anche di terreni non edificati) in assenza di qualsiasi risarcimento, ha invece espressamente ritenuto giustificato e conforme anche alle norme CEDU un ordine di demolizione delle opere abusive incompatibili con le disposizioni degli strumenti urbanistici, eventualmente accompagnato da una dichiarazione di inefficacia dei titoli abilitativi illegittimi.

Sembra quindi confermato che la invocata sentenza della Corte di Strasburgo non solo non ha escluso un ordine di demolizione dell'opera contrastante con le norme urbanistiche, eseguibile nei confronti di chiunque ne sia in possesso, anche estraneo al reato, ma ha addirittura implicitamente ritenuto che una tale sanzione ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi e non contrastante con le norme CEDU richiamate dalla ricorrente.

14. In conclusione, deve ribadirsi il principio di diritto che l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ai sensi del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 31, comma 9, ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio, e deve essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella sede dalla Corte Suprema di Cassazione, il 21 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2009