Con l’emanazione del D.L.vo 36/2003 il Governo Italiano avrebbe inteso recepire, sia pur tardivamente, la Direttiva 1999/31/CE (c.d. direttiva discariche).
Il termine per il recepimento, infatti, era previsto per il 16.07.2001 dall’art. 18 paragrafo 1 della Direttiva, mentre il Decreto, porta la data del 13.01.2003 ed è entrato in vigore il 27.03.2003.
In realtà, la Direttiva pone come condizione del recepimento , l’entrata “in vigore di tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla“ direttiva.
Una disposizione simile non può non stimolare una attenta analisi della disciplina italiana per verificare la corretta trasposizione della direttiva comunitaria.
Per completezza, vista la Decisione del Consiglio Europeo del 19.12.2002, pubblicato in GUCE 2003/33/CE, che stabilisce criteri e procedure per l’ammissione dei rifiuti nelle discariche (in applicazione dell’art. 16 e dell’allegato II della Dir. 1999/31/CE) è opportuno considerare anche il D.M. Ambiente del 13.03.2003, relativo, appunto, ai criteri di ammissione dei rifiuti in discarica, emanato in attuazione dell’art.7 comma 5 D.L.vo 36/2003.
A prima vista, conoscendo la Direttiva, sembrerebbe quasi inutile la lettura delle disposizioni italiane, ma, in realtà, come spesso accade, un esame appena approfondito, sicuramente non esaustivo, rivela alcuni punti di difficile interpretazione univoca che, a parere di chi scrive potrebbero suscitare dubbi sull’avvenuto adempimento degli obblighi di recepimento da parte del Governo Italiano (un invito a leggere attentamente le norme di recepimento delle Direttive comunitarie ci arriva, del resto, da un illustre e soprattutto attento commentatore: G. Amendola, Discariche: nuova normativa, nuovi strafalcioni, articolo per Diritto all’Ambiente Il sito internet dello Studio Santoloci).
1) Obiettivi di riduzione del conferimento di rifiuti biodegradabili in discarica.
La Direttiva pone una scaletta temporale che gli Stati membri avrebbero dovuto rispettare al fine di raggiungere una adeguata riduzione dei rifiuti biodegradabili da collocare in discarica (inutile dire che diverso concetto è quello di riduzione della biodegradabilità dei rifiuti).
Tale obiettivo, che è uno dei principali e generali della Direttiva, atteso che il processo di biodegradazione provoca le indesiderate emissioni di percolato e gas, dovrebbe essere perseguito attraverso l’elaborazione (adozione?) di una strategia nazionale entro il 16.07.2003 come prevede l’art. 5 Direttiva (“non oltre due anni dopo la data prevista nell’art.18 paragrafo 1”).
Effettivamente, si potrebbe intendere come data di riferimento (dies a quo) quella di recepimento effettivo (che si verificherà, come sopra ricordato, con l’entrata in vigore “di tutte……”), che non dovrebbe risultare oltre “due anni dalla entrata in vigore della Direttiva” , cioè oltre il 16.07.2001 essendo la Direttiva in vigore dalla data della sua pubblicazione avvenuta in GUCE il 16.07.1999.
Personalmente, ritengo, invece, più corretto intendere il riferimento dell’art. 5 della direttiva al termine ultimo previsto per il recepimento dall’art. 18 paragrafo 1, nel rispetto di un principio di univocità dei termini di scadenza degli obblighi per tutti gli stati membri e ritenendo l’obbligo dell’art. 5 tra quelli il cui adempimento comporta il recepimento completo della Direttiva.
In ogni caso, il Governo Italiano, ha “trasferito” alle Regioni il compito di elaborare ed approvare un apposito programma per la riduzione dei rifiuti biodegradabili da collocare in discarica integrativo dei Piani Regionali di Gestione dei Rifiuti.
In realtà, le Regioni avranno tempo fino al 27.03.2004 (entro un anno dall’entrata in vigore del Decreto avvenuta il 27.03.2003), pertanto una reale strategia come prevista dalla Direttiva non potrà certo essere notificata dal Governo Italiano alla Commissione CE entro il 16.07.2003 (sei mesi dopo la Commissione dovrebbe presentare al Consiglio e al Parlamento UE una relazione sulle strategie nazionali), a meno di non considerare come tale il disposto dell’art.5 del Decreto 36/2003 che impone alle Regioni un programma “completo” di tempi, metodi e obiettivi quantitativi.
Volendo seguire tale tesi, si può esaminare la “strategia nazionale” italiana e verificarne la corrispondenza con quanto previsto dalla Direttiva.
Innanzitutto, sotto il profilo temporale, le Regioni dovranno prevedere di raggiungere il primo obiettivo entro il 27.03.2008 (5 anni dalla data del 27.03.2003 di entrata in vigore del Decreto).
La Direttiva, invece, ritiene di porre come prima scadenza il 16.07.2006 (5 anni dopo la data prevista nell’art. 18 paragrafo 1 come sopra intesa).
Discordanza di tempi, dunque, ma potrebbe non essere troppo rilevante, se gli obiettivi da raggiungere fossero comunque rispettati.
Il fatto è che la Direttiva impone agli stati membri un dato di partenza (rifiuti “municipali” biodegradabili prodotti nel 1995) e un obiettivo da raggiungere (rifiuti “municipali” biodegradabili da collocare a discarica ridotti al 75% del totale in peso del dato di partenza) che presuppongono la conoscenza dei dati relativi non solo alla quantità dei rifiuti prodotti, ma alla loro caratteristica di essere “biodegradabili” come definiti dalla direttiva stessa.
I dati italiani, relativi alla produzione di rifiuti “municipali” del 1995, dovrebbero essere analizzati e interpolati con quelli della composizione merceologica dei rifiuti indifferenziati dello stesso periodo, per arrivare ad un riferimento certo e valutabile di quantità di rifiuti “municipali biodegradabili da avviare (avviati) in discarica.
Il Governo Italiano, però, si è tolto dalle difficoltà di questi calcoli e impone alle Regioni di adottare i programmi necessari per raggiungere a livello di ATO o di Provincia un dato preciso da raggiungere: meno di 173 kg/anno per abitante di rifiuti urbani biodegradabili (si dovrebbe intuire “da collocare in discarica”, ma non è espressamente indicato).
E’ evidente che il confronto dei dati si presenta difficile, tanto più che i termini di scadenza sono sfasati di due anni.
Probabilmente sarà già difficile capire con razionale certezza se, a livello di ATO o Provincia si sarà raggiunto l’obiettivo nazionale, figuriamoci controllare i risultati italiani rispetto agli obiettivi comunitari.
Effettivamente, il metodo comunitario non è, da par suo, di facile applicazione, ma il metodo italiano, introducendo la variabile “n° abitanti” lo complica e lo rende poco credibile sotto il profilo della certezza (addirittura si pensa di poter calcolare l’effettivo numero di presenze stagionali all’interno del territorio).
Del resto, in Italia, abbiamo un esempio di come sia incerta la verifica del rispetto di obiettivi da calcolarsi sulle quantità dei rifiuti prodotti, è sufficiente considerare le discordanze di interpretazione, spesso diametralmente opposte circa le famose percentuali minime di raccolta differenziata indicate dall’art. 24 D. L.vo 22/97, nell’attesa che vengano stabiliti la metodologia e i criteri di calcolo previsti dallo stesso articolo.
Per concludere, è bene evidenziare che, se possono esserci dubbi sull’esistenza attuale di una strategia italiana di riduzione delle quantità di rifiuti “municipali” biodegradabili da collocare in discarica, sulla adeguatezza dei tempi e dei risultati imposti alle Regioni (le quali dovranno a loro volta imporli alle Province e agli ATO), gli strumenti da utilizzare per raggiungere gli obiettivi sembrerebbero coincidere; infatti, se la Direttiva 1999/31/CE suggerisce ( la strategia “dovrebbe” prevedere…”) che la strategia nazionale porti al raggiungimento degli obiettivi mediante misure idonee, in particolare, il riciclaggio, il compostaggio, la produzione di biogas (è cosa diversa dalla captazione e uso di quello prodotto dalle discariche!) o il recupero di materiali/energia, il Decreto 36/2003, afferma che il programma (che ciascuna Regione “elabora ed approva”) “prevede” il trattamento dei rifiuti e, in particolare, il riciclaggio, il trattamento aerobico o anaerobico, il recupero di materiali o energia.
In entrambe le disposizioni, comunitaria e italiana, si fa riferimento, quindi a “operazioni di recupero” alternative e prioritarie alle quali dovranno essere avviati i rifiuti “municipali” (urbani) biodegradabili, così da ridurre gradualmente le quantità di tali rifiuti collocate in discarica.
A questo punto, si prospetta un altro problema interpretativo, la cui disamina ritengo opportuno rinviare: il “trattamento” dei rifiuti previsto sia dalla Direttiva che dal Decreto come obbligatorio (con deroghe) prima del loro conferimento in discarica e le “misure” da programmare per raggiungere gli obiettivi di riduzione dei rifiuti biodegradabili da collocare in discarica sono obblighi coincidenti?
A ben vedere, l’obbligo di trattamento (previsto dall’art.6 lettera a) della Direttiva 1999/31/CE e dall’art.7 del Decreto 36/2003) deve ritenersi finalizzato alla riduzione del volume e/o della pericolosità dei rifiuti (genericamente indicati) , facilitarne la manipolazione (nella traduzione italiana della Direttiva in mio possesso trovo scritto “trasporto”!) o agevolare il recupero (il D.L.vo 36/2003 aggiunge “favorirne – dei rifiuti – lo smaltimento – ovviamente in discarica - in condizioni di sicurezza” ), così almeno si legge nella definizione adottata sia dalla Direttiva che dal Decreto (con alcune differenze, appunto).
Del resto, la Direttiva, all’art. 5 usa il termine “misure”, mentre all’art. 6 usa il termine “trattamento” che rinvia naturalmente alla definizione dello stesso contenuta nell’art. 2.
Il Decreto 36/2003 confonde, invece, la terminologia, nonostante la quasi identica definizione di trattamento (specifica per interpretare il Decreto stesso, come l’ormai diffusa tecnica legislativa ci ha abituato) contenuta nell’art.2, e sembra dimenticare che genericamente ogni operazione di recupero o smaltimento può essere considerata un “trattamento”, ma usa questo termine nell’art. 5.
Brevemente, rimandando l’analisi più approfondita del problema, la non coincidenza dei due obblighi appare evidente, considerata, inoltre, la disposizione che ritiene inutile il trattamento obbligatorio dei rifiuti prima del loro conferimento in discarica se non riduce la quantità dei rifiuti (volume?) o i rischi per la salute umana e l’ambiente (il Decreto 36/2003 aggiunge “ e non risulta indispensabile ai fini del rispetto dei limiti fissati dalla normativa vigente”: quelli del DM Ambiente collegato?).
La strategia per la riduzione dei rifiuti “municipali” biodegradabili, invece, assomiglia molto alle norme programmatiche contenute nelle Direttive quadro sui rifiuti e nel D. L.vo 22/97 con l’intento di “dirottare”, mi si passi il termine, tali rifiuti verso forme di trattamento che conosciamo come “operazioni di recupero”, al punto che, se veramente applicata, gli unici rifiuti da avviare in discarica potrebbero essere quelli provenienti da queste operazioni, intesi come scarti di processo e probabilmente esclusi dal “trattamento” obbligatorio preliminare poiché inutile, come sopra accennato.
Quest’ultimo, comunque, resta un tema da approfondire.
Giovanni Lengueglia
Dottore in Giurisprudenza
Consulente legale di diritto ambientale