IL FRESATO D’ASFALTO COME “SOTTOPRODOTTO”
Profili giuridici e tecnici
di Pasquale GIAMPIETRO
SOMMARIO
Premessa
PARTE I: Aspetti tecnici sulla gestione del fresato stradale.
Par. 1 L’oggetto della ricerca: il fresato e la sua provenienza da fresatura o scarifica delle strade.
Par. 2 Il ciclo produttivo del fresato.
PARTE II: I soggetti interessati alla produzione e utilizzazione del fresato.
Par. 3 La stazione appaltante, la società appaltatrice e l’utilizzatore del fresato e le rispettive qualifiche.
Par. 4 Tre distinte fattispecie nell’utilizzo del fresato.
PARTE III: Il fresato e la vigente normativa sulla gestione dei residui - sottoprodotti.
Par. 5 Esame preliminare della disciplina sui “sottoprodotti”.
Par. 6 Le prassi seguite da alcuni enti provinciali, competenti all’autorizzazione e al controllo, ex art. 197, T.U.A. nel considerare il fresato ancora come rifiuto.
Par. 6.1 Le conseguenze giuridiche della qualificazione di rifiuto.
Par. 6.2 Confutazione dell’assunto circa la natura di rifiuto del fresato.
Par. 6.3 Sull’irrilevanza dell’inclusione del fresato nel catalogo CER (170302) ovvero nel D.M. 5.2.1998, ai fini della sua qualificazione giuridica.
PARTE IV: Evoluzione legislativa e giurisprudenziale sulla nozione di sottoprodotto: profili generali.
Par. 7 La più recente normativa nazionale (art. 184 bis) e la legislazione anteriore.
Par. 7.1 Le precedenti “condizioni” del sottoprodotto (oggi soppresse) e trattamenti ammessi. Le nuove condizioni: l’origine del sottoprodotto.
Par. 7.2 Conferme giurisprudenziali sulla preesistenza della nozione di “sottoprodotto”, nel diritto interno e dell’U.E.
Par. 7.3 Seconda condizione sub b) e c): utilizzo “diretto” e “certo” della sostanza nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte del produttore o di terzi.
Par. 7.4 Il fresato non è “disfatto” dal produttore/detentore né sottoposto ad operazioni di recupero, in senso proprio (rinvio), dal terzo utilizzatore. Esso riveste valore economico e commerciale. Ancora sulla “certezza” del riutilizzo.
Par 7.4.1 Le prove della “certezza” del riutilizzo.
Par. 7.5 Terza condizione: “c) la sostanza o l’oggetto “(il fresato)” può essere utilizzato direttamente, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”.
Par. 7.6 “Trasformazioni preliminari” e trattamenti ammessi.
Par. 7.6.1 I trattamenti specifici (consentiti) del fresato.
Par. 7.6.2 Precedenti giurisprudenziali sugli interventi riconducibili alla “normale pratica industriale”.
PARTE V: Utilizzo del fresato e garanzia per l’ambiente e la salute.
Par. 8 La “legalità” dell’utilizzo del fresato, nel processo produttivo del terzo, ex art. 184 bis, lett. d: a) il rispetto dei requisiti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente; b) l’assenza di impatti complessivi negativi sull’ambiente e/o sulla salute umana.
Par. 8.1 Conseguenze giuridiche della qualificazione del fresato come “sottoprodotto”.
Par. 8.2 Garanzie ambientali e tutela della salute.
Par. 9. Risposte alle questioni trattate.
Premessa
Nella presente ricerca intendo verificare se il conglomerato bituminoso, ricavato dalla fresatura o scarifica del manto stradale (detto anche fresato d’asfalto), può essere ceduto ad imprese di produzione di nuovo conglomerato bituminoso (c. b.) come “sottoprodotto”, ai sensi dell’art. 184-bis, del Testo Unico ambientale, di cui a Dlgs. n. 152/2006, e s.m.i., e da queste ultime lavorato con trattamenti da considerare non diversi dalla “normale pratica industriale” (oltre al rispetto di tutte le altre condizioni di legge).
In esito alla ricognizione svolta, in ordine alle attività da cui origina il fresato stradale (e delle sue modalità di impiego nel ciclo produttivo del c. b.: v., oltre, Parte I), ho ritenuto di rispondere al’interrogativo postomi, nei seguenti termini.
Il fresato originato dalle attività di costruzione e/o di manutenzione degli strati superficiali della pavimentazione stradale ed impiegato nel ciclo produttivo per la produzione di nuovo conglomerato bituminoso, presso appositi impianti di imprese terze (rispetto alle ditte che lo producono, e cioè le società appaltatrici dei lavori di costruzione e/o manutenzione stradale: v. Parte II), è da qualificare giuridicamente come “sottoprodotto”, ai sensi dell’art. 184-bis, cit., con le connesse conseguenze sotto il profilo delle modalità di gestione, che sono quelle proprie della circolazione della “merce” e non del rifiuto, con il contestuale, doveroso rispetto di specifiche cautele (indicate a Parte V).
A tali conclusioni sono pervenuto in ragione:
della sua origine, poiché il fresato scaturisce direttamente dal ciclo di produzione/rifacimento del manto stradale (v. Parte I e III, par. 6.2. e 7.1.), di cui “costituisce parte integrante”, non quale “scopo primario” di tale attività, ma quale residuo produttivo ulteriormente utilizzabile (lo “scopo primario” del processo da cui origina consiste nella realizzazione di una nuova pavimentazione), senza essere “disfatto”, in senso giuridico, dal suo produttore/detentore (v. Parte IV, par. 7.4.) né sottoposto a trattamenti recuperatori (ivi, par. 7.5. e ss.) ;
dalla dimostrata compresenza, nel fresato, di tutte “le condizioni” richieste dalla normativa comunitaria ed interna (art. 5, della direttiva cit. e 184-bis del T. U. A.) per la qualificazione del residuo produttivo come “sottoprodotto” (v. Parte III) e cioè la certezza del suo impiego, con una destinazione predeterminata consistente nell’utilizzo dello stesso, presso terzi, in miscelazione con aggregati lapidei e leganti bituminosi, per la realizzazione di nuovo conglomerato bituminoso (v. Parte IV);
della possibilità di utilizzare il fresato “direttamente” nel processo produttivo del conglomerato (v. Parte IV, par. 7.5.) in assenza di “trattamenti diversi dalla normale pratica industriale”;
della piena “legalità” del suo utilizzo nel processo produttivo per la realizzazione di nuovo conglomerato bituminoso (v. Parte V), derivante dal rispetto dei relativi requisiti merceologici e ambientali e dall’assenza di “impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”, ex lett. d) dell’art. 184-bis, in ossequio alla normativa nazionale di settore e delle prescrizioni tecniche dell’UNI EN 13108-8 che considerano il fresato come uno dei componenti per la produzione del conglomerato bituminoso.
PARTE I
Aspetti tecnici sulla gestione del fresato stradale
Par. 1. L’oggetto della ricerca: il fresato e la sua provenienza da fresatura o scarifica delle strade.
Prima di esaminare il tema centrale della qualificazione giuridica del fresato, in base alla possibile alternativa classificatoria del residuo produttivo-“rifiuto” ovvero del residuo -“sottoprodotto”1, appare metodologicamente doveroso identificarne, innanzitutto, i suoi connotati tecnici e cioè i processi di produzione e quelli di riutilizzo, secondo le conoscenze tecniche e le prassi più diffuse che rappresentano l’attuale stato dell’arte in materia di riutilizzo del fresato.
D’altronde la stessa “origine” del sottoprodotto è, al presente, legislativamente prevista, in termini dettagliati, quale “sostanza originata da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza”, come recita il comma 1 dell’art. 184-bis cit. - sicché verificarne il processo di formazione, come le caratteristiche chimico-fisiche di questo materiale, significa gettare le basi per una corretta ed argomentata dimostrazione della ricorrenza o meno delle condizioni da soddisfare per rientrare in questa categoria giuridica.
Il fresato stradale è costituito dallo stesso "conglomerato bituminoso", prelevato, mediante fresatura, dagli strati di rivestimento stradale. Esso assume la struttura di un aggregato, con una sua curva granulometrica generalmente caratterizzata da un’elevata percentuale di fini, e contiene bitume invecchiato (dall’uso del manto stradale da cui proviene).
A) Ai fini di una definizione tecnica del “conglomerato bituminoso” (fondata sulla normativa tecnica e sulla terminologia della norma UNI 13108-1) - propedeutica ad una più rigorosa classificazione giuridica - si riportano di seguito le seguenti nozioni:
conglomerato bituminoso: miscela di aggregati e leganti bituminosi;
conglomerato bituminoso di recupero: conglomerato bituminoso recuperato mediante fresatura degli strati di rivestimento stradale, frantumazione delle lastre provenienti da squarci di pavimentazioni asfaltiche, blocchi provenienti da lastre asfaltiche, e conglomerato bituminoso proveniente da scarti di produzione e sovra-produzione (rif. UNI 13108- 1 e 8).2
B) La composizione del conglomerato bituminoso: il c. b. è un conglomerato artificiale costituito da una miscela di:
inerti (materiali rocciosi di diversa granulometria quali filler, sabbia e pietrisco)
legante di tipo bituminoso
conglomerato bituminoso di recupero (fresato)
C) Nel confezionamento di conglomerati bituminosi vengono impiegati inerti, di origine naturale, industriale, o di riciclaggio quali sabbie, ghiaie e pietrischi provenienti dalla estrazione e frantumazione nelle cave alluvionali, dalla frantumazione delle rocce, da processi industriali o da materiali da demolizione, aventi granulometria variabile. I materiali molto fini che hanno il compito di riempire gli spazi lasciati liberi dagli aggregati più grossi vengono chiamati filler o additivi minerali.
Come il cemento nei conglomerati cementizi, i leganti bituminosi hanno la funzione di legare gli inerti fra di loro nei conglomerati bituminosi.
I leganti possono essere:
bitumi naturali; bitumi artificiali; bitumi liquidi; emulsioni bituminose; asfalti; catrami.
D) definizione di bitume e derivati;
Il bitume è una sostanza derivata dal petrolio di colore nero o bruno scuro, solida o semi solida con caratteristiche termoplastiche. Si trovano in letteratura diverse definizioni o descrizioni dei bitumi: tra esse citiamo quelle riportate dall'EINECS (European Inventory of Existing Commercial Substances), che sono utilizzate per la catalogazione ufficiale in Europa3.
E) asfalto
L'asfalto è una roccia calcarea porosa, naturalmente impregnata di bitume. La presenza di quest'ultimo componente nella roccia è dovuta al residuo lasciato dall'evaporazione del petrolio che precedentemente la impregnava. Spesso, con questo termine ci si riferisce ad una miscela di bitume con sabbia fine e/o filler. Quando gli aggregati presentano anche dimensioni più consistenti la miscela prende il nome di conglomerato bituminoso (hot asphalt mix per la terminologia americana).
F) catrame.
Diversamente dal bitume che deriva dal petrolio, il catrame si ottiene dalla distillazione distruttiva del carbon fossile o dei materiali carboniosi. La fondamentale differenza tra bitume e catrame viene evidenziata dalla catalogazione nelle liste EINECS (European Inventory of Existing Substances) e CAS (Chemical Abstract Service).4
Per quanto riguarda la composizione, con il termine catrame (l’inglese tar), ci si riferisce ad un materiale viscoso, contenete varie classi di composti organici tra cui poliaromatici in notevole quantità, nonché composti con ossigeno, azoto e zolfo.5
I bitumi, sia stradali che ossidati, mostrano basse concentrazioni di IPA, che confrontate con quelle della pece di catrame risultano da 1.000 a 10.000 volte inferiori.
2. Il ciclo produttivo del fresato.
1) la fresatura della pavimentazione stradale: finalità (manutenzione ordinaria e straordinaria).
La ricerca del soggetto produttore del fresato, come residuo produttivo, con riferimento sia al soggetto/ente proprietario della strada che al titolare della ditta appaltatrice dei lavori, sempre al fine di approfondire la condizione dell’art. 184-bis lett. a (“sostanza originata da processo produttivo di cui costituisce parte integrante” anche se “lo scopo primario non è la produzione di tale sostanza”, cioè del fresato), impone di approfondire il contenuto e la portata delle operazioni di fresatura e scarifica.
Le pavimentazioni stradali si logorano ovviamente per diverse ragioni. Le due cause più importanti sono rappresentate dai fattori ambientali e dal carico del traffico.
Interventi di risanamento, a livello del manto stradale, risolvono quei problemi che sono limitati agli strati superiori della pavimentazione e che sono solitamente causati dall'invecchiamento del bitume e dalle fessure che si formano sul manto a causa del traffico e degli sbalzi termici. I metodi più comunemente usati per risolvere questo tipo di problema includono le operazioni di seguito indicate:
Applicazione di un sottile rivestimento (alcuni centimetri) d’asfalto miscelato a caldo sul manto preesistente.
Rimozione mediante fresatura dello strato ammalorato dell'asfalto e sostituzione con materiale nuovo miscelato a caldo, abbinato spesso con un legante modificato. Il processo è relativamente rapido grazie alle elevate capacità produttive delle moderne frese. I livelli dello strato d’asfalto e della pavimentazione rimangono inalterati.
Riutilizzazione in situ del materiale presente nella pavimentazione preesistente (riutilizzo del fresato). Operando in maniera adeguata si interviene sulla pavimentazione ammalorata riciclando sul posto e riutilizzando tutto il materiale presente eventualmente integrandolo con una frazione di materiale vergine a granulometria diversa precedentemente steso sulla pavimentazione;
2) I processi di riutilizzo del fresato: a caldo e a freddo.
Conviene, a questo punto, fornire alcune precisazioni sulle sue modalità di impiego, secondo le prassi correnti.
I processi a caldo sono caratterizzati da una fase di riscaldamento degli inerti. 6
Il riutilizzo a freddo è invece realizzato mediante idonee attrezzature che consentono di miscelare il fresato con il legante bituminoso, cemento, acqua e aggiunta di eventuali inerti vergini. Si dice a freddo in quanto non si ha un preventivo riscaldamento degli inerti. 7
3) Il riutilizzo del fresato in situ ovvero fuori sito: specificazione delle fattispecie (rinvio).
Un'altra distinzione che è possibile fare per classificare le tecniche di riutilizzo si basa sul luogo di confezionamento della miscela.8
Nel caso di riutilizzo in impianto fisso fuori sito, il materiale fresato dalla pavimentazione deve essere trasportato dal luogo di recupero all'impianto stesso per poi essere inserito nel ciclo produttivo e quindi riutilizzato9.
Nella presente nota intendiamo porci il problema della qualificazione del fresato come “sottoprodotto” nel caso specifico – e più problematico – in cui la riselezione, frantumazione, miscelazione del fresato avvenga presso un impianto autonomo, al di fuori del sito di provenienza. Quando cioè i residui della fresatura/scarifica stradale, prima di essere miscelati con gli altri componenti del conglomerato, vengono sottoposti alle fasi di riselezione e frantumazione con le seguenti modalità:
- a mezzo di una pala gommata il fresato viene premescolato e poi portato al frantoio, ubicato all’interno del medesimo impianto, per essere riselezionato in due classi granulometriche: la prima da 0 a 12 mm; la seconda da 12 a 25 mm, attraverso la lavorazione con il frantoio.
PARTE II
I soggetti interessati alla produzione e utilizzazione del fresato.
Par. 3 La stazione appaltante, la società appaltatrice e l’utilizzatore del fresato e le rispettive qualifiche.
Il processo di produzione e successiva utilizzazione del fresato vede il coinvolgimento di più soggetti che, a seconda dei casi (esaminati nel dettaglio più innanzi), prendono parte ad alcune o a tutte le fasi di formazione e trattamento (deposito, trasporto, utilizzo) di tale residuo produttivo.
A monte delle lavorazioni di fresatura, ci si imbatte in una attività contrattuale di affidamento di un appalto pubblico di lavori, consistenti nella manutenzione (ordinaria o straordinaria) del manto stradale di determinate infrastrutture viarie. Sicché, nel processo di produzione e successiva gestione del fresato, vengono ad interfacciarsi, quanto meno (v. oltre), due soggetti, quali: la stazione appaltante della manutenzione stradale (che potrà coincidere con l’ANAS s.p.a. - Ente concessionario della gestione e manutenzione delle infrastrutture stradali statali - o con le Amministrazioni Provinciali e Comunali, proprietarie delle singole strade) e la società appaltatrice delle suddette attività di manutenzione, comprensive della fase di fresatura della pavimentazione bituminosa.
Circa la relazione (giuridica) che viene ad instaurarsi tra tali soggetti e la produzione del fresato, occorre individuare, in particolare - ai fini del presente nota - il soggetto che possa correttamente qualificarsi come produttore e/o detentore di tale residuo.
Al riguardo va, in primo luogo, sottolineato che il fresato, pur essendo generato in occasione della manutenzione di strade di proprietà della stazione appaltante, non può essere considerato come parte “integrante” della strada, oggetto di manutenzione ed essere quindi “ attratto” al medesimo regime giuridico (proprietario) di quest’ultima. In altri termini, dalla titolarità, in capo alla stazione appaltante, della strada, oggetto di manutenzione e/o ri-costruzione, non discende, quale giuridica conseguenza, la paternità (o meglio la proprietà) anche del residuo produttivo “fresato”.
Il materiale (residuo) de quo deriva, infatti, da una specifica lavorazione (qual è la fresatura) che viene svolta autonomamente dall’impresa appaltatrice. E’ pur vero che le attività dalle quali origina il fresato stradale vengono svolte nell'interesse del soggetto committente - su beni generalmente di sua proprietà ed in aree di sua disponibilità - ma quest'ultimo soggetto ne resta completamente estraneo, sia da un punto di vista materiale che giuridico, poiché il manutentore, quale distinto soggetto, svolge in piena e totale autonomia la sua attività organizzativa ed operativa in ragione della quale produce detto residuo.
Quest’ultimo, si configura pertanto - secondo la normativa speciale sui rifiuti - come un materiale la cui paternità e titolarità non può che essere attribuita al soggetto che, con le proprie lavorazioni, dà “fisicamente” origine al medesimo, vale a dire alla società affidataria delle attività di manutenzione stradale che, eseguendo la fresatura delle pavimentazioni bituminose, genera il fresato.
Solo e soltanto tale società sarà perciò qualificata come soggetto produttore del residuo de quo, nonché come detentore dello stesso (ed infatti, dopo aver generato il fresato, l’impresa appaltatrice, fino a che non ne affidi a terzi la relativa gestione, conserva la sua materiale disponibilità, ai sensi delle definizioni poste dall’art. 183 T.U.A. che riguarda sia i residui produttivi da qualificare “rifiuti” che i residui da denominare “sottoprodotti”, ex art. 184-bis.
L’art. 183, lett. f), definisce “produttore di rifiuti”: il soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti; e qualifica detentore (lett. h): “il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso”.10
Tale complessa problematica11 – però - non riguarda direttamente il caso in esame in quanto, come si dirà a momenti, il fresato una volta generato, ove venga destinato al diretto e certo ri-utilizzo, come nella ipotesi oggetto della presente ricerca, deve essere qualificato sottoprodotto (e non rifiuto) di talché i principi di diritto e la giurisprudenza da ultimo richiamata non sarebbero, in alcun modo, applicabili in quanto non pertinenti al caso.
Par. 4 Tre distinte fattispecie nell’utilizzo del fresato.
Sulla scorta di una prassi diffusa, si ritiene possibile enucleare tre specifiche e distinte fattispecie di utilizzo del fresato.
Una prima ipotesi che non interessa la presente ricerca. 12
Una seconda, oggetto di indagine, in cui il fresato viene sempre generato da attività (di fresatura) svolte dalla società appaltatrice ma, a differenza della fattispecie precedente, il soggetto “utilizzatore” non coincide con detta società - e quindi con lo stesso produttore del fresato – essendo un soggetto terzo, vale a dire una impresa produttrice di conglomerati bituminosi che intende impiegare tale residuo nel proprio ciclo di produzione. Sicché, in tale ultima fattispecie, il fresato viene:
generato dalla società appaltatrice dei lavori di manutenzione stradale;
consegnato dalla suddetta società ad imprese produttrici di conglomerati bituminosi (senza compiere un’operazione qualificabile come “disfarsi”, per le ragioni esposte a par. 7.4);
e utilizzato quindi da queste ultime, nel proprio ciclo produttivo, come uno dei materiali occorrenti alla produzione di conglomerati bituminosi. 13
Terza ipotesi: si registra, infine, una fattispecie residuale di utilizzo del fresato allorché sia la stessa Amministrazione proprietaria della strada ad eseguire gli interventi di manutenzione avvalendosi di una società controllata; a produrre, quindi, il fresato; ad impiegarlo nella produzione di c. b. mediante impianti mobili in situ o tramite propri impianti fissi con trasporto e movimentazione del fresato e, infine, ad utilizzare per la nuova pavimentazione stradale il conglomerato composto anche dal “proprio” fresato. Anche questa vicenda non rientra nella presente ricerca.
PARTE III
Il fresato e la vigente normativa sulla gestione dei residui-sottoprodotti.
Par. 5 Esame preliminare della disciplina sui “sottoprodotti”.
Così chiarite le fattispecie concrete di origine, gestione e destinazione del fresato stradale, si rende necessaria una prima, breve ricognizione - di tipo normativo - che circoscriva ed inquadri correttamente i termini della presente indagine.
1. Secondo il vigente ordinamento, da una attività produttiva, si generano, normalmente, prodotti e residui produttivi considerati, dalla legge comunitaria e nazionale, in via di principio e nella generalità dei casi, come rifiuti, suscettibili, in quanto tali, di essere recuperati o smaltiti.
Solo qualora ricorrano contestualmente alcune, predeterminate condizioni (v. oltre) taluni residui andranno qualificati, invece, come sottoprodotti, sin dal momento della loro formazione e ricadranno nella disciplina di mercato delle merci.
In via alternativa, i residui produttivi (che non posseggono le caratteristiche del “sottoprodotto”) potranno essere sottoposti ad attività di recupero (ordinario o agevolato) per perdere la loro qualifica di rifiuti ex art. 184-ter del T.U.A. ed essere assimilati, a tutti gli effetti di legge, a qualsiasi altra merce come materie prime secondarie, ovvero smaltiti.
Nel primo caso, i residui - da qualificare “sottoprodotti” - si caratterizzino, innanzitutto, per il fatto di non derivare dall’attività di recupero dei rifiuti (come nella seconda ipotesi), bensì direttamente da processi produttivi che non sono direttamente finalizzati al loro ottenimento.
In particolare, qualora determinati cicli di produzione generino residui o scarti che possono essere utilizzati tal quali (su tale condizione v. oltre), nello stesso o in altro ciclo produttivo (di terzi), il legislatore (comunitario e nazionale) ha faticosamente acconsentito, dopo un travagliato processo di elaborazione culturale, normativa e giurisprudenziale, a prevederne una qualifica autonoma (rispetto ai rifiuti) e una conseguente disciplina di favore (considerando il risparmio di risorse naturali e la sensibile riduzione della produzione di rifiuti che essi assicurano) come quella oggi approntata dal vigente art. 184-bis del TU ambiente 14 (v. oltre).
2. Una tappa fondamentale dell’evoluzione normativa, ”in tema di sottoprodotti”, si rinviene nella recente direttiva del 2008/98/CE del 19 novembre 2008 che ha introdotto formalmente ed espressamente, per la prima volta a livello comunitario, il concetto giuridico di “sottoprodotto”, definendolo, all’art. 515, come “una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo”.
Detta norma ha stabilito che il residuo “può non essere considerato rifiuto … bensì sottoprodotto” a condizione che sia stato generato come parte integrante di un processo di produzione (lett. c) e che l’ulteriore utilizzo sia certo (lett. a), legale (deve cioè avere i requisiti tecnici per l’uso cui viene destinato e non deve arrecare pregiudizi all’ambiente o alla salute umana – lett. d) e non necessiti di trattamenti ulteriori rispetto alla normale pratica industriale (lett. b).
3. Invero, ancor prima dell’evocata definizione, il concetto giuridico di sottoprodotto non era certo “sconosciuto” all’ordinamento, sia comunitario che nazionale: i contributi della giurisprudenza16 e delle istituzioni della U.E.17 ne avevano infatti già tracciato i principali profili costitutivi, consentendo così allo stesso legislatore italiano di elaborare una specifica disciplina per i materiali “sotto-prodotti” contenuta nel previgente articolo 183 comma 1, lett. p., del TUA18.
Tale norma risulta oggi abrogata ad opera del D.lgs 205/2010, adottato in attuazione della direttiva rifiuti del 2008, e sostituita dal nuovo art. 184-bis che ha trasposto, nel nostro ordinamento, la citata definizione comunitaria di “sottoprodotto”19.
4. Il richiamato art. 184-bis prevede che, per identificare un sottoprodotto - a cui, si ribadisce, non si applicano i rigorosi criteri di gestione dei rifiuti, trattandosi, a tutti gli effetti di merce - deve essere, anzitutto, individuata la volontà del produttore/possessore/detentore, di “disfarsi” (o meno) della sostanza o dell’oggetto (e quindi di ritenere/non ritenere la stessa come rifiuto).
Rispetto ai rifiuti, il sottoprodotto risulta, dunque, qualcosa di cui l’impresa non ha intenzione di disfarsi ma che intende sfruttare o commercializzare a condizioni più favorevoli, in un successivo processo (industriale o più in generale produttivo).
Questa condizione, però, da sola non basta: secondo la definizione vigente di sottoprodotto, sopra richiamata, taluni prodotti dell’attività d’impresa - che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo - possono essere esclusi dal regime dei rifiuti, a patto che rispettino contemporaneamente le condizioni elencate dall’art. 5, della Direttiva 2008/98/CE come recepite nell’art. 184-bis del T.U.A., in tema di origine, formazione e destinazione degli stessi 20.
Par. 6 Le prassi seguite da alcuni enti provinciali, competenti all’autorizzazione e al controllo, ex art. 197, T.U.A. nel considerare il fresato ancora come “rifiuto”.
Nelle prassi amministrativa seguite da alcune Province si riscontra la tendenza a considerare il “fresato stradale” come rifiuto (nel caso – che qui interessa - della società terza che utilizza il fresato prodotto dalla ditta appaltatrice dei lavori di manutenzione stradale che genera il fresato: con riferimento alle vicende indicate retro: Parte II, par. 6), ai sensi dell’art. 183 comma 1, lett. a), T.U. cit., sulla base delle seguenti ragioni giuridiche:
1) perché il fresato è contemplato dal Codice europeo dei rifiuti (CER) che gli attribuisce un determinato numero di codice: il 170302;
2) in quanto questo materiale risponderebbe alla nozione di sostanza di cui il detentore si “disfa” ex lett. a) dell’art. 183 cit., con riferimento tanto al proprietario della strada (da cui è prelevato il fresato), quanto alla società appaltatrice, che, in veste di produttrice/detentrice, lo destinerebbe al “recupero”, consegnandolo a terzi (come la Co Bit ) ex art 183, lett. t);
3) perché il fresato, in base ad alcuni contratti d’appalto, deve essere smaltito in discarica, salvo che sia recuperato come rifiuto;
4) poiché esso è previsto e disciplinato, come rifiuto, dal DM 5.2.98, sotto la voce 7.621 e 7.1 (modificata dal DM 5.4.06).
L’unica eccezione ammessa - da tali Amministrazioni provinciali - verrebbe ravvisata nei casi in cui il fresato stradale vanga utilizzato in situ dallo stessa ditta appaltatrice per la produzione di c. b. da impiegare nelle medesime attività manutentive da cui è generato.
Par. 6.1 Le conseguenze giuridiche della qualificazione di rifiuto.
Dalla qualifica del fresato, come rifiuto, deriva – ovviamente - un regime giuridico particolarmente oneroso per il suo utilizzatore cui viene imposto il rispetto di una serie di prescrizioni dettate dalla parte IV del T.U.A., per il suo stoccaggio, trasporto, trattamento e, più in generale, per la sua gestione.
Par. 6.2. Confutazione dell’assunto circa la natura di rifiuto del fresato.
La tesi di alcune amministrazioni provinciali che non ritengono ammissibile altra qualificazione - per il fresato - se non quella di “residuo-rifiuto” ex art. 183, comma 1, lett. f del T.U.A. - escludendo così (aprioristicamente) la sua qualificabilità come sottoprodotto - non risulta sorretta da solide basi giuridiche.
Essa appare chiaramente ancorata ad un quadro normativo ormai “superato” dai recenti approdi della legislazione comunitaria e nazionale (di cui si dirà, in sintesi, al successivo par. 7) che hanno ridisegnato il discrimen tra “residuo-rifiuto” e “residuo-sottoprodotto” (o meglio le condizioni normative che consentono di distinguere i due concetti e quindi le due tipologie di residui produttivi).
In particolare, laddove le Amministrazioni ritengono ammissibile l’utilizzo del fresato in assenza di qualsiasi autorizzazione solo qualora avvenga in situ, nello stesso ciclo produttivo da cui è originato22 (qualificandolo, in tale ipotesi, implicitamente come sottoprodotto) - dimostrano di “sposare” una risalente concezione di sottoprodotto, superata (cioè abrogata) dal vigente dettato dell’art. 184-bis del TUA.
Anticipando quanto si dirà più innanzi, va evidenziato, infatti, che mentre in passato - nella versione originaria del TUA23 - per la qualifica giuridica dei sottoprodotti era prescritto che questi ultimi fossero “impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati” da quest’ultima, oggi è espressamente ammesso un impiego del sottoprodotto anche in un “ciclo produttivo diverso da quello di origine” e, anche qualora avvenga ad opera di soggetti terzi, rispetto al produttore del residuo (sottoprodotto: sul punto v. oltre).
In definitiva, appare evidente che la scelta di alcune amministrazioni provinciali di applicare un duplice binario (regime) giuridico per il fresato stradale a seconda:
che sia impiegato nello stesso ciclo di origine (e cioè sul posto, per la produzione in situ del conglomerato occorrente alla manutenzione della pavimentazione, dalla cui fresatura è scaturito) (regime del sottoprodotto)
o sia destinato, invece, all’utilizzo per la produzione di conglomerati bituminosi in appositi impianti fissi posti all’esterno del cantiere per la manutenzione stradale (regime giuridico di rifiuto, con la conseguente necessità di poter impiegare il fresato per la produzione di c. b. solo in possesso delle occorrenti autorizzazioni di legge per il recupero di rifiuti),
non risulta conforme all’attuale normativa in tema di distinzione tra rifiuti e sottoprodotti introdotta dall’art. 184-bis cit.
Ma v’è di più. Tale doppio regime del fresato non trova alcuna giustificazione anche ove si tenga conto che, nelle due ipotesi considerate, il fresato comunque:
deriva dal medesimo ciclo produttivo di origine (lavori di pavimentazione stradale);
ha la stessa formazione e composizione chimico-fisica;
presenta la medesima (eventuale) presenza di contaminanti;
è sottoposto alle stesse modalità di trattamento.
A variare è soltanto il luogo dove il fresato viene riselezionato e ridotto granulometricamente per costituire un componente del c. b. (impianto in situ o all’esterno del cantiere).
In conclusione, non vi è alcuna giustificazione tecnica, oltre che giuridica, né alcuna diversa esigenza di tutela ambientale, per poter legittimare tale differente “sorte giuridica” del fresato, a seconda che sia trattato e reimpiegato nel cantiere di origine o presso altri impianti (fuori cantiere).
Né può essere, infine, accolta l’ulteriore obiezione preliminare secondo cui la qualifica del fresato, come rifiuto, deriverebbe dalla definizione normativa, in forza della quale sarebbe “sottoprodotto” solo il residuo di un processo produttivo di beni e non anche quello derivante dallo svolgimento di una attività di servizi (come potrebbe apparire la manutenzione stradale).
Invero, l’attuale disciplina dei sottoprodotti - con riferimento sia al dettato comunitario, di cui all’art. 5, cit. della Dir. 2008/98/CE, sia all’art. 184-bis, del TUA - non autorizza né giustifica tale restrittiva lettura, in ossequio tanto all’insegnamento della giurisprudenza che alle interpretazioni della dottrina.
Il legislatore (comunitario e nazionale) si è, infatti, limitato a prescrivere che i sottoprodotti traggano origine “da un processo di produzione”, senza specificare alcunché in merito a quale debba essere l’oggetto dell’attività produttiva.
Ne deriva, sul piano logico e giuridico, che essa potrà consistere tanto nella produzione di beni che nella “produzione di servizi” (sul punto, v. oltre, anche Parte IV, par. 7.1.)
E del resto la giurisprudenza della Cassazione, deputata per legge, ad assicurare l’uniforme interpretazione del diritto oggettivo ha già sgombrato ogni dubbio in proposito, affermando testualmente, sul punto, che “il processo che origina il sottoprodotto non debba essere necessariamente un "processo industriale" (come era testualmente prescritto, invece, dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, comma 1, lett. n), del nella formulazione originaria) e possa essere, quindi, anche di produzione di un servizio”24.
Ma v’è di più: l’attività di manutenzione stradale, laddove occorra sostituire superfici ormai logorate da elevati volumi di traffico, ecc., si “realizza”, in concreto, in due operazioni inscindibili: di preventiva rimozione di materiale (che genera il fresato) e di successiva produzione di un nuovo strato di pavimentazione, utilizzando, per es., fresato d’asfalto proprio od altrui (v. Parte I, par. 2).
Nell’un caso o nell’altro il fresato resta sottoprodotto, fin dall’origine, anche se proviene da ditta terza, in quanto, una volta generato, non viene “disfatto” (v. par. 7.4., anche qualora sia consegnato ad altra ditta) e non necessità di operazioni di recupero, per il suo riutilizzo, da parte del produttore o del terzo (v. par. 7.5 e ss).
In definitiva, la c.d. manutenzione stradale – e cioè il “complesso di operazioni necessarie a conservare la conveniente funzionalità ed efficienza25” delle strade - comprende e si realizza nell’unitaria attività “produttiva” (della nuova superficie bituminosa) consistente nella scarifica/fresatura (con rimozione) della precedente pavimentazione e realizzazione della nuova.
In tale approccio, può correttamente affermarsi che il fresato d’asfalto deve essere qualificato come un residuo scaturente non già dall’erogazione di un “servizio” (anche se tale origine, come sottolineato, non esclude la nozione di sottoprodotto), ma da un unitario ed articolato processo di produzione (sullo stesso tema, v. oltre Parte IV).
6.3 Sull’irrilevanza dell’inclusione del fresato nel catalogo C.E.R. (170302) ovvero nel D.M. 5.2.1998 ai fini della sua qualificazione giuridica.
Come è noto, l’inclusione del fresato nel catalogo C.E.R. al numero 170302 – diversamente da quanto opinato da talune amministrazioni pubbliche - non è, di per sé, sufficiente a fondare una sua qualifica come rifiuto, in assenza della volontà di “disfarsi” di esso, da parte del rispettivo produttore e/o detentore.
Ed, invero, come specificato nella “Introduzione”, premessa all’Allegato D), della Parte Quarta del T.U.A. cit.26, “la classificazione di un materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’art. 1, lettera a) della direttiva 75/442 CEE” 27 (definizione oggi trasposta nell’art. 183, comma 1, lett. a del TUA28).
Assume, invece, carattere dirimente - ai fini della qualificazione di un dato materiale (nella specie, del fresato) come rifiuto o piuttosto come merce (o sottoprodotto) – la volontà di colui che produce e/o detiene detto materiale: solo qualora quest’ultimo intenda “disfarsene” lo stesso potrà configurare un rifiuto.
In definitiva, dall’inclusione nel C.E.R. del fresato non può trarsi alcuna fondata conclusione in merito alla qualificazione giuridica dello stesso (come rifiuto o sottoprodotto); quest’ultima dovrà farsi discendere, piuttosto, da un’attenta disamina della presente fattispecie finalizzata a verificare:
(1) l’effettiva volontà del produttore/detentore;
(2) la contestuale ricorrenza, in concreto, delle condizioni poste dalla legge per la ricorrenza del “sottoprodotto”, elencate dall’art. 184-bis cit.
Appare altresì irrilevante, ai fini della qualificazione giuridica del fresato, la sua inclusione nell’ambito del D.M. 5.2.1998 e s.m.i.29 alla voce 7.630, tra i rifiuti recuperabili, in via semplificata, nel processo produttivo del conglomerato bituminoso. Si tratta, invero, di una circostanza che non è, sotto alcun profilo, ostativa alla qualifica del fresato come sottoprodotto piuttosto che come rifiuto.
1. A conferma di quanto sopra, basti rammentare che la giurisprudenza comunitaria, con un orientamento ormai risalente, di oltre dieci anni e mai smentito né da successive pronunce (della C.G.E. e dei giudici nazionali) né dai più recenti interventi legislativi in materia, ha chiarito che, alla previsione normativa di specifici metodi di trattamento o di recupero dei rifiuti, “non consegue necessariamente che qualunque sostanza trattata con uno di tali metodi debba essere considerata un rifiuto…”.
Secondo gli stessi giudici, per vero, “… il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto. Infatti la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non ha incidenza sulla natura di rifiuto definita, conformemente all’art. 1 lett. a) della direttiva”31 (e cioè alla definizione di rifiuto oggi riprodotta nell’art. 183 cit. del TUA). Le stesse attività di trasformazione o di trattamento (come quelle di “recupero” descritte dal D.M. 5.2.1998), osserva spesso la Corte di Lussemburgo, possono interessare tanto la materia prima che il rifiuto.
Come dire che, ai fini della qualificazione di una materia/sostanza come rifiuto o sottoprodotto, occorre dare rilievo alla sussistenza o meno della volontà di disfarsene e tale volontà non può farsi discendere dalla destinazione ad un tipo di attività astrattamente ricompresa (in sede normativa) tra quelle che possono (anche) perseguire finalità recuperatorie di rifiuti.
2. Con riguardo a tale ultimo profilo, peraltro, non si può fare a meno di rilevare che le prescrizioni del D.M. 5.2.1998 danno attuazione ad una risalente normativa, introdotta dal decreto Ronchi del ’97 (poi abrogato dal T.U.A. del 2006) che non conosceva la categoria giuridica del “sottoprodotto” ignota a livello comunitario ed interno.
Con il decreto cit. il Governo individuò non solo determinate tipologie di rifiuti che potevano essere recuperati con il compimento di determinate operazioni di recupero chimico-fisiche (che incidevano sulle caratteristiche merceologiche e ambientali del materiale) ma anche “riclassificò”, come rifiuti recuperabili, tipologie di materiali già definiti “materiali quotati presso le camere di commercio che continuano ad essere esclusi dal campo di applicazione del decreto legge n. 438/1994” (vedi il Decreto Ministeriale 4 settembre 1994 sul “riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo”) i quali non rientravano nella definizione di rifiuto e non necessitavano, per il loro riutilizzo, di alcun trattamento di recupero tanto da venir reimpiegati “tal quali” e cioè con “riutilizzo diretto”!
Ebbene dette tipologie di residui sono stati inseriti nel D.M. 5.2.1998 nell’ALLEGATO 1, Suballegato 1 (come per es. carta, cartone, prodotti di carta; rifiuti di vetro; rifiuti di metalli, ecc.) ma, in realtà, come “materiali quotati in borse merci, listini e mercuriali – utilizzabili tal quali – oggi possono essere riqualificati e ricondotti, ricorrendone tutte le altre condizioni di legge (v. oltre), nella nuova categoria dei sottoprodotti, a seguito di un effetto abrogativo dell’art. 184-bis (norma legislativa di natura primaria) sulle disposizioni regolamentari del D.M. del 1998, per sopravvenuta incompatibilità.
Si ha una conferma testuale - oltre che logica – di tale finale conclusione considerando che - come, un tempo, per i materiali quotati in borsa, di cui si predica il “riutilizzo diretto” (v. la voce 1.1.3, lett. a) del D.M. 5.2.1998 sul “riutilizzo diretto della carta nell’industria cartaria”) - così per il fresato il decreto del 1998, con riferimento alle “Attività di recupero” (voce 7.6.3.), non indica né è in grado di indicare i trattamenti cui deve essere sottoposto il fresato”, limitandosi a specificare che esso sarà recuperato per “la produzione di conglomerato bituminoso a caldo. “ 32
Ebbene, nel sistema vigente, deve ritenersi che la destinazione di un dato residuo ad una delle attività elencate dal D.M. cit. tra le attività di recupero non possa essere ostativa alla qualifica dello stesso come sottoprodotto ove ne ricorrano tutte le condizioni (v. oltre). Diversamente, verrebbe limitata, in modo sostanziale, detta categoria, in spregio alle nuove previsioni legislative (art. 5 della Dir. 2008/98/CE e art. 184-bis del TUA) solo perché, in una precedente decreto ministeriale del 1998, essa non era stata ancora contemplata.
In definitiva, l’attuale prassi di alcuni Enti di controllo che ritengono il fresato stradale come rifiuto - in assenza di una verifica puntuale delle condizioni per la qualifica dello stesso come sottoprodotto - si pone in palese contrasto con un nuovo quadro normativo che impone di rimettere il giudizio sulla sussistenza o meno del residuo- sottoprodotto al complesso delle circostanze (“condizioni”) del caso concreto e non già ad una formalistica e nominalistica inclusione di quel dato residuo nel catalogo C.E.R. e/o nella sua presenza, come residuo produttivo, nell’elenco delle attività e/o finalità di recupero di cui all’ALLEGATO 1, Suballegato 1, di un D.M. 5.2.1998, da ritenersi abrogato, per incompatibilità, con la disciplina introdotta dall’art. 184-bis.
PARTE IV
Evoluzione legislativa e giurisprudenziale sulla nozione di sottoprodotto: profili generali.
7. La più recente normativa nazionale (art. 184-bis) e la legislazione anteriore.
1. Le conclusione appena raggiunte sono fondate, come rilevato, sulla base della più recente normativa sul sottoprodotto (art. 184-bis del T.U. cit.) la quale, come è noto, ha subito, negli ultimi cinque anni, modifiche rilevanti, in base a tre successivi “correttivi” che sembrano trascurate o sottovalutate dalla tesi criticata (del fresato-rifiuto recuperabile).
La definizione originaria dell’art. 183, lett. n)33, è stata dapprima sostituita dal D.lgs. n. 4/2008, con il nuovo articolo 183, lett. p)34, e, da ultimo, con il D.lgs. n. 205/2010 (art. 184-bis,35 norma applicabile, al presente, relativamente al “sottoprodotto”, ratione temporis).
Nella prima versione del 2006, la legge imponeva che i “sottoprodotti - di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi o non abbia deciso di disfarsi” - siano “direttamente impiegati dall’impresa che li produce” ovvero “commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa, direttamente per il consumo o per l’impiego”.
Nel testo del 2008 si richiedeva, poi, che l'impiego (certo, sin dalla fase della produzione, ed integrale) "avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito". 36
Anche se risultava eliminato il riferimento all'impiego direttamente nel consumo 37, non era precisato se il ciclo di reimpiego del sottoprodotto fosse lo stesso di quello di produzione ed era inizialmente sorto il dubbio se il legislatore del 2008 avesse inteso limitare il riutilizzo al solo processo di formazione del sottoprodotto.
2. Le incertezze interpretative accennate sopra venivano in parte superate dalla giurisprudenza comunitaria che, con decisive pronunce di tipo “liberista”, indicava la possibilità di comprendere, nella nozione di sottoprodotto, anche il riutilizzo presso terzi della sostanza prodotta in altro e distinto processo produttivo.
Con due sentenze di condanna dell'Italia, per inadempimento agli obblighi comunitari, ai sensi dell'articolo 226 Ce, del 18 dicembre 200738 si affermava, sul punto, che ".. un bene, un materiale o una materia prima, risultante da un processo di fabbricazione che non è destinato a produrlo, può essere considerato come un sotto prodotto di cui il detentore non desidera disfarsi solo se il suo riutilizzo, incluso quello per i bisogni di operatori economici diversi da colui che l'ha prodotto, è non semplicemente eventuale, ma certo, non necessita di trasformazione preliminare e interviene nel corso del .. processo di produzione o di utilizzazione".
Nella stessa prospettiva si poneva la Grande Sezione, 24 giugno 2008, causa C-188/07, Total (punti 42-47 della motivazione), che, rispondendo alla questione pregiudiziali se l'olio pesante, prodotto derivato da un processo di raffinazione, rispondente alle specifiche dell'utilizzatore, destinato dal produttore a essere venduto come combustibile (. . .), possa essere considerato un rifiuto (. .. ).
Dopo aver ripercorso la giurisprudenza sulla nozione di sottoprodotto, rilevato che "la sostanza di cui trattasi è ottenuta in esito al processo di raffinazione del petrolio” e che "tale sostanza residua può essere sfruttata e commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose, come confermato dal fatto, . che essa è stata l'oggetto di una operazione commerciale e che risponde alle specifiche dell'acquirente", conclude nel senso che "una sostanza non costituisce un rifiuto nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione" dal terzi acquirenti.
Il nuovo indirizzo giurisprudenziale della Corte lussemburghese finiva per superare le ultime resistenza della Cassazione italiana, volta a fornire una interpretazione più severa ed estensiva della nozione di rifiuto.
Quest’ultima, con qualche ritardo, condivideva e accoglieva infine, progressivamente, i principi comunitari, consolidando l'orientamento secondo cui:
“ non è necessario che l'utilizzazione del materiale, da qualificarsi sotto prodotto, avvenga nello stesso processo produttivo da cui ha avuto origine, essendo, invece, sufficiente che il processo di utilizzazione del sotto prodotto sia stato preventivamente individuato e definito" 39.
7.1. Le precedenti “condizioni” del sottoprodotto (oggi soppresse) e trattamenti ammessi. Le nuove condizioni: l’origine del sottoprodotto.
Con l’entrata in vigore della nuova direttiva sui rifiuti, 98/2008CE40, risulta semplificato, ex dall’art. 5, il precedente sistema delle condizioni, non richiedendosi più:
1) che il residuo produttivo scaturisca (o derivi), in via continuativa, dal processo industriale;
2) sia impiegato direttamente e nel corso del processo di produzione (come rilevato sopra);
3) sia originato comunque da una dichiarata o formalizzata volontà del produttore (essendo sufficiente che il sottoprodotto sia previsto e voluto);
4) venga sottoposto a trattamenti (consentiti) da parte dello stesso produttore (rientranti nella “normale pratica industriale”), potendo tali trattamenti mancare del tutto o essere applicati dai terzi (v. oltre), anche non utilizzatori finali, purché non si configurino come “trattamenti di recupero”, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. h).
Con l’art. 184-bis, il legislatore italiano ha dato attuazione all’art. 5 della direttiva 2008 cit., attenendosi formalmente e sostanzialmente al dettato della disposizione comunitaria, con qualche significativa variante.
Nell’elencare le condizioni ineludibili per la sua ricorrenza, si prevede, sub lett. a), che: “E’ un sottoprodotto e non un rifiuto …. qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto”.
Nel caso del fresato, non può dubitarsi, innanzi tutto, che la ricostruzione e/o manutenzione della strada e specificamente del manto stradale, da parte della ditta appaltatrice – quale attività di produzione di beni (costruzione delle strade) ovvero di servizi (di manutenzione ordinaria o straordinaria, pur sempre rientrante in una attività industriale, ex art. 2195, comma 1, n. 1, del codice civile) – costituisce lo “scopo primario” di tale attività produttiva (sul punto, v., retro, Parte III, par. 6.2).
Peraltro, nell’esecuzione di essa, si origina, a seguito delle operazioni di scarifica e/o fresatura delle strade, una “sostanza” (appunto il fresato) che non rientra nello “scopo primario” della produzione e, nondimeno, deriva necessariamente dalle operazioni del “processo produttivo” e dunque ne “costituisce parte integrante” (prima condizione relativa al momento genetico della formazione del sottoprodotto).
Quest’ultimo, infatti, viene generato nel processo tecnologico di realizzazione del prodotto principale (scopo primario) e di detto processo fa parte ineludibile (la rimozione del vecchio manto stradale precede necessariamente la sua ricostruzione).
Esemplificando, in altri setto: si pensi alla distillazione del greggio, per produrre benzine (scopo primario), e alla contestuale produzione di sottoprodotti (oli minerali), venduti come combustibili a terzi e utilizzati, in altri processi produttivi ed in altro luogo cioè, appunto, sottoprodotti (che vengono “… commercializzati, a condizioni economiche vantaggiose, oggetto di una operazione commerciale, corrispondente a “specifiche” (tecniche) poste dall’acquirente”) 41.
Considerato che “lo scopo primario del processo di produzione” può prevedere uno o più prodotti industriali ovviamente programmati (spesso con diverso “valore” commerciale) – si deve aggiungere, a questo punto, che il sottoprodotto si caratterizza e consiste, propriamente, in quella diversa sostanza che si genera, di fatto, dallo stesso processo produttivo organizzato, però, per un obiettivo “primario” distinto (nel nostro caso per la realizzazione di strade o manutenzione delle stesse).
Ne deriva questo conclusivo canone interpretativo: si è in presenza del sottoprodotto, in tutte quelle vicende in cui, contestualmente alla realizzazione di uno o più obiettivi primari voluti e programmati (come “scopo primario della produzione” del bene/servizio), si generano – con riferimento e/o a causa delle materie prime usate e/o in ragione delle tecnologie di processo adottate (scarifica/fresatura) - materiali (“sostanze od oggetti”) - cui non era “destinato” primariamente il processo produttivo – i quali presentano, fin dall’origine, determinati caratteri merceologico - ambientali (conformi alle “condizioni” dell’art. 184-bis) che ne consentono l’ulteriore utilizzo (differenziandosi, pertanto, dal comune residuo-produttivo, privo normalmente di questi attributi, tanto da dover essere “recuperato” o smaltito).
In conclusione:
i beni concepiti come scopo primario della produzione, in termini organizzativi e tecnologici, costituiscono i prodotti industriali di un’azienda (uno o più di uno);
le “sostanze od oggetto”, che non ricadono in tale scopo primario, possono essere definiti, nel rispetto delle condizioni normative date, “sottoprodotti”;
questi ultimi non vengono programmati secondo le modalità sub a), ma si generano naturalmente e/o necessariamente, come conseguenza diretta, per es., delle materie prime utilizzate e/o in ragione delle tecnologie di processo seguite (si pensi alla fresatura delle strade, come nel caso, ovvero alle lavorazioni industriali dei comparti del legno, del ferro, della gomma, delle industrie conserviere, dell’edilizia, della raffinazione del greggio, della distillazione delle uve, ecc.) allorché il “residuo produttivo” di tali lavorazioni possa essere utilizzato “tal quale” o a seguito di trattamenti circoscritti, propri della “normale pratica industriale”;
anche il sottoprodotto è consapevolmente previsto dall’imprenditore, ovviamente non come obiettivo ”primario” del processo produttivo (in inglese: primary aim; in francese: le but premier) ma come “articolo” secondario, rispetto ed in aggiunta ai “prodotti industriali” del primo tipo, per i quali si è appositamente programmato il processo di produzione (in termini di investimento, di tecnologie di lavorazione, di resa commerciale);
in termini storici e/o tecnologici, si può riscontrare che molti residui produttivi - oggi qualificati o qualificabili “sottoprodotti” - non sono stati considerati, per più o meno lunghi peridi di tempo, come beni e quindi hanno avuto in sorte di essere dismessi (smaltiti) o recuperati come rifiuti (per ragioni di mercato, per assenza di tecnologie appropriate che ne permettessero il reimpiego, per motivi economici, e, soprattutto, per lo stato… arretrato della legislazione comunitaria e interna anche se la giurisprudenza della Corte di Giustizia, e poi, della Cassazione italiana, da decenni aveva enucleato tale categoria giuridica.)
E’ appena il caso di aggiungere che la tipologia di attività produttiva da cui scaturisce il fresato (e cioè la manutenzione e il rifacimento degli strati superficiali della pavimentazione stradale) non risulta in alcun modo ostativa alla sua qualifica come sottoprodotto, il quale può derivare dai cicli produttivi di qualsiasi attività di produzione di beni e/o servizi (per la dimostrazione di tale assunto, v. retro, Parte III, par.6.2.).
Da ultimo, di sottolinea che, nella versione originaria del TUA (del 2006) si richiedeva che i sottoprodotti scaturissero dal “processo industriale dell’impresa stessa…”; ma già nel 2008 (dopo il secondo correttivo del TUA, il D.lgs. 4/2008) la nozione dei sottoprodotti era stata modificata e l’allora vigente art. 183, comma 1, lett. p) prevedeva che questi ultimi fossero “originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione”. Sulla base di tale ultima locuzione la giurisprudenza ara arrivata ad affermare che “il processo di provenienza non deve essere necessariamente industriale – come era tassativamente previsto dall’art. 183, comma 1, lett. n, del D.lgs. 152/2006 nella formulazione originaria – e può essere quindi anche di produzione di un servizio”42.
Anche l’odierno art. 184-bis, a conferma della precedente versione dell’art. 183, comma 1, lett. p del TUA, non fa alcun riferimento al carattere industriale o meno dell’attività che genera il residuo-sottoprodotto43.
7.2. Conferme giurisprudenziali sulla preesistenza della nozione di “sottoprodotto”, nel diritto interno e dell’U.E.
Come accennato sopra, la categoria giuridica del “sottoprodotto registra, notoriamente, una sua storia, non solo economico-commerciale ma anche giurisprudenziale e dottrinale, che ne ha tratteggiato, in modo sufficientemente chiaro, i connotati.
Si pensi, in tale direzione, “agli arresti”, più illuminati della Corte di Giustizia europea la quale ha circoscritto, nel tempo (anche prima della direttiva 98/2008), la categoria del “sottoprodotto” in limitate ma decisive pronunce44, con riferimento a singole fattispecie, quali, per es.: il riutilizzo del coke da raffinazione di petrolio (v. punti 47, 87 e 88 della motivazione) ovvero l’impiego del letame spagnolo, nelle due successive sentenze della CGCE dell’8 settembre 2005, causa C- 416/2002 e C- 12/2003, ecc 45.
Merita evocare, in proposito, anche le molte sentenze del giudice nazionale, in tema non solo di di produzione di fresato (richiamate oltre), ma anche di ghisa liquida, con formazione di scorie e polveri; di fabbricazione di mobili, con contestuale produzione di segatura, trucioli, cascami di legno non trattato; in materia di concia di pelli, con produzione di fanghi proteici stabilizzati, “sottoprodotto” per la formazione del concime, denominato “pellicino integrato”, ecc.
Un ultimo rilievo: la formulazione della norma nazionale ex art. 184-bis ( “E’ un sottoprodotto e non un rifiuto …. qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni:…” ecc.) costituisce la traduzione del testo della direttiva che presentava delle varianti espressive rilevanti.
Si è inteso “tradurre”, infatti, la formula comunitaria (“Può non essere considerato un rifiuto”; in inglese: “ may be regarded as not being waste”) con la proposizione, più perentoria, e in positivo (“E’ un sottoprodotto e non un rifiuto”) perché, ove siano in concreto “soddisfatte” tutte le “condizioni” poste dalla norma, la qualifica di sottoprodotto sussiste, sul piano giuridico, con certezza, e non come una semplice eventualità (“può non essere rifiuto”).
Intendo dire che non vi è spazio per un sindacato discrezionale, in senso giuridico (amministrativo o tecnico), di esclusione o meno del rifiuto, da parte delle autorità competenti (come indurrebbe a pensare la terminologia usata: “ la produzione di tale articolo può non essere considerato rifiuto”) in presenza – nel caso specifico - dei requisiti di legge (a parte la complessità di tale verifica, in sede amministrativa o giudiziaria).
Ovviamente, se si accertasse la mancanza anche solo di una condizione, fra quelle elencate dalla norma, non verrebbe, in alcun modo, ad esistenza la categoria del “sottoprodotto”. Ma non perché la sua esclusione sia conseguenza di un atto o valutazione discrezionale di riconoscimento (nel senso giuridico, sopra indicato), quanto perché si sarebbe accertato, in forma vincolata, che difetta, in concreto, uno o più elementi costitutivi, indefettibili, che lo identificano giuridicamente.
7. 3. Seconda condizione sub b) e c): utilizzo “diretto” e “certo” della sostanza nel caso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi.
Come previsto dalle lett. b) e c) della norma interna cit. l’utilizzo del sottoprodotto deve essere certo e diretto46. Peraltro, come è stato notato anche dalla dottrina,
– con riferimento all’impiego - la direttiva non impone affatto che l’utilizzo della “sostanza od oggetto” debba essere “integrale”, come disponeva in precedenza la legge italiana. Questa maggiore apertura comunitaria – sulle effettive quantità dell’ulteriore utilizzo - appare del tutto ragionevole, potendo sopravvenire dei fatti (economici, tecnologici, contrattuali, ecc.), tra il momento della produzione del materiale e quello del suo impiego che impediscano “l’integrale utilizzo”.
In tal caso, infatti, la parte del sottoprodotto, che non risulta più direttamente utilizzato (o utilizzabile, per fatti non previsti e/o non prevedibili al momento della sua formazione), potrà essere, in un secondo momento, “recuperata” o “smaltita” come rifiuto, nel pieno rispetto della legge47.
Mentre, per quanto riguarda la certezza dell’utilizzo – secondo la condizione sub b) e della lett. a) dell’art. 5 direttiva (“è certo che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzato”) - essa non è, in alcun modo, vincolata e fatta risalire cronologicamente al momento della formazione del materiale, come pretendeva il “secondo correttivo” n. 4/2008: “. sin dalla fase della produzione”, né dalla fonte comunitaria né da quella nazionale (anche l’art. 184-bis non pretende tale condizione).
Risulta, infatti, del tutto possibile (e frequente), nei rapporti commerciali fra produttore e utilizzatore (ma anche nell’ambito della stessa impresa che intenda impiegare i propri sottoprodotti) che, al momento della loro formazione, non si prospetti ancora l’occasione o non si sia ancora perfezionato il vincolo negoziale per una successiva utilizzazione48. Ciò che esige la norma, in definitiva, è che sia “certo” tale destino (del successivo impiego) - cioè adeguatamente dimostrato, con prove congrue ed affidabili (v. infra), non formalizzate dalla norma né tassative - ma non che dette prove debbano essere fatte risalire (formate e/o acquisite), necessariamente, al momento iniziale della produzione del sottoprodotto.
L’utilizzo, ancora, deve essere, per legge, “diretto”.
L’aggettivo andrà correlato all’attività di utilizzo - che deve essere diretto cioè “.. senza alcun ulteriore trattamento”, come specificato subito dopo - e non necessariamente al soggetto che la compie, cioè all’attività di utilizzo diretto dello stesso produttore del materiale.
Conseguentemente risulta superata ed ampliata la previsione del punto 2, della lett. p), dell’art. 183, secondo cui “l’impiego” del sottoprodotto doveva avvenire “… direttamente nel corso del processo di produzione…”, ove letta: nel processo di produzione di provenienza del sottoprodotto e, pertanto, ad opera esclusivamente del suo produttore, e non da parte di terzi.
Tale disciplina limitativa era stata peraltro già abbandonata dalla giurisprudenza della Corte lussemburghese (citata sopra) che ha riconosciuto la qualifica di sottoprodotto a materiali (combustibile, letame/fertilizzante, coke, ecc.) che venivano riutilizzati:
in distinto e diverso processo produttivo, rispetto a quello di origine;
in luogo diverso da quello di produzione del sottoprodotto;
a imprese distinte da quella del produttore (cioè da terzi; negli stessi termini si era espressa la Commissione CE, nella nota “Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sottoprodotti” del 21 febbraio 2007, cit.).
Si ribadisce, dunque, che la diposizione interna indica come “la sostanza o l’oggetto è sotto-prodotto” dell’impresa, in quanto “parte integrante del (suo) processo produttivo”, anche quando non sia necessariamente riutilizzato dalla stessa, come faceva intendere la norma precedente quando si esprimeva nei termini indicati: “ il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale, e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione” (caso ovviamente consentito, anche se non frequente).
Per questo medesimo approccio, si rimanda agli “arresti giurisprudenziali” della Corte di giustizia citt. che, ricorrendo al termine di “commercializzazione del sottoprodotto”, riconosce esplicitamente il suo possibile trasferimento ad imprese terze, anche in altro luogo fisico e in diversi processi produttivi o di impiego49
Appare evidente che - nella vicenda ipotizzata - vengano soddisfatte entrambe le condizioni enucleate. Nel senso che il fresato, generato dalle società appaltatrici dei lavori stradali, venga utilizzato nell’ambito di un “successivo processo di produzione” di conglomerato bituminoso - “da parte di terzi” rispetto al produttore/detentore - in una percentuale (contenuto del fresato per base e binder) che normalmente oscilla fra il 15% e il 18% (v. retro).
Tale operazione comporta, normalmente, un vantaggio economico:
del conferitore, che può essere rappresentato da uno sconto, sul prodotto finito [c. bituminoso] riacquistato dal terzo (sconto che, ovviamente, non viene riconosciuto sul prezzo del conglomerato bituminoso quando realizzato solamente con aggregati vergini):
(oltre che) dell’utilizzatore del sottoprodotto il quale, immettendo nella miscela, una parte d fresato nella percentuale indicata, risparmia sul costo delle materie prime vergini (inerti e bitume) che sostituisce con il fresato (subendo però un decremento di prezzo di vendita pari ad eventuali sconti praticati).
Quanto alla prova che dovrà fornirsi, al fine di dimostrare la ricorrenza di un “utilizzo certo”, va ribadito che il vigente art. 184-bis non indica alcuno specifico strumento probatorio da utilizzare a tale scopo (come, ad es. prove formali, tassative o tipiche50). Ciò nonostante, con la predisposizione per es. di appositi contratti o missive, che attestino tali conferimenti, potrà essere fornito anche un riscontro documentale dell’effettiva destinazione (nel ciclo produttivo di c.b.) del fresato stradale.
7.4 Il fresato non è “disfatto” dal produttore/detentore né sottoposto ad operazioni di recupero, in senso proprio (rinvio), dal terzo utilizzatore. Esso riveste valore economico e commerciale. Ancora sulla “certezza” del riutilizzo.
Si è già segnalato che la nuova direttiva comunitaria 98/2008 CE sancisce esplicitamente e dunque inconfutabilmente la possibilità di utilizzo del sottoprodotto "…nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi", ai sensi dell’ articolo 5, della direttiva 19 novembre 2008,
In attuazione della norma comunitaria, anche l’art. 184-bis del T.U., comma 1, lettera b), prevedendo che la sostanza o l’oggetto verrà “… utilizzato nel corso dello stesso o un successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte di produttori o di terzi”, consente:
a) la circolazione del sottoprodotto tra produttore originario e terzo utilizzatore, svincolando la sostanza dal reimpiego nel processo produttivo originario nonché:
b) la movimentazione (cioè il trasporto) fra produttore/detentore e terzo come merce- sottoprodotto, appunto, e non come rifiuto (sempre che ricorrano le altre condizioni di legge).
Questa stessa previsione – che ipotizza la consegna del sottoprodotto a terzi per il suo impiego, in un “successivo processo di produzione o di utilizzazione”, esclude:
c) per ragioni di coerenza logica e giuridica che il trasferimento della sostanza dal luogo di origine (cioè di produzione) e la sua consegna a terzi sia qualificabile o qualificato come una attività di “disfarsi” del residuo produttivo (da parte del proprietario/detentore) che connota, in forma costitutiva, la nozione giuridica di rifiuto, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a), come ipotizzano ancora enti provinciali.
Nel caso ipotizzato, il produttore del fresato (le ditte appaltatrici dei lavori di rifacimento del manto stradale) può trasportare direttamente, ovvero tramite ditte terze, detto materiale dal luogo di produzione al luogo di riutilizzo presso la sede industriale del terzo il quale lo utilizza, nel proprio processo produttivo (in base alla previsione normativa del “successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte del terzo”) per la generazione di nuovo conglomerato bituminoso, nei termini indicati (v. retro Parte I).
Il conferimento del fresato dal produttore al terzo non costituisce pertanto una operazione propria del “disfarsi”, ai sensi e per l’effetto di cui all’art. 183, comma 1, lett. a), in quanto il detentore di questo materiale non intende51 “disfarsene” – cioè destinarlo ad operazioni di smaltimento, ex lett. z, dello stesso articolo, o ad attività di recupero, in senso tecnico-giuridico, secondo la lett. t) ed u) - . ma consapevolmente vuole che il fresato sia riutilizzato da parte del terzo con trattamenti non “ diversi dalla normale pratica industriale”, in conformità alla lett. c) dell’art. 184 bis cit. 52(sul punto v. infra) anche al fine di ricavarne dei vantaggi (v. retro).
.
Il produttore/detentore del fresato (come il terzo utilizzatore che lo riceve e ne acquisisce la proprietà: v. oltre ) - essendo conscio del valore intrinseco del materiale ceduto, da un punto chimico-fisico (per la sua idoneità ad essere miscelato con i costituenti originari e vergini del conglomerato bituminoso), merceologico (essendo riutilizzabile tal quale [v. oltre], previa sgrossatura e riselezionatura, come esaminato retro) e commerciale (risultando pacifico che nei mercati europei ed esteri, il fresato viene riutilizzato per la produzione di conglomerato bituminoso53) – lo trasferisce all’utilizzatore finale affinché lo impieghi per la produzione di nuovo conglomerato bituminoso (anche da riacquistare, magari scontato) per trarne dei vantaggi.
Il prodotto ottenuto (con l’impiego parziale del fresato, tal quale54, e con materie prime vergini) potrà essere rivenduto a terzi ma anche alla stessa ditta appaltatrice che ne ricaverà un duplice beneficio, rappresentato:
da uno sconto sul prezzo di acquisto del c. b., in quanto produttrice e fornitrice del fresato, a titolo di corrispettivo della cessione di quest’ultimo; e, al contempo:
dal risparmio di spesa relativamente alla gestione del fresato che, in assenza di riutilizzato da parte del terzo, avrebbe dovuto essere dismesso e smaltirlo in discarica (smaltimento spesso previsto, in termini generali ma modificabili, dai contratti di appalto che legano le società appaltatrici alle stazioni appaltanti)55.
7.4.1. Le prove sulla “certezza” del riutilizzo.
Quanto alla prova della certezza dell’utilizzo del fresato (per la sua qualifica di sottoprodotto), essa dovrà essere fornita dall’utilizzatore in base:
a) per es., ai contratti stipulati fra le parti (firmati e datatati) di trasferimento del fresato e/o, successivamente, di vendita del conglomerato bituminoso (prodotto finito);
b) alla documentazione relativa al conferimento e alla ricezione, in deposito, del fresato (v. retro);
c) ai DDT di trasporto in ingresso nella società terza che impiega il fresato e, in uscita, del prodotto finale;
d) all’effettivo svolgimento delle operazioni di trattamento minimo effettuate sul fresato, di cui si è detto (sgrossatura, riselezionatura del fresato);
e) ai reciproci interessi commerciali delle parti contraenti connessi al valore economico del fresato che trova un largo e diffuso impiego sul mercato comunitario ed estero, in quanto sostituisce parte delle materie prime vergini, riducendone l’impiego e prevenendo la formazione e smaltimento di residui produttivi da scarifica e fresatura dei manti stradali56.
7. 5.Terza condizione: “c) la sostanza o l'oggetto “(il fresato)” può essere utilizzato direttamente, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”
Nel merito, la ragione fondamentale per confutare la supposta natura giuridica del fresato come rifiuto (da destinare allo smaltimento in discarica) si fonda sulla considerazione che il materiale prelevato dal manto stradale (da fresatura o scarifica), per essere successivamente ri-utilizzato, ex art. 183, comma 1, lett. r, non necessita di venir sottoposto ad operazioni di “recupero” vere e proprie (in senso tecnico-giuridico, ex art. 183, comma 1, lett. t), ma semplicemente a trattamenti meccanici di sgrossatura e riselezionatura granulometrica che, secondo la più recente normativa, interna (v. art. 184-bis), e comunitaria (art. 5 della direttiva 2008) e in forza di una giurisprudenza che si è andata consolidando (citata sopra e oltre), non comportano la modificazione delle caratteristiche merceologiche e ambientali che il fresato già possiede, sin dalla sua origine o formazione.
Sul piano normativo, l’espressione “utilizzo diretto” cioè “senza ulteriori trattamenti” - deve essere considerata equivalente (o sinonima) della precedente formulazione, peraltro abbandonata dalla direttiva del 2008, di “trasformazioni preliminari”, intese come quei trattamenti che sono in grado di trasformare il residuo produttivo/rifiuto in materia prima secondaria o materia seconda (in base ad una terminologia già nota: v. la direttiva 91/156 CEE, che, nell’art. 3, par. 1, lett. b), i), invitava gli Stati a promuovere: “.. il recupero dei rifiuti, mediante riciclo, reimpiego…. ecc. ed ogni altra azione intesa ad ottenere materie prime secondarie”).
Questi trattamenti sono definiti, nell’art. 6 della direttiva, come “operazioni di recupero.. di taluni rifiuti specifici” che danno luogo a “sostanze o oggetti” i quali, a certe condizioni, vanno considerati “merce” (vicenda descritta con la nota formula di “cessazione della qualifica di rifiuto”).
La fattispecie (m. p. s. da trattamento del rifiuto) risulta ovviamente diversa da quella del “sottoprodotto” il quale nasce quale merce, sin dal momento della sua produzione, ricorrendone le condizioni “genetiche” dell’art. 5, della direttiva e oggi dell’art. 184-bis, senza necessità, per ciò stesso, di “operazioni di recupero completo” (da non confondere conseguentemente con gli interventi rientranti nella “normale pratica industriale”, che si applicano, peraltro, anche ai prodotti industriali (sul punto v. oltre).
In tema, la Commissione CE, con sua Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo, del 21 febbraio 2007, COM (2007) 59, del 2007, cit., ha optato per una portata estensiva dei c.d. trattamenti preliminari ammessi - ritenuti cioè compatibili con la nozione di sottoprodotto (e che pertanto non rientrano concettualmente nelle “trasformazioni preliminari” proprie del recupero completo) - specificando, fra l’altro, che possono essere svolti anche da soggetti diversi, rispetto al loro produttore.
In particolare, nel documento cit. si legge che “…. gli utilizzatori successivi e le aziende intermediarie possono partecipare alla preparazione del materiale per il suo utilizzo, svolgendo il tipo di operazioni descritte al punto 3.3.2” ove si afferma, in specie, che “ […] dopo la produzione, il sottoprodotto può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato…oggetto a controlli di qualità.., ecc. . “ 57.
In sintesi, secondo l’organo di governo dell’UE, la partecipazione (eventuale) anche di terzi al trattamento proprio della “normale pratica industriale”, se avviene nei limiti delle operazioni sopra menzionate, è pienamente consentita per l’attuale categoria giuridica di “sottoprodotto”.
Conclusivamente, come confermato – in linea di principio - da recente dottrina, “.. la nozione di «processo di produzione», al fine della possibile configurazione di un «sottoprodotto», non può essere intesa né in modo rigorosamente geografico (come impiego del sottoprodotto nel medesimo luogo di produzione) né come assoluta necessaria identità tra il titolare del processo produttivo, da cui origina il materiale, e il titolare del processo in cui avviene l’utilizzo…” 58.
Approfondendo il tema dei “trattamenti ammessi” – sul sottoprodotto - la stessa Commissione CE, nella Comunicazione 2007 cit., riconosceva l’ammissibilità di alcuni interventi, rispondendo ad una precisa domanda (“Il materiale può essere riutilizzato senza che sia previamente trasformato?) nei seguenti termini:
“ In alcuni casi questa condizione è difficile da valutare. La catena di valore di un sottoprodotto prevede speso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile: dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, ecc…. Nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto” (v. p. 3.3.2., a pag. 8, dello stampato).
Ancora più esplicitamente, detta Commissione, specifica che i trattamenti ammessi (dopo la produzione del sottoprodotto: essiccazione, lavaggio, raffinazione, ecc…) “… sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso l’utilizzatore successivo …” (nel caso lil terzo) “altre ancora sono effettuate da o intermediari”.
A questa apertura – che supera il limite posto dal termine “direttamente”, della lett. b), dell’art. 5, della nuova direttiva 98/2008 CE, stante il possibile intervento di terzi e conferisce un significato molto elastico ed allargato alla condizione che i trattamenti del sottoprodotto (v. oltre) siano “parte integrante del processo produttivo” di provenienza – l’Organo comunitario perviene riportando detti trattamenti (della “normale pratica industriale”) alla stessa fase sopra ricordata (come “parte integrante del processo industriale”), anche se delocalizzata presso altre ditte, con la motivazione (ragionevole) che si è in presenza, allo stato, “.. di processi industriali sempre più specializzati” (in cui questi trattamenti minimali vengono affidati a terzi, pur se “integrano” il processo di produzione).59
In definitiva, sul piano giuridico e pratico-operativo, si deve affermare che, del tutto legittimamente, il produttore trasferirà il sottoprodotto ad altre imprese (di utilizzatori ma anche di “intermediari”), senza reimmetterlo nel proprio processo di produzione (operazione ovviamente consentita quando utile, ma che potrebbe risultare tecnicamente impossibile o solo non conveniente) e queste ultime possono intervenire su di esso con operazioni che ricadono nella “normale pratica industriale” e possono essere considerate come “parte integrante del processo di produzione” di quel sottoprodotto, ex lett. c).
Ecco perché risulta sperata la formulazione del punto 2) della lettera p) dell’art. 183, novellato nel 2008 (il quale condiziona la sussistenza del sottoprodotto al fatto che esso sia impiegato “direttamente nel corso del processo di produzione”), in quanto, come già evidenziato, la giurisprudenza della CGCE e oggi, l’art. 184-bis, ammettono che esso possa anche essere immediatamente conferito a terzi (cui viene riconosciuto “l’’ulteriore utilizzo”), previi eventuali trattamenti che ricadano “nella normale pratica industriale” (come prospettato dalla Commissione cit.).
Né, in proposito, può sottovalutarsi il dato testuale secondo cui, per le ragioni appena espresse, la nuova direttiva non specifica, nella lettera a) del comma 1, dell’art. 5 – così come l’art. 184-bis - chi sia l’utilizzatore (potendo essere tanto il produttore che un terzo) ma si limita a richiedere che “l’utilizzo” sia “(è) certo”.
Conclusivamente, tanto l’art. 5 della direttiva che l’art. 184-bis non ricalcano la vecchia formula nazionale, secondo cui l’impiego del sottoprodotto “… avvenga direttamente nel corso del processo di produzione” (come si legge nell’art. 183 cit.), ma in modo più sobrio e “liberista” dispongono:
- (lett. c) dell’art. 5, “che la sostanza o l’oggetto è prodotta/o60 come parte integrante di un processo di produzione” (appunto quello di provenienza), e che:
- (lett. d) “l’ulteriore utilizzo61 è “certo” e “legale….” (così, identicamente le lett. a) e b) dell’art. 184-bis cit.)
In definitiva, secondo il diritto interno e comunitario:
- l’ulteriore utilizzo, in tutto o parte, deve essere certo e deve avvenire direttamente nello stesso o in un distinto processo di produzione o di utilizzazione da parte del produttore o di terzi, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale.62
7. 6. “Trasformazioni preliminari” e trattamenti ammessi.
Ma qual è il discrimine fra “trasformazioni preliminari” (o attività di recupero completo) e trattamenti ammessi, rientranti nella “normale pratica industriale”?
Per rispondere all’interrogativo occorre far riferimento, per ulteriori approfondimenti, innanzi tutto, alla più avanzata giurisprudenza della Suprema Corte italiana (cui è riservata istituzionalmente la interpretazione del diritto oggettivo vigente) che, nel cimentarsi sulle evidenziate distinzioni (operazioni di recupero vietate e trattamenti preliminari o minimali [del sottoprodotto] consentiti) ha ben scolpito, in alcune pronunce, sul pianto tecnico e giuridico, tale discrimine ovviamente con lo sguardo rivolto al giudice comunitario.
Si sono, di volta in volta, chiariti – all’interno di singole fattispecie - alcuni aspetti decisivi delle tematiche trattate come: il rapporto fra trattamenti praticati ed identità del materiale63 ; la natura e distinzione fra interventi minimali e operazioni di recupero vere e proprie, fornendo una casistica molto varia che richiama, per es., i trattamenti di cernita, selezione, decantazione64, frantumazione65, ecc.
Anche nella giurisprudenza amministrativa più attenta, si è, analogamente, affermato, per. es. che “…gli scarti legnosi dell’agricoltura e i residuati della lavorazione esclusivamente meccanica del legno, quali segature, tondelli, cortecce e cippato legnoso” non sono rifiuti bensì sottoprodotti, con ciò escludendo che interventi simili a quelli menzionati (cioè di tipo unicamente meccanico, quali segatura, fresatura etc., senza cioè l’uso di diluenti e/o solventi di natura chimica, come ad es. gli acidi o i collanti) possano essere considerati quali “trasformazioni preliminari”, rientrando, piuttosto, nella normale pratica industriale (così TAR Piemonte, 25 settembre 2009, n. 2292 e, in precedenza, Consiglio di Stato, sez. V, 19 febbraio 2004, n. 674, che qualifica sottoprodotto una sostanza chimica, il “DKR”, derivante dalla lavorazione di sostanze plastiche).
Per una sintetica ma esauriente panoramica dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di sottoprodotti, si veda, da ultimo: Consiglio di Stato, Sez. IV - 16 febbraio 2010, n. 888 (rintracciabile in www.giustizia-amministrativa.it), il quale, era chiamato a giudicare della qualifica giuridica dei residui del ciclo produttivo delle sanse vergini66.
Sul terreno legislativo, si segnala, ad esempio, che, nel recente D.L. 3 novembre 2008 n. 171 (“Misure urgenti per il rilancio competitivo del settore agroalimentare”, in GU del 4 novembre 2008 n. 258 ), l’art. 2-bis (inserito dalla legge di conversione 30 dicembre 2008 n. 205), in tema di biomasse combustibili relative alla vinaccia ed al biogas, formatosi nei processi di distillazione, ha considerato i trattamenti di tipo meccanico- fisico (quali la cernita e la frantumazione) e l’attività di lavaggio, distillazione ed essiccazione del tutto compatibili con il concetto di sottoprodotto67.
Non sfugge, peraltro, come gli indirizzi più aperti della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, volti a individuare ed ampliare i trattamenti ammessi e compatibili con la nozione di sottoprodotto - siccome rientranti, si direbbe oggi, “nella normale pratica industriale” – riecheggiano ed inverano, più in dettaglio, quei principi giurisprudenziali già manifestatasi in ambito comunitario, prospettati, come risaputo, dalla antesignana pronuncia della C.G.C.E. Palin Granit Oy ,18 aprile 2003, cit. 68
7.6.1. I trattamenti specifici (consentiti) del fresato.
Come si è dettagliato nella Parte I, il riutilizzo del fresato fuori sito, comporta le operazioni di sgrossatura (frantumazione), per la riduzione in pezzature adatte all’inserimento del materiale nell’impianto, con un diametro massimo di 25mm; la successiva riselezionatura ne garantisce una sua migliore e corretta distribuzione granulometrica oltre a una maggiore qualità del prodotto finito; la miscelazione con le materie prime (inerti e bitume).
Orbene, dopo quanto detto, non può dubitarsi che le descritte operazioni risultano di natura meccanica (frantumazione, selezione) e pertanto - per la giurisprudenza richiamata, sia ordinaria che amministrativa (v. retro) in casi identici di frantumazione, come in forza dei principi di diritto enucleati dalla sopravvenuta normativa positiva vigente - sono riconducibili ai trattamenti ammessi in quanto non incidono sull’identità del fresato e sulle sue caratteristiche fisico-chimiche e merceologiche che esso possiede fin dalla sua origine, da fresatura/scarifica (merita aggiungere, in proposito, che fra i regolamenti attuativi in corso di redazione, presso il Ministero dell’ambiente, ve ne sia uno, relativo al materiale da scavo, come sottoprodotto, ai sensi dell’art. 184-bis, comma 2, che, definendo, negli allegati, la nozione di “normale pratica industriale” vi riconduce le attività di selezione granulometrica, riduzione volumetrica, stabilizzazione a calce o cemento, asciugatura del materiale, riduzione di materiali antropici presenti nel materiale da scavo, ecc.).
Il fresato utilizzato dal terzo, anche se con una pezzatura diversa rispetto a quella d’origine, a causa della eventuale riselezionatura, funzionale al processo produttivo seguito, conserva tutte le proprietà che aveva all’origine (di “asfalto vecchio”) perché il trattamento meccanico, cui verrà sottoposto, e il mutamento di temperatura, che subisce, non ne modificano l’identità al momento della sua successiva miscelazione con la materia prima.
In ordine a quest’ultima operazione – di miscelazione - da quasi un decennio la Cassazione penale ha chiarito come il sottoprodotto, come qualsiasi altra sostanza, può essere impiegata da solo ovvero essere miscelata con altre materie prime (si è pertanto al di fuori della fattispecie relativa alla miscelazione dei rifiuti, vietata per legge, nei termini e con le modalità di cui all’art. 187 T.U.A.).
In tema, v., espressamente, Cass. pen. sez. III, 16 dicembre 2003 – ud. 29.10.2004, ric. Martinengo, secondo la quale - di fronte ad un procedimento produttivo che si articolava in due fasi, caratterizzate, quella principale, dall’impiego di materia prima c.d. “vergine” e, l’altra, quella secondaria, anche dall’utilizzazione di sottoprodotti di risulta della predetta fase, i c.d. “trucioli” o “matarozzi”, composti dallo stesso materiale plastico in precedenza impiegato, che previamente macinati vengono, unitamente ad altra materia prima, impiegati per la produzione dei tubi in plastica e, per le eccedenze, reimmessi nel mercato – afferma il seguente principio di diritto:
“Le operazioni di macinazione dei suddetti sottoprodotti non possono ritenersi di recupero di “rifiuti”, come tali soggette alle disposizioni di cui all’art. 33 del D.Lgs. n. 22 del 1997 (della cui formale inosservanza, a termini dell’accusa, si sarebbe reso responsabile l’indagato), avendo ad oggetto sostanze che, anche a termini della originaria definizione di cui all’art. 6, del D.Lgs. n. 22 del 1997, lett. a) del citato testo normativo (conforme alla Direttiva comunitaria 91/156) e senza necessità di ricorrere ai criteri di interpretazione autentica dettati dall’art. 14 della L. n. 178 del 2002 (contestati da parte della giurisprudenza, in particolare da Cass. 3^, 27 novembre 2002, Ferretti) per sospetto contrasto con la citata normativa comunitaria di base), possono escludersi dal novero dei “rifiuti”, così come delineato dall’originaria definizione”
A tale conclusione la S.C. perviene “… considerando che, dei materiali in questione, l’impresa produttrice non si e’ disfatta, non aveva l’intenzione di disfarsene (se e’ vero che, senza soluzione di continuità, li avviava ad un nuovo ciclo di lavorazione, del tutto analogo a quello precedente) ne’, comunque, aveva alcun obbligo, normativamente definito, di disfarsene”, senza incorrere in una applicazione riduttiva dell’originaria definizione normativa di rifiuto, derivante dalla direttiva comunitaria già citata”.
Il giudice di legittimità infatti motiva nel senso che: “… nell’escludere - nella surriferita macinazione - la natura di trattamento preventivo implicante operazioni di recupero, riferibili all’allegato C del D.Lgs. n. 22 del 1997, si è tenuto conto delle finalità di fondo perseguite dalla normativa in questione, sia nazionale, sia comunitaria, che sono quelle di evitare l’accumulo o la dispersione nell’ambiente delle sostanze derivanti dalle attività produttive, favorendone comunque l’impiego “pulito” sul luogo di produzione” (è appena il caso di aggiungere, a questo proposito, che la condizione del ri-utilizzo nello stesso processo produttivo di provenienza del sottoprodotto, come nel caso deciso, è stata abrogata dalla normativa sopravvenuta sin a partire dalla direttiva del 2008: v. retro).
Con specifico riferimento alla miscelazione la stessa Corte rileva: “ Ed a tale ultimo proposito le obiezioni del ricorrente P.M., traenti spunto dalla circostanza che l’impiego produttivo dei macinati richieda la “miscelazione” con materia prima “vergine… non colgono nel segno, atteso che tale commistione e’ un posterius rispetto al procedimento in considerazione, non implica alcun trattamento modificativo comporta solo l’unione, nella fase produttiva de qua, di sostanze del tutto omogenee sotto ogni profilo fisico-chimico” .
Sull’esclusione del fresato riutilizzato, come rifiuto (in quanto sottoprodotto), v. altresì, in termini, Cass. pen., sez. III, 10.03.2005, n. 9503, sul rilievo che: “.. Risulta pacificamente in atti, invero, che il materiale de quo veniva utilizzato - per preparare il conglomerato bituminoso, prodotto in quel luogo dalla menzionata ditta nelle condizioni in cui è stato trovato, senza cioè subire alcun trattamento; seppure certamente ricavato dalla triturazione di manti stradali rimossi, è dato per scontato e non è contestato neanche nella prospettazione accusatoria, infatti, che la triturazione di questi avvenisse altrove. Dunque nel piazzale della ditta CO.E.ST. era accumulato materiale che di sicuro veniva interamente utilizzato, sebbene con l'aggiunta di altri (inerti, bitume, acqua), nel “normale ciclo produttivo” del conglomerato bituminoso, del quale - quindi - il detentore non solo non si era disfatto, ma si guardava bene dal farlo, rappresentando comunque un valore economico, pur se probabilmente modesto, per la sua attività…”.
In definitiva, una volta che sia stato generato, da un processo produttivo che ha un diverso “scopo primario” un sottoprodotto - e per esso ricorrano tutte le condizioni di legge - la qualifica di merce o prodotto (che la legge gli riconosce) consente qualsivoglia suo impiego: a) da solo o b) con miscelazione con altre materie prime, omogenee o disomogenee che siano (essendo la sostanza o l’oggetto fuoriusciti dall’area di pertinenza della gestione dei rifiuti nella quale la miscelazione ha una disciplina specifica e restrittiva proprio in considerazione della diversa natura tipologica dei rifiuti pericolosi ovvero nell’ipotesi di miscelazione di rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi).
Si tenga conto, comunque, che sino ad oggi, la Suprema Corte, per un verso, ha deciso, in modo critico, molti casi (diversi dalla presente vicenda) in cui il fresato era stato trovato commisto a materiale estraneo (pezzi di cemento, terre, rocce, materiale ferroso, ecc.). E, per altro verso, non ha approfondito, per motivi cronologici, la nuova nozione di “ulteriore trattamento” ammesso dal’art. 184-bis, perché rientrante “nella normale pratica industriale.
Resta comunque fermo, per il Giudice di legittimità, il principio giuridico secondo cui qualsiasi residuo produttivo (e quindi anche il residuo da fresato o scarifica stradale), qualora soddisfi le condizioni del sottoprodotto (e, un tempo, dell’art. 14 del decreto legge 138/2002, sulla interpretazione autentica della nozione di rifiuto) non è rifiuto ma merce.
Anche la dottrina più accreditata, superando la condizione del trattamento “tal quale” del sottoprodotto, ha ritenuto, unitamente alla giurisprudenza, la ammissibilità di trattamenti limitati come la cernita, la selezione, la frantumazione, ecc. osservando come la tesi contraria e riduttiva "… potrebbe determinare, in concreto, una forte limitazione dell’operatività della norma, dal momento che, tra i trattamenti preventivi necessari per soddisfare i requisiti merceologici dei reimpiego, potrebbero includersi anche tutte quelle operazioni che, senza alterare lo stato fisico e chimico dei residui, siano comunque necessarie per adattarli, anche solo sotto il profilo delle caratteristiche dimensionali, al nuovo utilizzo” 69.
Osserva, in proposito, anche P. Fimiani 70 che “.. la negazione di una lettura restrittiva del concetto di trattamenti sembra essere il presupposto dell'articolo 2-bis del Dl17l/2008, inserito dalla legge di conversione 205/2008, che,” come ricordato, “sia pure per sostanze particolari quali le vinacce, ha considerato i trattamenti di tipo meccanico fisico (quali potrebbero essere la cernita o la frantumazione 71 e le attività di lavaggio, distillazione, ed essiccazione compatibili con il concetto di sottoprodotto72 .
I termini del dibattito sono ora mutati a seguito del Dlgs 205/2010, in quanto la lettera c) del comma 1 del nuovo articolo 184-bis prevede che "la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale".
Oltre ai casi di trattamenti ammessi in base ad una articolata e pluriennale giurisprudenza comunitaria e di legittimità, di cui si è fornita una consistente esemplificazione, la sopravvenuta normativa introduce un nuovo parametro che non è quello casistico (cioè relativo alla singola fattispecie e alla connessa decisione giudiziale) ma è un parametro concettuale (e dunque generale anche se legato alla prassi) connesso alla c.d. “normale pratica industriale” (con riferimento a quelle operazioni che sarebbero estensibili anche al sottoprodotto, senza ricadere nella attività di “recupero in senso tecnico-giuridico” del rifiuto).
Il criterio si presenta, di per sé, generale e certamente richiede un indagine settore per settore – per identificare dette pratiche – nonché periodo per periodo, trattandosi spesso di pratiche nuove e/o mutevoli, secondo i progressi della scienza e della tecnologia.
7.6.2. Precedenti giurisprudenziali sugli interventi riconducibili alla “normale pratica industriale”.
La formula innovativa, anche se dai contorni ancora sfumati, del trattamento consentito - perché facente parte della “normale pratica industriale” – come contrapposto all’intervento vietato, di tipo e con finalità recuperatorie (incompatibile con il principio secondo cui il sottoprodotto deve essere utilizzato direttamente, “senza alcun ulteriore trattamento”) - ha origini risalenti anche se non ha ricevuto, allo stato, un chiarimento formale (di tipo normativo).
Sembra potersi dire - sulla base del testo comunitario e nazionale, ex art. 184-bis, lett. c) (per il quale l’uso “diretto” è compatibile con trattamenti ricadenti nella “normale pratica industriale”) e in forza di un criterio logico e di ratio legis (in base al quale vengono assimilate le due fattispecie) - che detti trattamenti sono quelli e solo quelli (limitati/circoscritti) che interessano tanto il “prodotto” (già ottenuto dalla materia prima primaria) che il “sottoprodotto”, che risulta sostanzialmente utilizzabile “tal quale”73.
In definitiva, fra “i residui del processo produttivo” (da qualificare rifiuti, in linea di principio), possono, talvolta, generarsi dei materiali o sostanze da considerare veri e propri “prodotti” (successivamente definiti dalla stessa Corte “sottoprodotti” e non residui produttivi/rifiuti) che, di fatto, non necessitano di interventi di recupero.
Essi risultano – infatti - idonei ad essere direttamente utilizzati nel corso del processo produttivo di provenienza, o presso terzi, “tal quali”, fin dall’origine, subendo, se del caso, dei minimi trattamenti cui vengono sottoposti anche i prodotti industriali derivanti da materie prime (appunto il c.d. “normale trattamento industriale”).
Sulla nozione generale di “trattamento”, è merito della sentenza della stessa CGCE (del 15 giugno 2000, Arco, più volte cit.), di aver operato una utile distinzione fra i trattamenti o operazioni “di recupero completo” – che trasformano il rifiuto in “materia prima secondaria” o merce (cioè che determinano “la cessazione della qualifica del rifiuto”, ex art. 6 della direttiva 2008) - e i “trattamenti preliminari” (meglio di direbbe minimali) che interessano tanto i rifiuti che i “sottoprodotti”74
Ed invero:
a) i primi, incidono sull’identità del rifiuto, in quanto comportano, per effetto della loro esecuzione, che il rifiuto “acquisti le stesse caratteristiche e proprietà di una materia prima” (che ovviamente esso non possedeva in precedenza);
b) i secondi, invece, non rivestono tale efficacia modificativa poiché non trasformano la sostanza del residuo produttivo o la sua identità (il residuo pertanto non perde i suoi requisiti merceologici e di qualità ambientale che già possedeva, prima del trattamento:v, per tale distinzione, la lucida motivazione di Cass. pen. 23 dicembre 2008
, n. 48037 cit.)
Se ne (poteva e) può desumere, ai nostri fini, che:
1) se un residuo produttivo, per essere utilizzato, deve assoggettarsi a operazioni di “recupero completo” (definite dalla successiva giurisprudenza anche come “trasformazioni preliminari”, ma tale formula risulta equivoca tanto da essere abbandonata dalla direttiva 2008/98 CE, che si esprime, peraltro, in termini ancora molto vaghi, di “ulteriori trattamenti”), come definite, sopra, sub a), va qualificato un rifiuto (da recuperare o smaltire);
2) se, invece, il residuo può essere utilizzato tal quale, o con trattamenti minimi, che non incidono sull’identità della “sostanza od oggetto”, secondo l’ipotesi sub b), esso deve qualificarsi sottoprodotto, in quanto già possiede proprietà e caratteristiche sostanzialmente assimilabili o equipollenti a quelle di una materia prima, sin dal momento della sua venuta ad esistenza.
Ma quali sono questi trattamenti minimali?
Sono quegli stessi che, secondo il pensiero della Corte di giustizia cit., non risultavano idonei a modificare l’identità tanto del residuo-rifiuto (il quale, per ciò stesso, non mutava la sua definizione di rifiuto trasformandosi in m.p.s.) che, oggi, del residuo “sottoprodotto” (che conserva la sua identità).
Il criterio logico-giuridico resta il medesimo anche se, nel caso dell’art. 5 della direttiva, viene rivolto ad un residuo che già possiede le caratteristiche merceologiche e ambientali del prodotto: ci riferiamo dunque ai trattamenti minimali indicati (anche dalla Commissione CE) come, per es. la cernita, la selezione, la vagliatura, l’essiccazione, raffinazione, la triturazione, la frantumazione, la macinazione, ecc. (v. retro, par. 9.6.1) che ricadono – per quanto esposto - nella “normale pratica industriale”75.
In conclusione, si può affermare che:
1) la lett. b) del comma 1, dell’art. 5, della direttiva 2008, non accoglie alcuna formula precedente, così come la legge italiana (di “trattamento preventivo” o “trasformazione preliminare”) - che implicitamente respinge o supera - introducendo una nuova dizione e distinzione tra: (i) “ulteriore trattamento” (non consentito, perché incompatibile con la nozione di sottoprodotti) e (ii) trattamento rientrante “nella normale pratica industriale”.
Il primo (i): può assimilarsi, per quanto detto, alle precedenti nozioni di “trattamento o trasformazione preliminare” (sostanziale) ossia “operazione di recupero completo”: ben espresso, in lingua inglese, dalla nozione di further processing (tradotto, letteralmente come “ulteriore trattamento”)76
Il secondo (ii) (“normale pratica industriale” o “normal industrial practice) ricomprende tutti quei trattamenti o interventi (non di trasformazione o di recupero completo, secondo il lessico precedente) i quali non incidono o fanno perdere al materiale la sua identità e le caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale che esso già possiede - come prodotto industriale (all’esito del processo di lavorazione della materia prima) o come sottoprodotto (fin dalla sua origine, in quanto residuo produttivo) – ma che si rendono utili o funzionali per il suo ulteriore e specifico utilizzo, presso il produttore o presso ditte terze (anche in altro luogo e in distinto processo produttivo), come le operazioni: di lavaggio, essiccazione, raffinazione, selezione, cernita, vagliatura, macinazione, frantumazione, ecc. 77.
Il richiamo alla “normale pratica industriale” si spiega quindi – e si giustifica - quale utile criterio di identificazione dei “trattamenti ammessi” che, per quanto appena detto, sono sostanzialmente assimilabili a quelli a cui l’impresa sottopone anche il “prodotto industriale”, ricavato dalla materia prima lavorata, prima di immetterlo sul mercato, al fine di meglio adeguarlo/integrarlo alle singole e specifiche esigenze di produzione, di utilizzo o di commercializzazione (tale comunanza di trattamenti conferma che il “sottoprodotto” rientra nell’ambito merceologico dei “prodotti industriali”, pur con i dovuti distinguo e condizioni).
I trattamenti della “normale pratica industriale” possono dunque definirsi come il complesso di operazioni o fasi produttive che - secondo una prassi consolidata nel settore specifico di riferimento – caratterizza un dato ciclo di produzione di beni.
Essi, però, non devono incidere sull’identità e sulle qualità merceologiche - ambientali del “sottoprodotto”, qualità che sussistono, per definizione, sin dal momento della sua produzione (e dunque in una fase precedente).
In definitiva, il sottoprodotto:
a) non necessita di essere sottoposto al trattamento (recuperatorio), altrimenti non rivestirebbe le caratteristiche merceologiche e ambientali che lo connotano sin dall’origine, e che lo qualificano come tale, contrapponendolo e distinguendolo dal “rifiuto” (soggetto a trattamento di recupero, proprio perché, come “residuo produttivo”, non possiede dette caratteristiche di qualità).
Ma, al contempo, non è più richiesto, in modo rigoroso che:
b) il sottoprodotto sia utilizzato “tal quale” (come un tempo) in quanto sono permessi trattamenti minimi, rientranti nella “normale pratica industriale”, come sopra identificata.
Appare chiaro, comunque, che la formula usata nella direttiva e nel diritto interno si presenti ancora non del tutto specifica anche se tale difetto può risolversi in un vantaggio (che non deve essere sfuggito al legislatore comunitario) rappresentato dalla apertura ed elasticità del criterio adottato, idoneo a ricomprendere qualsiasi futura evoluzione tecnologica sia con riferimento ai trattamenti finali (“pratica industriale”) del produttore che a quelli dell’utilizzatore e degli intermediari.
Resta fermo che l’espressione “pratica industriale” ha una portata semantica assai ampia considerando che l’attività industriale abbraccia tutto il vasto comparto delle attività organizzate per la produzione di beni e servizi (si pensi, per es, all’attività edilizia o della costruzione e manutenzione delle strade; nonché al settore della trasformazione e/o valorizzazione dei prodotti agricoli: per es, all’attività distillatoria, dolciaria, cosmetica, ecc., al settore energetico connesso all’impiego delle biomasse, ecc. ).
Non può quindi darsi una lettura restrittiva o di natura eccezionale della previsione (art. 5 della direttiva e 184-bis del T.U.A.) secondo cui il sottoprodotto è destinato al riutilizzo all’interno del ciclo industriale (se è vero che deve rispettare la “normale pratica industriale”) perché, si ribadisce, i “cicli industriali più che settori specifici del mercato indicano un tipo di lavorazione di natura, appunto, industriale che può riferirsi alla produzione di beni, alla resa di servizi oltre che, come rilevato, alla valorizzazione dei prodotti agricoli.
In assenza di norme primarie o regolamentari che delimitino, con riferimento a singole tipologie di sottoprodotti, tali “normali pratiche industriali”, all’interprete e alla P. A. competente non resta che operare, soprattutto, sulla base delle indicazioni normative e giurisprudenziali, interne e comunitarie, richiamate tenendo conto, come previsto dalla legge, delle prassi industriali e commerciali (cioè dei” trattamenti non diversi dalla normale pratica industriale”).
Rifiutando, conseguentemente, un approccio applicativo della normativa sul sottoprodotto come se fosse di natura eccezionale o in deroga”, secondo una visione tradizionale della materia: quella di considerare i residui produttivi, di regola, come rifiuti o di presumerli tali salvo prova contraria).
In una rinnovata situazione – sociale e istituzionale - in cui, alla priorità dello smaltimento del rifiuto, si è sostituita, da più di un decennio, una impostazione volta alla precauzione, prevenzione e al recupero, riciclo, riutilizzo del residuo produttivo nonché alla responsabilizzazione del produttore dei beni e del produttore dei rifiuti (v. artt. 177 e ss. T.U. cit), può correttamente sostenersi che le norme introdotte sul sottoprodotto come sulle materie prime secondarie (o di “cessazione della qualifica del rifiuto”), ex artt. 184-bis e 184-ter, lungi dall’essere norme eccezionali - rispetto a quella sulla gestione del rifiuto, ex art. 183, comma 1, lett. a) - si presentano come disposizioni ordinarie, coesistenti e di pari grado rispetto a queste ultime, sicché non vale per le prime (sottoprodotto, m.p.s.), rispetto alle seconde (sui rifiuti) il principio del divieto della applicazione della norma eccezionale in via estensiva o analogica ( ex art. 14 Preleggi al codice civile).
Alla luce di quanto sopra esposto, con riferimento alla questione qui esaminata, può conclusivamente ribadirsi che i trattamenti praticati sul fresato –specificamente di selezione e riduzione granulometrica - non si differenziano né si allontanano dalla casistica giurisprudenziale sopra esaminata (che ha riconosciuto, nelle sue decisioni, la presenza di residui produttivi che, seppure selezionati e frantumati, sono da qualificare sottoprodotti). 78
In altri termini, le operazioni cui è sottoposto il fresato prima di essere “miscelato” con gli aggregati per la produzione del c. b., non sono idonee a modificarne la relativa identità merceologica e ambientale, ma individuano interventi che, riducendo la sua granulometria, lo rendono più facilmente trasportabile e utilizzabile nell’impasto occorrente al ciclo produttivo di destinazione.
Trattasi, pertanto, di operazioni (di riselezione e riduzione granulometrica) che non possono, in alcun modo, essere ricondotte a quegli “ulteriori trattamenti diversi dalla normale pratica industriale”, vietati dall’art. 184-bis, lett. c. per le ragioni tecniche e giuridiche esposte.
Gli interventi sul fresato, presso gli impianti che producono c. b., si risolvono, dunque, in un trattamento minimale ammesso, che non comporta la “trasformazione preliminare” del medesimo con sostanze chimiche dirette ad incidere sulla sua composizione per migliorarne “le qualità merceologiche e/o ambientali”. 79
PARTE V
Utilizzo del fresato e garanzia per l’ambiente e la salute.
8. La “legalità” dell’utilizzo del fresato, nel processo produttivo del terzo, ex art. 184-bis, lett. d: a) il rispetto dei requisiti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente; l’assenza di “impatti complessivi negativi sull’ambiente e/o sulla salute umana”.
Quanto alla ricorrenza, presso la società del terzo, dell’ultimo dei requisiti elencati dall’art. 184-bis, va rilevato che la lettera d) dell’art. 184-bis - laddove prevede che l’utilizzo del sottoprodotto deve essere “legale” - condensa in tale termine due distinti (e connessi) parametri normativi che devono concorrere per rendere legittimo (lecito) l’impiego del residuo produttivo (come sottoprodotto) e cioè:
a) l’utilizzo “specifico” cui è destinato il sottoprodotto deve avvenire nel rispetto dei requisiti riguardanti i prodotti e relativi alla protezione della salute e dell’ambiente, nonché:
b) in assenza di impatti complessivi negativi per l’ambiente e la salute umana.
La ratio sottesa a tale previsione risiede, evidentemente, nella finalità di evitare che l’immissione nel mercato e lo scambio dei sottoprodotti, avvenga contra jus, cioè in spregio alle normative interne anche tecniche (di natura civile, amministrativa e penale) che ne regolano la fabbricazione e circolazione.
Trattasi di norme adottate nel rispettivi settori commerciali, ambientali, sanitari, ecc., in considerazione del tipo di materiale scambiato (per es. pericoloso, fuori norma, scaduto) e/o per le modalità del suo circolare nel mercato come merce (mercato interno, comunitario, estero), poiché “…i sottoprodotti, rientrano nella categoria dei prodotti”, e la loro circolazione (per es., “… esportazione”) deve “.. conformarsi ai requisiti della legislazione comunitaria pertinente”80.
Con il riferimento, poi, agli impatti ambientali - da considerare ostativi alla qualifica di un residuo come sottoprodotto - essi vanno intesi come quelli che derivano dall’utilizzo specifico del sottoprodotto e che risultino “peggiorativi” rispetto agli impatti consentiti dalla legge o in via amministrativa da appositi provvedimenti di autorizzazione.
In mancanza, allo stato, di specifiche previsioni di legge o autorizzatorie, la “negatività” degli impatti può essere comunque valutata comparando gli impatti - sull’ambiente e/o sulla salute umana – del sottoprodotto con quelli derivanti dall’impiego del prodotto o materiale che esso è chiamato a sostituire.
Il legislatore ha quindi imposto per la configurabilità del sottoprodotto, in nome di una “condizione di generale legalità”, di verificare preliminarmente che quest’ultimo - oltre a rispettare tutti i “requisiti pertinenti” (cioè le prescrizioni normative, già poste e future) relative ai due distinti comparti, “riguardanti” “i prodotti” e “la protezione della salute e dell’ambiente” – non determini un peggioramento degli impatti ambientali derivanti dal ciclo di produzione a cui è destinato o dalla sua utilizzazione diretta (non come componente di un processo produttivo, ma come un sotto-prodotto “finito”, già commercializzabile “al dettaglio”).
Ebbene, così inteso il requisito della “legalità”, può sin d’ora affermarsi che il fresato stradale impiegato dal terzo deve soddisfare anche tale ultima condizione per la configurabilità di un sottoprodotto, in ragione:
(a) dell’utilizzo specifico cui è destinato,
(b) della sua composizione chimico-fisica e
(c) delle sue caratteristiche merceologiche e di qualità che - come si evince dalle norme UNI EN 13108 parte 01 e parte 08, lo includono tra una delle materie che compongono una specifica tipologia di c. b. (v. par. 1 ) - lo rendono idoneo a concorrere (con altre sostanze) alla formazione del conglomerato.
Ed, infatti, va qui ribadito che detto fresato è destinato all’impiego, in miscelazione con aggregati lapidei, leganti bituminosi ed eventuali attivanti chimici funzionali, nel ciclo produttivo di conglomerati bituminosi, come componente necessario per la formazione del prodotto finito (cioè il nuovo c. b.).
Tale modalità di impiego, giova rammentarlo, risulta pienamente ammissibile, ai sensi dell’art. 184-bis, il quale si limita ad imporre che il sottoprodotto venga utilizzato “direttamente” in un dato ciclo di produzione; richiedendo cioè che, ai fini del suo successivo utilizzo, il “residuo” non sia soggetto ad operazioni di trattamento (diverse dalla normale pratica industriale, di cui si è detto).
Ma non si rinviene nella norma medesima alcun divieto, per l‘utilizzatore, di “combinare”, nell’ambito del proprio ciclo produttivo, il sottoprodotto con altre sostanze o materie prime vergini, al fine di produrre la tipologia di merce, che l’azienda destinataria del residuo è abilitata a realizzare. E del resto, anche la giurisprudenza nazionale - seppur nel contesto normativo ante T.U.A. - ha avuto modo di chiarire la piena liceità dell’impiego di un sottoprodotto nel processo produttivo di destinazione, anche qualora tale utilizzo avvenga in miscelazione con altre sostanze/materie prime“81.
Detto in più chiari termini, nell’ipotesi di utilizzo del fresato qui esaminato, le operazioni di miscelazione (del sottoprodotto con altre sostanze/materie prime) non configurano giuridicamente interventi di trattamento che modificano le originarie qualità ambientali e merceologiche del residuo produttivo.
Quanto, diversamente, costituiscono - esse stesse - una fase essenziale del ciclo produttivo cui è destinato il fresato, poiché proprio tale combinazione di sostanze (del fresato con gli aggregati e i leganti), consente di dare origine ad una specifica tipologia di “prodotto finito”.
Sotto tale profilo deve rimarcarsi che l’inclusione del fresato stradale tra le “materie” occorrenti per la produzione di c. b. è espressamente prevista dalle citate norme UNI EN serie 13108.
Con riferimento, infine, alla verifica dell’assenza di “impatti complessivi negativi” derivanti dall’impiego del fresato nel processo produttivo del conglomerato, va segnalato che quest’ultima andrà accertata:
(1) sia comparando gli impatti derivanti da un ciclo produttivo che non prevede l’impiego del fresato stradale per la produzione di c.b. con un ciclo nel quale questi ultimo sia presente;
(2) sia confrontando gli impatti connessi all’utilizzo del conglomerato “finito” composto anche da fresato, con quelli derivanti dal conglomerato privo di tale residuo produttivo.
In relazione alla prima indagine, si rileva che l’impiego del fresato non è in grado di determinare alcun peggioramento degli impatti ambientali (e sulla salute umana) derivanti dal processo di produzione aziendale seguito in assenza di detto residuo.
Ciò tenuto conto, in primo luogo, delle modalità di deposito e utilizzo del fresato nell’ambito dell’impianto produttivo di c. b.: il fresato viene avviato al ciclo di produzione, solo qualora sia privo di sostanze estranee a quelle indicate dalla norma UNI EN 13108-08.
In ordine, invece, agli impatti derivanti dai conglomerati composti da fresato, basti rammentare, una volta di più, che i conglomerati così realizzati presentano le stesse caratteristiche prestazionali del conglomerato prodotto in assenza di tale residui, e ciò è comprovato dalle citate Norme UNI EN 13108 parte 01 e 08 che non operano alcuna distinzione di impiego per tale conglomerato rispetto a quello composto di sole materie vergini. Il conglomerato bituminoso che utilizza il fresato possiede le stesse caratteristiche merceologiche e ambientali del c. b. realizzato con materie prime vergini (inerti e bitume).
8.1. Conseguenze giuridiche della qualificazione del fresato come “sottoprodotto”.
Alla luce di quanto sopra esposto, appare evidente che, stante la qualifica di “sottoprodotto” da attribuire al fresato stradale, impiegato per la produzione di c. b., l’impianto che utilizza detto residuo non potrà in alcun modo essere qualificato come un nuovo impianto di “recupero di rifiuti”, distinto e diverso da quello che produce lo stesso conglomerato bituminoso con le sole m. p. vergini (cioè senza fresato), e, in quanto tale, soggetto ad una nuova autorizzazione, ordinaria o semplificata.
8.2. Garanzie ambientali e tutela della salute.
Le preoccupazioni di taluni Enti territoriali di controllo - circa la natura eventualmente pericolosa del fresato, vuoi per la eventuale composizione del materiale che potrebbe contenere catrame (tanto che il codice CER introduce una voce a specchio a seconda che le miscele bituminose contengano o meno catrame di carbone: codice 17 03 01, rifiuto pericoloso, di contro a quelle miscele che non lo contengono: CER 17 03 02, rifiuto speciale) vuoi per eventuali rilasci di altri contaminanti presenti sul manto stradale, in occasione della movimentazione (con eventuale spostamento degli inquinanti), deposito, reimpiego del fresato - richiedono un’autonoma riflessione e delle concrete iniziative di prevenzione da parte dei terzi utilizzatori.
Ebbene tali preoccupazioni – da tenere nella dovuta considerazione - suggeriscono di appontare volontariamente, in attesa di appositi decreti ministeriali, delle misure preventive e delle cautele, nell’uso del fresato-sottoprodotto.
In sostanza va garantita, nel pieno rispetto della “condizione” sub d) dell’art. 184-bis82, una gestione del sottoprodotto che assicuri: la sua tracciabilità; la conformità delle sue caratteristiche alle norme tecniche UNI EN 13108 (assenza di catrame); la verificabilità del processo produttivo (e dei trattamenti non diversi dalla normale pratica industriale); le modalità di arrivo nell’impianto, le procedura di accettazione, le modalità di deposito in attesa di lavorazione e di trattamento; le caratteristiche ambientali del conglomerato bituminoso finale; le garanzie ambientali e di tutela della salute (assenza di catrame), il controllo delle emissioni, scarichi, ecc.
Risposta alle questioni trattate.
In esito alla ricognizione svolta in ordine alle attività da cui origina il fresato stradale (e delle sue modalità di impiego nel ciclo produttivo del c. b.), sono in grado di rispondere al’interrogativo postomi, nei seguenti termini:
Il fresato originato dalle attività di costruzione e/o di manutenzione degli strati superficiali della pavimentazione stradale ed impiegato nel ciclo produttivo per la produzione di nuovo conglomerato bituminoso, presso appositi impianti di imprese terze (rispetto alle ditte che lo producono, e cioè le società appaltatrici dei lavori di costruzione e/o manutenzione stradale: v. Parte II)), è da qualificare giuridicamente come “sottoprodotto”, ai sensi dell’art. 184-bis, del D.lgs. n. 152/2006 e s.m.i., con le connesse conseguenze sotto il profilo delle modalità di gestione dello stesso, che sono quelle della circolazione della “merce” e non del rifiuto. A tale conclusione si deve pervenire in ragione:
della sua origine, poiché scaturisce direttamente dal ciclo di produzione/ rifacimento del manto stradale (v. Parte I), di cui “costituisce parte integrante”, non quale “scopo primario” di tale attività, ma quale residuo produttivo ulteriormente utilizzabile (lo “scopo primario” consiste nella realizzazione di una nuova pavimentazione stradale: v. Parte I), senza essere “disfatto”, in senso giuridico, dal suo produttore o detentore (v. Parte IV, par. 7.4) né sottoposto a trattamenti recuperatori (v. Parte IV, par.. 7.5 e ss.);
dalla dimostrata compresenza, nel fresato, di tutte “le condizioni” richieste dalla normativa comunitaria ed interna (art. 5 della direttiva cit. e 184-bis del T. U. A.) per la qualificazione del residuo produttivo come “sottoprodotto” (v. Parte IV, par. 7.1.) e cioè la certezza di un suo impiego, con una destinazione predeterminata, consistente nell’utilizzo dello stesso in miscelazione con aggregati lapidei e leganti bituminosi, per la realizzazione di nuovo conglomerato bituminoso (Parte IV.);
della possibilità di utilizzare il fresato “direttamente” nel processo produttivo del conglomerato (ivi, par. 7.5.), in assenza di “trattamenti diversi dalla normale pratica industriale” (ivi, par. 7.5. e ss.) del terzo (ivi, par. 7.3);
della piena “legalità” dell’utilizzo del fresato - (contrariamente all’opinione di taluni organi di controllo (v. Parte III), per la produzione di nuovo conglomerato bituminoso - derivante dal rispetto dei relativi requisiti merceologici e ambientali, dall’assenza di “impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana” (v. Parte V) nonché dall’osservanza delle prescrizioni tecniche dell’UNI EN 13108-8 (che considerano il fresato come uno dei componenti per la produzione del conglomerato bituminoso).
Roma 18 ottobre 2011 Prof. avv. Pasquale Giampietro
1 Sulla nozione giuridica di “sottoprodotto”, si rinvia alle più recenti ricerche di F. Giampietro (a cura di), La nuova disciplina dei rifiuti, Milano, 2011; L. Ramacci, Rifiuti: la gestione e le sanzioni, Piacenza, La Tribuna, 2011; S. Nespor e A. L. De Cesaris, Codice dell’ambiente, Milano, 2009; P. Giampietro (a cura di), La nuova gestione dei rifiuti, Milano, 2009; V. Paone, La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti, Il Sole24Ore, Milano, 2008; P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, Milano, 2008, ed ivi ampi ragguagli di dottrina e giurisprudenza.
2 In proposito merita rilevare, sul piano giuridico, che il termine “recupero” va letto, nel nostro caso (su ciò v. oltre), come sinonimo di “utilizzo o “ri-utilizzo (diretto) del residuo, in esame, e non nel senso proprio del T.U. ambientale, codificato con l’art. 181, come recupero di rifiuti (oggetto di promozione e incremento, secondo il programma dell’art. 183, comma 1, lett. t) ed u) Tant’è che, mentre per svolgere una attività di recupero, in questo senso specifico, occorre chiedere l’autorizzazione amministrativa o iscriversi in appositi albi, ex art. 208 T.U. cit., per il riutilizzo del fresato, a certe condizioni (su cui v. oltre), in forza delle quali non ricorre la nozione di rifiuto (da recuperare), l’attività è libera perché cade su un “residuo produttivo” da considerare, per legge, merce o prodotto (in tema cfr. Parte III e IV).
3 Bitume: "combinazione molto complessa di composti organici ad alto peso molecolare, contenente una quantità relativamente elevata di idrocarburi con numero di atomi di carbonio prevalentemente superiori a C25, ed alti rapporti carbonio-idrogeno. Contiene piccole quantità di vari metalli, quali nickel, ferro o vanadio. Si ottiene come residuo non volatile della distillazione del petrolio grezzo, o mediante separazione in forma di raffinato da olio residuo, in un processo di deasfaltazione".
4 E' importante sottolineare che, per quanto attiene alla catalogazione dei bitumi e del catrame, essi vengono considerati come sostanze e non come preparati (intesi come miscele intenzionali di composti chimici), e che il catrame, a differenza del bitume, viene classificato dall'Unione Europea come sostanza pericolosa. Questo fatto ha dei riflessi significativi a livello legislativo e nelle modalità e possibilità di produzione e di utilizzo.
5 In molti paesi sprovvisti di asfalto naturale come l’Inghilterra, in passato il catrame era diffusamente impiegato come legante per le pietre stradali, a volte anche in miscela con il bitume. Tale uso, ora del tutto cessato e praticamente sconosciuto in Italia, ha favorito la confusione con i termini asfalto e bitume nel linguaggio comune ed in molti ambienti professionali
6 Nell’attività di riutilizzo a caldo si ottiene una miscela costituita da: aggregati lapidei di primo impiego; fresato aggiunto in proporzioni variabili; bitume tradizionale o modificato; eventuali attivanti chimici funzionali.
7 Nell’attività di riutilizzo a freddo si ottiene una miscela costituita da: conglomerato di recupero frantumato a freddo e impastato con leganti (emulsione di bitume, o bitume schiumato e cemento); aggiunta d’acqua; aggregati lapidei di primo impiego.
8 Distinguiamo le seguenti modalità: in impianto fisso fuori sito: impianti di produzione del conglomerato bituminoso a caldo, sia continui che discontinui, opportunamente costruiti e resi atti al riutilizzo del fresato; impianti di produzione specifici per il riutilizzo a freddo, oppure tramite impianti per la produzione di misto cementato opportunamente modificati in sito.
impianto mobile in sito: appositi treni di riutilizzo permettono di riciclare la pavimentazione stradale sul posto sia a caldo che a freddo.
9 I principali vantaggi del riutilizzo in impianto fisso sono i seguenti: alta qualità tecnica del processo di riutilizzo: la frantumazione, il setaccio e la miscela degli aggregati risultano essere migliori, inoltre si ha la possibilità di effettuare maggiori analisi di laboratorio, e dunque controlli di qualità, sul materiale fresato e sul prodotto finale; il prodotto finale risulta essere più omogeneo e si ha la possibilità di uno stoccaggio temporaneo; si ha una maggiore flessibilità nella produzione di diverse miscele e dal punto di vista operativo.
Nel riutilizzo in-sito i costi di trasporto e gestione del materiale fresato sono ridotti al minimo e l’'impatto sulla viabilità in prossimità del cantiere risulta insignificante oltre che occasionale.
10 Peraltro è doveroso aggiungere che anche la stazione appaltante non resta sempre e comunque indifferente (rectius, estranea) alle vicende connesse alla gestione dei residui che possono scaturire dalle lavorazioni affidate a terzi. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, letta alla luce delle preziose indicazioni fornite dalla dottrina, emerge, infatti, che, qualora nell’esecuzione dell’appalto vengano generati residui configurabili come rifiuti (e non già come sottoprodotti) anche il committente potrà essere chiamato, in determinate ipotesi, a rispondere di eventuali violazioni della disciplina applicabile, pur non rivestendo, in senso stretto, la veste di “produttore” ex art. 183, lett. f. cit. che attribuisce tale appellativo solo all’esecutore materiale dell’attività che ha generato il residuo-rifiuto.
11 Nell’affrontare la questione relativa alla paternità giuridica dei rifiuti “da manutenzione” e “da demolizione” i Giudici della Suprema Corte, hanno invero elaborato due divergenti opzioni interpretative: per un verso, hanno statuito che "il committente di lavori edili o urbanistici (anche nel caso in cui egli sia stato allo stesso tempo proprietario dell'area su cui i lavori sono eseguiti) non può, per ciò solo, essere considerato responsabile della mancata osservanza, da parte dell'appaltatore, delle norme in materia di gestione dei rifiuti, non essendo derivabile da alcuna fonte giuridica l'esistenza, in capo al primo soggetto, di un dovere di garanzia della esatta osservanza delle su indicate norme da parte del secondo". Ciò in quanto, secondo la Cassazione, il committente non può essere qualificato tout court come produttore dei rifiuti , se non attraverso "una interpretazione quanto meno discutibile della nozione di produttore di cui all'art. 6, lett. b), D.Lgs. 22/1997" (cfr Cass. Pen. Sez. III, n.15165 del 1.4.2003; in senso conforme anche Cass. Pen. Sez. III n. 40618 del 19.10.2004).
Per altro verso, sulla scorta di un’interpretazione estensiva della definizione normativa di produttore di rifiuti, altre pronunce sono giunte a determinare il coinvolgimento, nella gestione dei rifiuti materialmente generati dall'appaltatore, anche del committente, ossia del soggetto nell'interesse del quale l'attività viene esercitata; considerando così come produttore dei rifiuti chi con la sua attività, non solo materiale, ma anche giuridica, abbia prodotto rifiuti (In questi termini Cass. Pen. Sez. III n. 4957 del 21.4.2000). Si veda, in particolare, P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente dopo il D.lgs. 4/2008, Giuffrè editore, 2008, pagg. 198 e ss.
Tale contrasto giurisprudenziale è stato però “ridimensionato” quanto agli effetti sull’applicazione della disciplina dei rifiuti grazie al contributo di taluni autori che hanno evidenziato come “la questione non è se produttore dei rifiuti sia solo l’appaltatore od anche il committente…” . Si tratta invece di stabilire se in caso di violazioni delle regole di gestione dei rifiuti dell’appaltatore, che resta il produttore del rifiuto, il committente possa o meno essere considerato co-responsabile con quest’ultimo (cfr. P. Fimiani op. cit.; v. anche con nota di E. Pomini, Contratto di appalto e gestione dei rifiuti: chi né è il produttore? in Riv. Giur. Ambiente, n. 2-2006, 282). E, in proposito, giurisprudenza e dottrina appaiono concordi nel sostenere che solo qualora il committente conservi un controllo giuridico sulle attività svolte dall’appaltatore, potrà essere dichiarato responsabile di eventuali illeciti, anche rispetto alla normativa in tema di rifiuti, commessi dall’appaltatore nell’esecuzione dei lavori.
12 Quella della società appaltatrice che produce il fresato a seguito della fase di fresatura degli strati superficiali ammalorati dell’asfalto; provvede poi al trattamento (riselezione e frantumazione) del fresato, ai fini del suo successivo utilizzo e, infine, impiega il fresato, da essa stessa generato, per produrre conglomerati bituminosi utilizzando appositi, propri impianti fissi o mobili con movimentazione e trasporto del fresato stesso, oppure in situ e cioè all’interno del cantiere.
13 I conglomerati così prodotti vengono poi venduti: alla medesima società appaltatrice che ha generato il fresato, la quale impiegherà il c.b. per l’esecuzione degli interventi manutentivi alla stessa affidati (per realizzare cioè la nuova pavimentazione bituminosa) oppure a terzi che potranno impiegarlo in luoghi (strade) diversi da quelle di provenienza.
14 Introdotto dal D.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, che ha riformulato, in più punti, la parte IV del T.U.A. (dedicata alla disciplina dei rifiuti) recependo le indicazioni della “nuova” direttiva rifiuti 2008/98/CE.
15 L’art. 5 della nuova direttiva rifiuti, qualifica come “sottoprodotto”: “Una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo può non essere considerato rifiuto ai sensi dell’articolo 3, punto 1, bensì sottoprodotto soltanto se sono soddisfatte le seguenti condizioni:
a) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzata/o;
b) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
c) la sostanza o l’oggetto è prodotta/o come parte integrante di un processo di produzione e
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana…”
16 Le principali tappe di tale evoluzione possono essere così sintetizzate: il primo intervento in materia da parte della giurisprudenza comunitaria si è avuto primo con la (ormai) nota sentenza “Palin Granit Oy” , nella quale la Corte, ha espressamente chiarito che “… un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di «disfarsi»..., ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari” (cfr. punto 34 - della sentenza cit.). Tale pronuncia – che pure ha avuto il merito di fornire una prima definizione di “sottoprodotto” e di far emergere, nella realtà giurisprudenziale, il tema critico della contrapposizione fra residuo-produttivo e residuo-merce - non si è però soffermata su un esame esplicito e puntuale del concetto di “trasformazione preliminare” anche se ha precisato gli ulteriori requisiti relativi alle modalità di gestione e di utilizzo dei sottoprodotti. Un approccio interpretativo di rilevante apertura verso il mercato del sottoprodotto si è registrato, successivamente, con pronunce del Giudice Comunitario nelle quali, affrontando tematiche economico-commerciali di notevole rilevanza, si è delineato, ex novo, lo statuto dei criteri fattuali e logico-giuridici su cui operare la distinzione fra rifiuto e sottoprodotto, su basi più realistiche e “sostenibili” per il mercato. Il riferimento è, in particolare, alla sentenza della Corte di Giustizia del 24 giugno 2008, causa C-188/07 in tema di olio pesante, sottoprodotto dalla distillazione, venduto a terzi per essere usato come combustibile, e dunque “commercializzato, a condizioni economiche vantaggiose, oggetto di una operazione commerciale, corrispondente a specifiche poste dall’acquirente”. (Tale sentenza è pubblicata in Foro italiano, 2008, Parte quarta, colonna 401, con nota di V. Paone); si vedano anche l’Ordinanza 15 gennaio 2004, causa C – 235/2002, Saetti e Frediani, in Racc. pag. I 1005, in materia di riutilizzo del coke da raffinazione di petrolio e le due sentenze dell’8 settembre 2005, causa C- 416/2002 e C- 12/2003, sul letame spagnolo. Il testo integrale delle ultime due sentenze è reperibile all’indirizzo www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com.
17 Si intende qui fare riferimento alla “Comunicazione interpretativa“ sui rifiuti e sui sottoprodotti” della Commissione CE, del 2007. Con tale documento, la Commissione ha optato, in specie, per la portata estensiva delle c.d. “trasformazioni preliminari” ritenute compatibili con la nozione di sottoprodotto arrivando ad affermare l’ammissibilità di trattamenti preventivi svolti anche da soggetti diversi, rispetto al produttore, del materiale (che dunque resta sottoprodotto).
In particolare nella Comunicazione cit. si legge che “…. gli utilizzatori successivi e le aziende intermediarie possono partecipare alla preparazione del materiale per il suo utilizzo, svolgendo il tipo di operazioni descritte al punto 3.3.2”. Tale punto, a sua volta, afferma: “ […] dopo la produzione il sottoprodotto può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, […] “
“… Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso l’utilizzatore successivo, altre ancora sono effettuate da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto”.
18 L’art. 183, comma 1, lett. p), introdotto dal cd. secondo correttivo del T.U.A. (il D.lgs. 4/2008), definiva i sottoprodotti come: “le sostanze ed i materiali dei quali il produttore non intende disfarsi ai sensi dell'articolo 183, comma 1, lettera a), che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni:
1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione;
2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito;
3) soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l'impianto dove sono destinati ad essere utilizzati;
4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione;
5) abbiano un valore economico di mercato”.
19 Da un raffronto tra il precedente e l’attuale regime giuridico dei sottoprodotti, delineato dall’art. 184-bis del TUA, si percepisce un chiaro favor legislativo nei confronti di quest’ultimi in ragione dell’avvenuto “ridimensionamento” di taluni requisiti prescritti dall’art. 183, comma 1, lett. p) del TUA, considerando che:
(1) a differenza del passato, non è più prescritto il requisito di un “utilizzo integrale” dei residui “sottoprodotti” e (2) per quanto riguarda la condizione della “certezza dell’utilizzo” quest’ultima non viene più vincolata o fatta risalire cronologicamente al momento della formazione del materiale, come pretendeva l’art. 183, comma 1, lett. p) al n. 2.
E ancora, grazie all’art. 5, della direttiva cit., si è assistito anche all’integrale soppressione di taluni previgenti condizioni costitutive. Non è più richiesto, infatti, che il sottoprodotto:
1. scaturisca (o derivi), in via continuativa, dal processo industriale;
2. sia impiegato direttamente e nel corso del processo di produzione (come rilevato sopra);
3. sia originato comunque da una dichiarata o formalizzata volontà del produttore (essendo sufficiente che il sottoprodotto sia previsto e voluto);
4. sia sottoposto a trattamenti consentiti da parte dello stesso produttore (rientranti nella “normale pratica industriale”), potendo tali trattamenti essere applicati dai terzi, anche non utilizzatori finali, purché ovviamente non si configurino come “trattamenti di recupero”, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. h). Per una disamina dei “rinnovati” elementi costitutivi della nozione giuridica di “sottoprodotto” si veda P. Giampietro, “Quando un residuo produttivo va qualificato “sottoprodotto” (art. 5, 2008/98/CE)?” in www.altalex.it.
20 E cioè:
a) la sostanza o l'oggetto e' originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non e' la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) e' certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l'ulteriore utilizzo e' legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana”.
21 La voce 7.6. del D.M. cit., così dispone:
22 E cioè venga impiegato per produrre, mediante impianti mobili ubicati nel cantiere, c.b. per la nuova pavimentazione bituminosa.
23 Nella prima formulazione del D.lgs. 152/2006, l’art. 183, comma 1, lett. n) individuava i sottoprodotti nei “materiali impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest’ultimo fine, per trasformazione preliminare si intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si renda necessaria per il successivo impiego i un processo produttivo o per il consumo”.
24 Cfr. Cassazione penale sez. III, 30 settembre 2008, n. 41839, che ha affermato la qualificabilità come “sottoprodotto” per i residui (consistenti in "slops" - miscele contenenti idrocarburi) originati da attività di manutenzione di petroliere e navi cisterna. In tal senso, si veda la più attenta dottrina: P. Fimiani, Relazione nell’incontro di studi, organizzato dal Consiglio Superiore di Magistratura, sul tema: I crimini ambientali: rifiuti, paesaggio e violazioni urbanistiche, tenutosi a Roma il 25/27 marzo 2009, pag. 5, rintracciabile in molti siti web.
25 Questa è la definizione di “manutenzione” che si legge nel Devoto Oli - Vocabolario della lingua italiana – 2008, Le Monnier, pag. 1619.
26 Tale “Introduzione” - non modificata dal recente correttivo 2010 del TUA (il D.lgs. 205/2010) - riproduce la “nota introduttiva” al Catalogo Europeo dei Rifiuti (Decisione 2000/532/CE), che così dispone: “Il presente elenco armonizzato di rifiuti verrà rivisto periodicamente, sulla base delle nuove conoscenze ed in particolare di quelle prodotte dall'attività di ricerca, e se necessario modificato in conformità dell'articolo 18 della direttiva 75/442/CEE. L'inclusione di un determinato materiale nell'elenco non significa tuttavia che tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza. La classificazione del materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE”.
27 In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza di Cassazione affermando che “l’inclusione di un residuo nel catalogo dei rifiuti non è determinante per qualificarlo tale, dovendo a tal fine concorrere anche la volontà del detentore o produttore di disfarsene…” (Cfr. Cass. Pen. Sez. III, 12.9.2008, n. 35235).
28 Ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a) per “rifiuto” si intende: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi”.
29 Costituente il testo normativo di riferimento per le cosiddette procedure “semplificate” di recupero, eseguibili cioè in assenza di autorizzazione, ex art. 208 del TUA, a seguito di una “semplice” comunicazione di inizio attività.
30 L’’All. 1, Suballegato 1, del D.M. 5.2.1998 e s.m.i., al punto 7.6.1., ndica tra i rifiuti recuperabili in deroga alle ordinarie procedure autorizzatorie anche quelli provenienti da”attività di scarifica del manto stradale mediante fresatura a freddo…” e tra le attività di recupero cui detti rifiuti possono essere destinati include, al p. 7.6.3, lett. a), la “produzione conglomerato bituminoso "vergine" a caldo e a freddo[R5]”.
31 Cfr. la cd. Sentenza ARCO, 15.6.2000, nei procedimenti riuniti C-418-97 e C-419-97.
32 In definitiva, il D.M. 5.2.1998 in questi casi, invece di individuare specifiche operazioni di recupero, per determinate tipologie di rifiuti, ha scelto di elencare singole attività o addirittura interi settori produttivi (come quelli dei materiali quotati in borsa merci, listini, mercuriali) per il quali non si rendono e rendevano necessari trattamenti di recupero ma erano e sono possibili riutilizzi diretti del materiale “tal quale” (circostanza che, come vedremo, caratterizza oggi il residuo-sottoprodotto”).
33 La quale stabiliva che il sottoprodotto non poteva essere “utilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello d’origine” – ma solo “direttamente” dal produttore nell’ambito del ciclo di provenienza”. Il testo di tale norma, dapprima veniva superato dalla versione del 2008 (del secondo correttivo) e successivamente la questione, risultava di fatto risolta, in senso liberale, dalla giurisprudenza della corte di Giustizia.
34 L’art. 183, comma 1, lett. p), introdotto dal cd. secondo correttivo del T.U.A (il D.lgs. 4/2008), definiva i sottoprodotti come: “le sostanze ed i materiali dei quali il produttore non intende disfarsi ai sensi dell'articolo 183, comma 1, lettera a), che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni:
1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione;
2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito;
3) soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l'impianto dove sono destinati ad essere utilizzati;
4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione;
5) abbiano un valore economico di mercato”.
35 Il cui testo suona: “è un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana…”.
36 Si veda P. Fimiani, “I nuovi criteri di individuazione del concetto di sottoprodotto” in Rifiuti – bollettino di informazione normativa, n. 183 (4/2011), op.cit.
37 Rileva E. Pomini, in “Rifiuti, residui produzione e sottoprodotti alla luce delle linee guida della Commissione Ce, della (proposta di nuova direttiva sui rifiuti e della riforma del Dlgs n. 152/2006: si attenua il divario tra Italia e Unione Europea”, in Riv. giu. amb., 2008, Il, 356, che " .. tale novità permette di superare, quanto meno con riferimento a questo specifico aspetto, il contrasto tra la normativa italiana e la ricostruzione del concetto di sottoprodotto cosi come elaborato dalle. istituzioni comunitarie, laddove queste insistevano nel circoscrivere il reimpiego dei residui di produzione alla sola ipotesi della loro utilizzazione comunque all'interno di un ciclo produttivo". Contrasto superato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e dalla nuova direttiva 98/2008 CE (v. oltre).
38 V. Corte di Giustizia, Sez, III, 18 dicembre 2007, causa C-:263/05.
39 Cfr., ex multis, Cass. pen, Sez. III, n. 31462/2008; id. n. 41839/2008, secondo cui: “ "non è necessario che il riutilizzo si svolga nell’identico luogo di produzione e sotto la direzione del medesimo imprenditore , potendo escludersi la natura di rifiuto pure per il bene che, avendo i requisiti di sottoprodotto così come indicati dal giudice comunitario, sia utilizzato anche in altre industrie e per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l'ha prodotto, cioè in un insediamento appartenente a soggetto diverso dal produttore originario ed in un ciclo produttivo diverso. Resta fermo il principio - affermato e più volte ribadito dalla Corte di Lussemburgo - secondo il quale la valutazione della configurabilità di un sottoprodotto non deve essere effettuata su ipotesi astratte, sussistente invece l'obbligo di procedere ogni volta all'analisi delle specifiche situazioni. di fatto". In precedenza, in senso favorevole al riutilizzo presso terzi: si erano espressi, in dottrina, V. Paone, I sottoprodotti tra diritto comunitario, Testo Unico e "secondo decreto correttivo", in Ambiente & Sviluppo, 2008,. VI, 517; E. Pomini, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti., op. cit. ; P. Giampietro, “La nuova gestione dei rifiuti” (a cura di), Milano, 2009, passim.
40 Direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, “relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”, pubblicata in G.U. n. L 312 del 22/11/2008 pag. 0003 – 0030.
41 In tal senso, cfr. CGCE 24 giugno 2008, causa-C188/07, con richiami alle più significative pronunce anteriori della stessa Corte.
42 Cfr. Cass. Pen. Sez. III, n. 41839/2008.
43Cfr. P. Fimiani, “I nuovi criteri di individuazione del concetto di sottoprodotto”, cit.
44 V. per es., l’Ordinanza della CGCE del 15 gennaio 2004, causa C – 235/2002, Saetti e Frediani, in Racc. pag. I 1005. Per una esauriente e aggiornata rassegna di queste sentenze, cfr. V. Paone, La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti, Milano 2008, passim.
45 In tema, per approfondimenti, mi permetto di rinviare a P. Giampietro. “I nuovi criteri di individuazione del “sottoprodotto” secondo il Giudice Comunitario”, in www.ambientediritto.it.
Da ultimo, Cfr. P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, Milano, Giuffrè, 2011, pag. 146
46 Si veda altresì la lett. b) dell’art. 5 della direttiva 98 cit. che recita recita: “ b) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”.
47 Condivide tale interpretazione P. Fimiani, op. cit., pag. 4.
48 Lo stesso P. Fimiani, op. cit. pag. 4 sottolinea: “ Va infine precisato che il riutilizzo va, comunque, inteso in senso oggettivo, e non temporale, con la conseguenza che lo stesso può essere anche differito nel tempo, purché sia certo”.
49 Per una esauriente e aggiornata rassegna di queste sentenze v. V. Paone, La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti, Milano 2008, cit. pagg. 191 e ss.
50 In proposito, va, peraltro, evidenziato che la mancata previsione, nell’art. 184-bis, di strumenti probatori da utilizzare tassativamente per dimostrare la ricorrenza di utilizzo certo del sottoprodotto è frutto di una tendenza normativa manifestatasi prima della Dir. 2008/98/CE e del D.lgs. 205/2010. Ed infatti, già a seguito delle modifiche apportate all’art. 183, dal secondo correttivo del TUA , il d.lgs. 4/2008, era stata ampliata la discrezionalità riconosciuta agli operatori economici, in merito alle modalità con cui provare la certezza e l’integralità dell’utilizzo. Tale ampliamento era espressione di una chiara ed esplicita volontà legislativa. Ed, infatti, nel riformulare l’articolo 183 (con il citato decreto correttivo), il legislatore, non ha riprodotto la previgente prescrizione (di cui alla lett. n., penultimo periodo dell’originaria versione dell’art. 183) che prevedeva l’obbligo di attestare la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo …” tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo”. La scelta definitiva è stata, quindi, quella di non limitare gli strumenti probatori a disposizione degli operatori economici, vincolandoli all’utilizzo esclusivo di dette autocertificazioni.
Peraltro, la possibilità di provare, con ogni mezzo idoneo, la certezza dell’utilizzo, a seguito dell’abrogazione della suesposta previsione normativa è stata riconosciuta anche in sede giurisprudenziale: si veda, in tal senso, la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III Pen., del 10 luglio 2008, n. 35235, con la quale i giudici di legittimità nel cassare con rinvio una ordinanza del Tribunale di Terni che aveva escluso la qualificabilità come sottoprodotti di taluni scarti della lavorazione di pavimenti di linoleum, ha affermato che “il giudice del rinvio dovrà riesaminare la fattispecie tenendo conto dei principi prima esposti ed in particolare, ai fini della valutazione della prova del riutilizzo, non potendo più tenere conto dalla mancata adozione dell'autocertificazione, dovrà esaminare la documentazione prodotta dall'indagato a favore della propria tesi…” (in www.ambientediritto.it).
51 Né ha l’obbligo, per legge, di disfarsene. Quanto all’eventuale clausola del contratto di appalto che gli imponesse di farlo (cioè di smaltire il fresato in discarica) essa sarebbe sempre modificabile, in base una diversa e più ponderata volontà contrattuale delle parti tanto più che, detta clausola, allo stato della legislazione vigente, appare nella sua rigidità contra legem con riferimento ai principi di prevenzione, nella formazione del rifiuto e di recupero del rifiuto (oltre che della responsabilità del produttore del rifiuto) sanciti nelle nuove disposizioni di cui al sistema degli articoli 178- 181 bis del T.U.A.
52 Si vedrà, a momenti, che il fresato – nella vicenda ipotizzata - non viene sottoposto a “trattamenti recuperatori”, in senso giuridico, da parte del terzo.
53 A riprova dell’ormai ampia diffusione, nel mercato comunitario, di conglomerati bituminosi prodotti mediante l’impiego del fresato, basti considerare che la normativa europea di marcatura CE indica espressamente tale materiale (il fresato) tra quelli di cui può essere composto il c. b. In particolare, si veda la norma UNI EN ISO 13108:2006.
54 Sulla riconducibilità delle operazione di trattamento praticate sul fresato, nella normale pratica industriale, v. oltre.
55 In tal senso, al fine di potenziare il riutilizzo del sottoprodotto, di contro allo smaltimento (del fresato), in ossequio ai principi della prevenzione nella formazione dei rifiuti e del riciclo e riutilizzo del sottoprodotto, la menzionata clausola contrattuale, che si pone contro la disciplina interna e comunitaria sul sottoprodotto, andrà soppressa omessa o sostituita nelle ipotesi in cui il fresato sia oggetto di riutilizzo quale sottoprodotto.
56 Per un approfondimento sull’effettiva diffusione nel mercato europeo ed italiano del fresato quale componente del c.b., del suo valore commerciale e dei valori monetari del mercato indotto dal suo reimpiego, si veda, tra gli altri, lo studio dell’Università degli studi di Padova - Facoltà di Ingegneria – a firma dell’Ing. Nicola Baldo – “Tecniche di riciclaggio delle pavimentazioni stradali” reperibile sul web all’indirizzo:ww.webalice.it/orrione/File%20pdf/Work/Corsi/STRADE%20FERR.%20AEREOPORTI%202/RICICLAGGIO.pdf (si veda in particolare la tabella a pag. 11).
Sul sito EAPA.org (European Asphalt Pavemenet Association), il principale referente e fonte più autorevole del settore, sotto la voce “asphalt” sono riporti, anno per anno, gli “Asphalt in figures” ovvero i documenti statistici elaborati dall’Associazione che, partendo dall’analisi dei singoli Paesi, arriva ad una posizione unitaria europea. Da tale sito si apprende che l’utilizzo del “fresato d’asfalto”, in Europa, è praticato da altre 30 anni. Le tecnologie più sofisticate sono state messe a punto soprattutto in quei paesi dove la carenza di materie prime è notevole (Olanda). La pratica tuttavia è diffusa ovunque, perché ormai, il problema del risparmio delle risorse del pianeta è una priorità non rinviabile e riguarda tutti i paesi industrializzati. Detto sito riporta numerosi documenti tecnici che certificano l’uso di tale prodotto e ne promuovono le tecnologie di riutilizzo (citiamo a titolo di esempio: Recycling of asphalt mixes …. -2004, Asphalt paving industry- 2009, Arguments to stimulate the governmet to promote asphalt reuse and recycling-2008, ecc), con un chiaro riferimento al reimpiego del fresato, ovviamente in maniera corretta.
In Europa, secondo in dati EAPA si producono ogni anno oltre 320 milioni di ton di nuovo asfalto (in calo costante da almeno 3 anni) mediante circa 4.000 impianti sparsi sul continente e si recuperano, attraverso la fresatura, mediamente almeno 50 milioni di conglomerato bituminoso di recupero, potenzialmente tutto riciclabile nello stesso prodotto da cui proviene ovvero il nuovo asfalto per pavimentazioni stradali.
Sul sito EAPA.org sotto la voce “asphalt” sono riporti anno per anno gli “Asphalt in figures” ovvero i documenti statistici elaborati dall’Associazione che partendo dall’analisi dei singoli paesi arriva ad una posizione unitaria europea. Riportiamo di seguito la tabella del riciclaggio relativa all’anno 2009
Come si può notare, l’Italia, subito dopo la Germania, è il paese che produce più fresato in assoluto 12.000.000 di t (da anni non si fanno più nuove costruzioni stradali ma si continua a lavorare su quelle esistenti che, essendo sottoposte a notevole traffico, subiscono una maggiore usura e necessitano di rifacimento mediante anche asportazione del vecchio). Ma, nonostante questa grande disponibilità di materiale, se ne recupera, al massimo, il 20%, contro l’82% della Germania. Anche l’Olanda riutilizza moltissimo il fresato, il 74% su una disponibilità di 4500.000 ton. (notevole per un paese grande quanto la Lombardia). Con percentuali molto alte troviamo altresì l’Austria, con l’ 85% e la Svezia, con il 75%
L’Italia, con il suo scarso 20% di utilizzo, si trova agli ultimi posti della classifica stilata delle EAPA, seguita, tra i peggiori riutilizzatori, solo dalla Norvegia (12%), dalla Polonia(5%) e dalla Turchia (3%). Ma è da dire che la disponibilità di fresato di questi ultimi paesi è assai poco consistente.
Utilizzo del conglomerato bituminoso di recupero nella produzione di conglomerato bituminoso a caldo (Fonte EAPA anno 2009)PAESECONGLOMERATO BITUMINOSO DI RECUPERO DISPONIBILE (t)UTILIZZO NELLA PRODUZIONE DI CB A CALDO (%)Austria400.0085Belgio1.300.00057Cecoslovacchia1.500.00020Croazia13.000-Danimarca307.00055Finlandia500.000-Francia7.053.00041Germania14.000.00082Gran Bretagna4.000.000-Ungheria3.00066Islanda30.000-Irlanda100.00030Italia12.000.00020Olanda4.500.00074Norvegia763.00012Polonia1.100.0005Romania13.00060Slovenia15.36030Spagna1.850.00052Svezia1.000.00075Svizzera1.200.00050Turchia1.069.6003
57 Ed ancora, quanto all’ubicazione e agli autori degli interventi, si ribadisce, con le parole della Commissione cit., che : “….. Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre.. presso l’utilizzatore successivo, altre ancora sono effettuate da intermediari.”
58 Così, da ultimo, Garzia, “Corte di Giustizia, residui di produzione e nuova definizione di sottoprodotto nel «correttivo»”, in Ambiente e Sviluppo 4/2008, p. 344.
59 Per la rilevanza decisiva di questi argomenti, si ritiene utile riportare, nella sua interezza, il passo della Comunicazione cit., richiamata, per stralci, nel teso:” La catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile: dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità ecc. Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso l'utilizzatore successivo, altre ancore sono effettuate da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione, non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto”.
Con riferimento alla nozione di “parte integrante del processo produttivo”, cui devono appartenere i trattamenti minimi ai quali sottoporre eventualmente il sottoprodotto, la Commissione distingue due ipotesi:
a) quella in cui “la preparazione per il riutilizzo avviene nel corso del processo di produzione in corso” (ed in tal caso essa evidenzia la necessità di accertare, in particolare, “la natura e portata delle operazioni necessarie” [che ovviamente non devono essere di tipo “recuperatorio”: nota dello scrivente] e “la integrazione di queste operazioni nel processo di produzione principale”;
b) l’ipotesi in cui il materiale, per essere ulteriormente preparato, venga trasferito altrove (presso terzi). In tale ultima evenienza, la stessa Commissione osserva che “… Se il materiale, per essere ulteriormente trasformato” (meglio si direbbe trattato, visto che si deve rispettare la sua identità merceologica: nota dello scrivente), “viene spostato dal luogo o dallo stabilimento in cui è stato prodotto, è verosimile ritenere che le operazioni necessarie alla sua trasformazione non facciano più parte dello stesso processo di produzione. Pur tuttavia, in presenza di processi industriali sempre più specializzati, questo elemento da solo non basta a costituire una prova. Gli utilizzatori successivi e le aziende intermediarie possono partecipare alla preparazione del materiale per il suo riutilizzo, svolgendo il tipo di operazioni descritte”.
In conclusione, sembra di capire che dette operazioni (esterne o fuori dallo stabilimento) possano essere considerate, allo stesso modo, “parte integrante del processo produttivo di provenienza del materiale o sostanza”, attesa la “elevata specializzazione” dei processi produttivi e le tante forme di outsourcing e di delocalizzazione a terzi di alcune fasi dell’identico processo produttivo, ad una condizione: sempre che i trattamenti praticati dai terzi abbiano la stessa natura minimale (e non recuperatoria) descritta nel par. 3.3.2. della Comunicazione cit. (e cioè che, dopo la produzione, il sottoprodotto “può essere, lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolare o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere soggetto a controlli di qualità, ecc. “).
60 E non “utilizzato/a” come parte integrante… ecc. .
61 Da parte del suo produttore o di terzi.
62 Con l’intesa che questi ultimi interventi possono essere praticati dal produttore, dall’utilizzatore o dall’intermediario, come indicato dalla Commissione CE, citata sopra.
63 Si veda, in proposito, Cass. pen. Sez. III, 4 dicembre 2007, n. 14323, che, nell’affrontare incidentalmente la questione della qualificazione giuridica di taluni materiali derivanti da attività di scavo, ha osservato che per “trasformazioni preliminari” si intendono “trattamenti in grado di far perdere al sottoprodotto la sua identità ovvero siano necessari per un suo successivo impiego in un processo produttivo o per il suo consumo”.
64 Cfr. S.C. del 7 novembre 2008, n. 41839, secondo la quale : “La legge attualmente prescrive, come si è detto, che i sottoprodotti non debbono essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati, dovendo possedere tali requisiti sin dalla fase della produzione”.
“Secondo la precedente formulazione dell’art. 183, lett. n), del D.Lgs. n. 152/2006 – invece – l’utilizzo del sottoprodotto doveva avvenire “senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo” e doveva intendersi per trasformazione preliminare “qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo”.
“La “cernita o la selezione”, inoltre, venivano considerate operazioni di recupero, ai sensi dell’art. 183, lett. h), del D.lgs. n. 152/2006 e questa Corte ha considerato tali attività sintomatiche di attività di gestione di rifiuti (vedi Cass. sez. III, 09.10.2006, n.3382, P.M. in proc. Barbati; 7.8.2007, n.32207, Mantini)”. Diversamente, però – continua la Suprema Corte - “…. Il D.Lgs. n. 4/2008:
- non contiene più l’anzidetta definizione del concetto di trasformazione preliminare;”
“- esclude la sottoponibilità della sostanza a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari, correlando però detta esclusione alla successiva utilizzabilità, nelle stesse condizioni di tutela ambientale;”
“ - non include più le operazioni di cernita e/o selezione tra quelle di recupero, sicché tali attività di trattamento preventivo (consuete nella pratica industriale) – alle quali ben può assimilarsi quella di decantazione (chiarificazione di una sostanza liquida mediante separazione per sedimentazione) che caratterizza la vicenda in esame – qualora non siano finalizzate a rendere successivamente utilizzabili la sostanza o il materiale, nelle stesse condizioni di tutela ambientale, potrebbero ritenersi ormai compatibili con la nozione di “sottoprodotto” accolta dalla legislazione italiana….”.
65 V. Corte di Cassazione, sez. III, penale, 6 novembre 2008, n. 41331 (in tema di terre e rocce da scavo considerate sottoprodotti) la quale, afferma che, tra le operazioni di trattamento preliminare ammesse, rientrano anche gli interventi di frantumazione delle terre e rocce che non incide sulla loro identità merceologica o di qualità ambientale.
Analogamente cfr. Cass. pen. 23 dicembre 2008, n. 48037, secondo cui, in caso di frantumazione e lavaggio di materiale lapideo (sfridi, cocciame e peloni, cioè testate inutilizzabili derivanti dalla segatura dei blocchi di marmo) non si compiono operazioni di “trasformazione preliminare” perché non si tratta “di trattamenti che mutino l’identità merceologica del materiale, idonei cioè a far perdere al sottoprodotto la propria identità, ossia le proprietà possedute e le caratteristiche merceologiche di qualità”.
66 In proposito si v. anche P. Fimiani, “La tutela penale dell’ambiente”, Giuffré editore, 2008, pag. 102 e ss., dove l’elaborazioni dei giudici comunitari in tema di “sottoprodotti” vengono esaminate in raffronto al percorso giurisprudenziale interno (sino alle pronunce dell’anno 2007).
67 Vale la pena ricordare, ancora, che l’art. 7, comma 3, del DM 2.5.2006, attuativo della prima versione dell’art. 186 del T.U. ambientale, dichiarato successivamente inefficace per vizi di forma – il quale escludeva che i fenomeni di essiccazione ed evaporazione delle acque dalle terre e rocce fossero definibili come “trasformazioni preliminari” - già prevedeva che: “Nella fattispecie di terre e rocce da scavo entrate in contatto con l'acqua, l'attività di essiccazione mediante stendimento al suolo ed evaporazione, non e' invece da considerarsi una trasformazione preliminare, ai sensi e per gli effetti dell'art. 186, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.”
68 Secondo cui “… un bene, un materiale o una materia prima, che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione, che non è principalmente destinato a produrlo, può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di «disfarsi»..., ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari” (cfr. punto 34 - della motivazione cit.).
69 In tal senso E. Pomini, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti, etc., op. cit. Si veda anche L. Prati, La nuova definizione di sottoprodotto e il trattamento secondo “la normale pratica industriale”, in http://lexambiente.it (sito diretto da L. Ramacci), il quale, fra l’altro, suggerisce, in via generale, di non circoscrivere eccessivamente il criterio della “normale pratica industriale” per non arrivare ad una sostanziale abrogazione dell’art. 184-bis e di tener conto che la stessa Corte di Giustizia (sentenza Niselli) ha rilevato che molti metodi di trattamento indicati negli allegati della direttiva sui rifiuti, con riferimento alle attività di recupero, possono applicarsi perfettamente anche a un prodotto. Nel merito l’attento Autore evidenzia che le attività della pratica industriale possono essere indifferentemente condotte con “un sottoprodotto piuttosto che con una materia prima, un intermedio od un prodotto, senza che ciò comporti aggravi sotto il profilo dell’impatto ambientale”. Rientrano, invece, nelle operazioni di recupero (del rifiuto) quelle operazione che di regola sono effettuate esclusivamente sui residui produttivi ai fini di renderli compatibili, sotto il profilo ambientale (per es. innocuizzazione) o merceologico, “con i processi produttivi propri delle imprese utilizzatrici”.
70 Nell’articolo apparso ella rivista Rifiuti, n. 193/2011, pag. 2 e ss.
71 Riguardo alla disciplina delle terre e delle rocce di scavo, escluse dalla disciplina dei rifiuti purché sottoprodotti, Cass. pen. Sez. 1Il, n. 41331/2008 ha affermato che l'attività di frammentazione non può essere di per se stessa intesa come trasformazione preliminare, in quanto l'attività di macinatura delle terre e rocce da scavo non determina di per se stessa alcuna alterazione dei requisiti merceologici e di qualità ambientale.
72 Così recita la norma: "1. Le vinacce vergini, nonché le vinacce esauste ed i loro componenti, bucce, vinaccioli e raspi. derivanti dai processi di vinificazione e di distillazione, che subiscono esclusivamente trattamenti di tipo meccanico fisico, compreso il lavaggio con acqua o l'essiccazione, destinati alla combustione nel medesimo ciclo produttivo sono da considerare sottoprodotti soggetti alla disciplina di cui alla sezione 4 della parte Il dell'allegato X alla Parte quinta del Dlgs 3 aprile 2006, n. 1522. È sottoprodotto della distillazione anche il biogas derivante da processi anaerobici di depurazione delle borlande della distillazione destinato alla combustione nel medesimo ciclo produttivo, ai sensi della sezione 6 della parte Il dell'allegato X alla parte quinta del citato Dlgs 152 del 2006".
73 Salvo l’aggiunta di “interventi” finali, ricadenti, per l’appunto, nella “normale pratica industriale”, comuni ad entrambi.
74 In tal senso, v. G. Amendola, Gestione dei rifiuti e normativa penale”, Milano 2003, pag. 120 che osservava: “Devesi ritenere che non siano da considerare rifiuti solo quei residui di cui sia fornita la prova… di un diretto…. reimpiego… senza necessità di alcun trattamento preventivo ovvero con un trattamento preventivo minimo tale da non sfociare in operazioni di recupero… o di smaltimento”.
75 Tale distinzione (trattamenti recuperatori/trattamenti minimali non recuperatori) era stata implicitamente codificata dal legislatore nazionale. Basti pensare all’art. 14, del d.l. 138/2002, convertito in legge n. 178/2002.
Lo stesso era a ripetersi per l’art. 183, comma 1, lett. n), prima versione, T.U.A. secondo cui “i sottoprodotti, impiegati direttamente dall’impresa che li produce” ovvero presso terzi (cioè “.. commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa, direttamente per il consumo o per l’impiego”), non devono essere sottoposti ”…a trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo”.
Nella definizione di tale nozione (trasformazioni preliminari) il legislatore del 2006, in linea con quanto sopra esposto, chiarisce che sono tali “ qualsiasi operazione che fa perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede e che si rende necessaria in un successivo impiego in un processo produttivo o di consumo”.
Ragionando, contrario sensu, sono ritenute ammissibili forme di intervento minimale che non hanno tale effetto di modificazione delle caratteristiche merceologiche e ambientali cit. (già ricorrenti nel materiale).
76 Fermo restando che, nella nuova direttiva, la nozione di “recupero” si allarga a ricomprendere, fra l’altro, anche il “riciclaggio” e la “preparazione per il riutilizzo”, ex art. 3, nn. 15, 16 e 17.
77 V. par. 3.3.2. della Comunicazione della Commissione 2007 cit.
78 A tal proposito, vanno confermate le modalità esecutive delle fasi cui viene sottoposto il fresato prima di essere miscelato con gli altri componenti del conglomerato (già esaminate al precedente par. 3.4): il fresato normalmente viene, dal terzo utilizzatore, prima premescolato a mezzo di una pala meccanica poi frantumato mediante un apposito frantoio, quindi riselezionato in classi granulometriche. Tali operazioni sono svolte senza l’aggiunta di additivi o sostanze chimiche, ma solo mediante strumenti (come il frantoio) che lasciano sostanzialmente inalterate le caratteristiche e le proprietà originarie del fresato.
79 Sul tema, cfr. P. Giampietro, Quando un residuo produttivo si qualifica sottoprodotto (e non rifiuto) secondo l’art. 5 della direttiva 2008/98/CEE” in Lexambiente.it, a cura di L. Ramacci, dell’ 8 novembre 2010. Quanto ai “trattamenti” minimali, in assenza di qualsivoglia previsione contraria e tenuto conto delle indicazioni fornite, prima dalla Commissione UE, con la “Comunicazione” del 21.2.2007 (sopra evocata) e poi espressamente dalla norma comunitaria (art. 5, par. 1, lett. b), essi possono essere compiuti tanto dal produttore che dal terzo “utilizzatore” del sottoprodotto, purché siano riconducibili “alla normale pratica industriale”.
80 Così recita il 22° “considerando”, primo alinea, in fondo, della direttiva 2008/98/CE.
81 Cfr. Cass. Sez. III del 16.12.2003 (Ud. 29/10/2004) n. 47904: nella fattispecie affrontata dalla Suprema Corte è stata affermata la piena legittimità dell’impiego dei “sottoprodotti” consistenti in trucioli di plastica in miscelazione con altra materia prima ai fini della produzione di “tubi in plastica”.
82 Che detta: “…d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.