La materia prima secondaria paradigmatica di un meticciamento, anche metodologico e concettuale .

di Alberto PIEROBON
                Si propone (provocatoriamente e secondo una nostra diversa- “pretestuosa” lettura) uno schema/classificazione del riutilizzo, del recupero e dello smaltimento:
 
Flussi “fisici”:

-         materiale incorporato in un bene che resta tale: riutilizzo (previo ricondizionamento, che non è recupero);

-         materiale incorporato in un rifiuto che può essere recuperato e diventa MPS;

-         materiale che è rifiutato, cioè è rifiuto.

 
Flussi tecnologici:

-         operazioni o comportamenti di riutilizzo (semplicità e diffusione);

-         operazioni e/o processi che consentono il recupero (zone opache e opinabili);

-         operazioni e/o processi di smaltimento (varie scelte e filosofie).

 
Flussi gestionali:

-         libero e capillare, financo domestico;

-         dei recuperatori, ma non solo;

-         pubblico/privato.

 

                                                                Flusso pubblicistico:

-         non rileva, salvo indirettamente (per mercati usato,ecc.);

-         rileva solo per taluni aspetti (soprattutto la raccolta), poi è il c.d. mercato;

-         , ma vi sono forti “influenze” anche per i privati (autorizzazioni, garanzie, controlli, eccetera).

 
Flusso giuridici:

-         materiale che rimane un bene-merce;

-         materiale che da rifiuto (a certe condizioni e in un certo momento) diventa bene-merce;

-         materiale che rimane rifiuto da smaltire.

 
Flusso dei proventi:

-         prezzi del mercato del riutilizzo;

-         prezzi delle MPS (variabili italiane e non);

-         costi di smaltimento (e correlati).

 

                                                             Flusso per il mercato:

-         aperto per riutilizzo;

-         chiuso, ma anche aperto per recupero (..);

-         chiuso per smaltimento.

 
 
Flusso dei valori (o utilità) economici:

-         rimane un valore economico: < Bene/Merce;

-         ha un valore superiore al costo dello smaltimento del rifiuto (però dipende, la domanda è si autosostiene?);

-         ha un valore negativo (salvo eccezioni).

 
Flusso dei meccanismi economici:

-         impliciti nel non voler considerare il riutilizzo come rifiuto da convertire in MPS;

-         ) sono efficienti?

-         Interni allo smaltimento che diventano un incentivo al non smaltimento fatte salvi obblighi e norme tecniche.

 
Flusso dei tempi:

-         tempo del consumo/mercati usato per il riutilizzo;

-         tempo dei mercati;

-         tempo delle istituzioni .

 
Flusso delle equità:

-         nel riutilizzo è anche per generazioni future;

-         nel recupero può esserlo;

-         nello smaltimento dipende dalla preferenza accordata ad altre variabili.

 
Flusso dell’accettazione sociale:

-         quasi pacifica;

-         preferenza;

-         diffidenza/non accettazione.

 
Flusso dell’accesso:

-         aperto;

-         problematico (..) e incerto;

-         chiuso, ma garantito.

 
Flusso delle qualità:

-         non si discute, salvo il ricondizionamento legato alla funzione-utilità del bene;

-         rileva sotto molti profili: raccolta, trattamento, diversità processi, recupero effettivo, costi, organizzazione, normativa, eccetera;

-         rileva sotto vari profili riconducibili all’avviamento sicuro agli impianti di smaltimento, diversità gestione e trattamento.

 
Flusso delle funzioni:

-          funzione di bene/merce e di mercato/risorse;

-          funzione di conversione in bene/merce e suo reinserimento nel mercato;

-          funzione per lo più igienico-sanitaria.

 
Domande che sorgono….
 
 

         I “modelli” teorici e financo quelli “pratici” sono, in generale, frutto della visione e di un metodo (ma non solo) che conducono la nostra lettura (e, addirittura, in un certo senso anche i nostri procedimenti mentali e/o il ragionamento) per l’appunto entro il “sistema” del “modellatore”, dove la formalizzazione - proprio per comprensibili esigenze di rappresentazione (e semplificazione) della realtà (che diventa quindi di “secondo livello”) e per necessità comunicative, oltre che di controllo/dominabilità della medesima realtà – sembra atteggiarsi ad una sorta di “umanizzazione” del reale, nell’anzidetto senso di rendere più comprensibile e controllabile-manipolabile la realtà da parte dell’uomo, in ciò anche avvalendosi del linguaggio o dei metodi delle cosiddette “scienze esatte” (CROCE riferendosi alla scienza affermava che essa è un affare di pratica e di economia).

 

       I flussi (dei rifiuti, delle risorse ambientali, etc.) cosiccome codificati e ipotizzati in varia modellistica (poi trasfusi in categorie e classi, oppure in formule, in standard, in livelli, in tabelle, etc.) e quind’anche nella programmazione pubblica, assumono – volendo coraggiosamente sorvolare queste “isole” e/o “arcipelaghi” che sono sempre cangianti – un ruolo “immunizzante” nei confronti di percorsi alternativi, dell’alterità di soluzioni, di debordanti e/o diversi ragionamenti.

 

       Occorre quindi che i flussi, la codificazione, eccetera, vengano per così dire da noi stessi “avvelenati”, onde perdano la parvenza della loro innocenza e, quindi, dobbiamo tentare di riformulare gli stessi, di applicare altre logiche, quale - per esempio - quella funzionale (riferita al bene, al rifiuto, all’imballaggio, etc.) e così via.

 

       Le tonanti lezioni che molti sembrano in parte qua impartire (con effetto di ingabbiamento teorico e pratico) franano su inesistenti fondamenti e sulla loro parziale  verità. Peraltro, i flussi e/o le categorie soventemente utilizzati/e in sede programmatoria, pedagogica, eruditiva seguono, perlopiù, criteri rappresentativi quantitativi, dimentichi della qualità (che viene spesso sussunta e opacizzata nella quantità), ovvero sconoscenti altri (ancorchè sotterranei) aspetti di contabilità e dei rifiuti: in pratica, paradossalmente, si arriva ad una astrazione metafisica che mortifica la complessità del reale.

 

    Occorre quindi, a nostro modesto avviso, andare fuori dei flussi (degli schemi!) per poi  ritornarci, ma con una maggiore creatività e intensità di argomentazioni logiche-fattuali. Ma, soprattutto, a noi pare che occorra, nelle analisi e negli studi in siffatte questioni ambientali, che si passi da una istologia sulla norma da tavolo operatorio,  ad instaurare una relazione tra l’oggetto e il soggetto, dove l’esperienza abbia un ruolo e non sia confinata ad elemento marginale o ausiliario di questa relazione.

 

    Essendo poi tramontata la figura del giurista come tessitore d’ordine, non è ad essa attività che bisogna riferirsi, poichè  scopriamo che, invece, sono il dettaglio e la prassi che destituiscono le norme. Qui il giurista non può svolgere il compito di sacerdote del diritto con le sue formule, ma deve assumere una visione di insieme, sincretica, anzi  uno sguardo “filosofico”.

 

    Sono, infatti, le tracce e gli indizi che possono condurci, attraverso inediti percorsi,  a tracce di verità (ancorchè sempre instabili, in tensione)  guardando agli effetti, ovvero valutando i modelli, le classificazioni, eccetera, anche sotto  gli aspetti della loro congruità col reale.

 

     Ci si deve però attenzionare sui giochi linguistici (e sugli ordini del discorso) onde non ricadere nella precostituzione del reale secondo certe visioni, o secondo logiche che appartengono e riconducono ad altre esigenze (di consenso, di ordine, di pacificazione, di controllo, di mercato, eccetera).

 

     In tal senso sono stati (in esordio alla presente) proposti rispetto alle note (consunte) classificazioni, “altri” schemi di lettura e/o di rinvio funzionale piuttosto che classificatorio, (che paiono essere per noi coerenti e maggiormente aderenti ad auspicabili criteri di effettività) relativi alle:

 

a)      attività di riutilizzo;

b)      di recupero;

c)       c)di smaltimento.

 

   Ovvero, nella elencazione schematica da noi proposti, siamo in presenza della trinomia dove:

 

a)      il bene non è considerato (pur con le attività di ricondizionamento o manutenzione) un rifiuto;

b)      il rifiuto col recupero diventa una materia prima secondaria (salvo gli scarti);

c)       il rifiuto rimane tale e va “smaltito”.

 

    Intanto, possiamo osservare la “zona grigia”, insatura (e che va saturata dal nostro studio e lavoro) costituita dalla scansione (o dalla mancata scansione) del rifiuto-materia prima secondaria (e delle relative attività, concetti, metodi di misurazione e di qualificazione, eccetera).

 

    Proviamo, quindi, a brevemente cimentarci su questa “zona di confine” dove, a nostro parere, viene meticciato non solo l’oggetto, ma- come accennato - anche i comportamenti e, financo, i metodi e i concetti.

 

    Per esempio, come tutti gli operatori ben sanno, la materia prima secondaria nasce solamente dal momento dell’avvenuto (completo) recupero.

 

    In altri termini la materia prima secondaria non è una materia presente all’attuale (ovvero: “ora”), ma che nasce solo successivamente (ovvero: “dopo”) il – momento dell’avvenuto – recupero (cioè delle attività che non tanto normativamente, quanto secondo tutta una casistica giurisprudenziale e della prassi vengono ritenute essere la via di uscita del rifiuto verso la materia prima). La materia prima secondaria, come vedremo è l’anticipazione di una parte dei beni, cioè è un loro “supplemento”.

 

  Anche qui sarebbe interessante pensare ad un nuovo concetto di tempo – che ci porta al concetto di equilibrio -, che ho solo evocato nello schema  indicando il “tempo dei mercanti” e il “tempo delle istituzioni”.

 

     Riprendendo le fila del discorso, la materia prima è, come dire ….intrinseca al recupero, è il “divenuto” del rifiuto che si realizza dalle attività del recupero (ma che si invera con l’effettivo utilizzo!).  La tesi è che, a certe condizioni, il rifiuto recuperabile possa diventare qualcosa di diverso da sé stesso, cioè altro (ovvero la materia prima secondaria). L’essere del rifiuto avrebbe una possibilità obiettivo-reale secondo un criterio di possibilità che è determinabile con le norme tecniche, ma non solo. 

 

    E’ poi davvero inutile (come infantilmente fa ancora qualcheduno) invocare il codice del CER quale elemento classificatorio e qualificatorio discriminante e solutorio, poiché esso – alla fin fine – non è altro che la rappresentazione (il segno) del rifiuto sempre meno legato all’intrinsecità, bensì assimilato (e orientato) allo scambio (alla circolazione nei diversi mercati) del materiale, dove (sia detto) le catene analogiche (del materiale e della sua qualificazione “clanica”) non sono state ancora del tutto rodate, del che ne abbiamo testimonianza dalla ridda dei problemi che infarciscono i quesiti che gli operatori pongono, quasi quotidianamente, alle pubbliche amministrazioni o che, vengono contestati dagli organi di controllo, o che vengono opposti in sede giudiziale, e così via.

 

    Sembra quindi esservi, nel concetto di recupero dei rifiuti, un implicito apprestamento di una sorta di organizzazione atta a “salvare” la distruzione dei rifiuti, per la resurrezione della materia prima secondaria.

 

 Inoltre, essendo la materia prima secondaria un “supplemento” non viene (teoricamente, in un tentativo rasseneratorio) intaccata la riserva delle risorse utilizzate per costruire i beni derivanti dall’utilizzo delle materie prime secondarie, tornando risorsa la riserva viene preservata, cioè le materie prime secondarie sono risorse prese al di fuori della riserva naturale. Col riutilizzo, il rifiuto viene invece posto fuori da sé e, addirittura, non è più numerabile se non come una finzione, perché fa saltare il criterio computazionale e dove la rassomiglianza tra la materia (che rimane un rifiuto, salvo il suo riutilizzo senza le operazione di recupero) non è una equivalenza (difatti il riutilizzo è fuori dal rifiuto, rimane un bene), per cui più che attestare (come sarebbe dal punto di vista chimico-fisico) una identità, viene autenticata una differenza!

 

   E il recupero non è altro, volendo rimanere coi piedi per terra, che una sorta di procrastinata riproduzione dei beni, pur sempre finalizzati al consumo.

 

     E qui, se ce ne fosse ancora bisogno, troviamo conferma che, in realtà, il mondo dei rifiuti (e ambientale in genere) non è certo scollegato, avulso, separato, isolato dal mondo del mercato (produttivo e del consumo) ma che ne fa organicamente parte.

 

      Siamo tutti consapevoli che i diritti economici e il consumo sono infatti “insaziabili”, talchè assume rilievo il soggetto quale consumatore (piuttosto che l’utente dei servizi pubblici, che il produttore dei rifiuti, eccetera) poiché il consumatore è il soggetto che (con bisogni indotti dalla pubblicità, dalla società, eccetera) “rilancia” la produzione di beni, mercè la codificazione dei bisogni e la desiderabilità dei comportamenti (artatamente indotta, in primis, dai mass-media, dalle cosiddette “mode”). E il rifiuto recuperabile essendo, in potenza, una materia prima secondaria e quindi un bene che circolerà sul mercato, rientrerà, alla fine, direttamente o indirettamente, nel circuito del consumo.

 

    Peraltro, la materia prima secondaria non essendo commensurabile (come lo sono, ad ogni evidenza, la merce stoccata in un magazzino o quella inserita in una linea di produzione) è suscettibile di essere “ottimizzata” e/o “migliorata” soprattutto grazie all’innovazione tecnica e alle attività del “macchinismo” e/o del “meccanicismo” ambientale, di talchè questa sua incommensurabilità pare essere una sorta di “credito”, ovvero l’anticipazione ( lo “sconto”, l’attualizzazione del futuro ricavo che viene presentato all’incasso, si direbbe con linguaggio più bancario) nel mondo dei rifiuti di ciò che essa materia verrà/varrà nel mondo delle materie prime, quindi nei confronti di un bene futuro.

 

       Insomma, il rifiuto costì recuperabile e la materia prima secondaria appartengono (come è sempre stato) ad un unico mercato. Altro discorso è quello del monopolio e della concorrenza sul quale si rinvia ad un prossimo, apposito, scritto.

 

    In altri termini, come si è già notato, il rifiuto che in potenza è (rectius, sarà) una materia prima secondaria costituisce all’attuale (rectius, “ora”) una sorta di “credito”, quale licenza di intrapresa (e di orizzonte di ritorno economico, più che ambientale) della organizzazione che recupererà il materiale dal rifiuto,e pure, di “rassicurazione” per quella organizzazione che poi utilizzerà la medesima materia prima secondaria per produrre beni e, infine, di garanzia ulteriore quella organizzazione che poi distribuirà-commercializzerà questi beni.

 
  
 


Materie prime secondarie.

RU: rifiuti urbani. RA: rifiuti assimilati.

Contributo Ambientale CONAI, che sostengono i produttori di imballaggi e che viene traslato in avanti al consumatore (ovvero internalizzato nei prezzi di vendita).

Corrispettivi Consorzi di Filiera CONAI: il corrispettivo che tramite gli accordi ANCI-CONAI viene riconosciuto ai Comuni per le quantità di rifiuti conferite per il recupero al sistema CONAI attraverso le piattaforme di conferimento, secondo certe qualità merceologiche, impurezze, eccetera.

In proposito si vedano i molti scritti di P. GROSSI.

Con i “laddove”, gli “epperò”, i “che”, i “tuttavia” e i “periodi lunghi”.

Dove così G.ROSSI, Perché filosofia, Milano, Editrice San Raffaele, 2008, pag.20, il quale autore così prosegue (pagg.21-22). Ancora (a pag.105). Sul punto vedasi anche P.GROSSI, La cultura del civilista italiano (un profilo storico),Milano, Giuffrè,2002, Pag.117 per il quale la cultura deve <… evitare le barriere della specialità (…) evitando il rischioso eclettismo (…e per la quale v’è la… N.d.R.) necessità di un lavacro metodologico>.

Cfr. A. CASSESE, Il sorriso del gatto. Ovvero dei metodi dello studio nel diritto pubblico, n. 3/2006 della Rivista trimestrale di diritto pubblico, dove l’autore indica di preferire, nel lavoro giuridico, rispetto all’ossequio al dato normativo, all’impianto sistematico, all’approccio formalistico, l’espansione degli argomenti di tipo sostanziale come l’esame della funzionalità, delle conseguenze pratiche, delle desiderabilità di soluzioni alternative.

Peraltro con una verificabilità ex post del suo concreto utilizzo.In proposito basti rammentare l’orientamento della Corte di Giustizia UE per il quale il materiale, ancorchè recuperato (nel senso delle attività svolte sul medesimo materiale-rifiuto) venga poi stoccato per oltre tre anni o non venga effettivamente recuperato, va considerato ancora un rifiuto.

Ma, come avremo modo di dimostrare in apposito scritto, la stessa materia può essere soggetta a diverse operazioni di recupero anche finalizzate alla stessa materia prima secondaria, rilevano allora i processi di lavorazione che sono diversi entro lo stesso termine definitorio, di qui la necessità di fare gli speleologi tra le norme e la prassi.

La sostituzione della materia prima secondaria alla primaria (anche la terminologia è sintomatica) è la sostituzione della produzione alla distruzione, ma la distruzione del materiale si sposta, perché comunque essa avviene col consumo (senza entrare nel ginepraio assiologico, va però detto che questo consumo è anche sostentamento umano, risposta ai bisogni – veri o falsi – umani, sopravvivenza, eccetera).

E dove possiamo intravvedere anche “il tempo della tecnica” ovvero la tecnica che regola il tempo.

In questo senso è un discorso di “carta”.

L’aumento della riserva disponibile (naturale e quella derivante dalle materie prime secondarie) è – tra altro - collegata alla problematica dell’eccedenza dei rifiuti collegata al valore economico di entrambe le materie sul mercato complessivamente inteso.Teoricamente, con l’aumentare della riserva di risorse vengono evitati i costi di smaltimento dei rifiuti (e dell’inquinamento in generale) mitigando altresì l’aumento del costo dei beni, ma ciò pur sempre in funzione del mantenimento di livelli di consumo tali da mantenere i livelli di produzione dei beni per il consumo, ovverosia la sostenibilità del “turbocapitalismo”.

Per semplificare, ancorchè grossolanamente, si pensi ad una quantità 100 di beni già utilizzati, che potrebbero però essere riutilizzati (senza ricorrere alle operazioni di recupero), ipotizziamo che solo 20 vengano effettivamente riutilizzati, gli altri 80 (per motivi vari sui quali non è qui il caso di intrattenersi) vengono invece avviati al recupero, quindi vanno considerati rifiuti che dopo il recupero diventano materia prima secondaria. Ma, nella contabilità e nei macro dati pubblici si inventariano gli 80 non i 100 perché, appunto, i 20 escono dalla computazione per effetto di una identificazione imperativa, non certo sostanziale.

Il consumo rientra obiettivamente, nel concetto di crescita dove si rischia di smarrire i fini.

In proposito si rinvia al nostro precedente intervento su questa rubrica titolato .

 

Sarebbe qui interessante intrattenersi se sia “macchinismo” l’utilizzo di impianti di recupero sempre più complessi, ovvero il crescente utilizzo di soluzioni tecnologiche, ma questa diventa anche l’ammissione di una negazione della attivazione (soluzione) umana, ovvero diventa (per estremizzare) il ridimensionamento anche della raccolta differenziata in un trade off tra impianti e comportamenti, eccetera.

al di là delle ipocrite vestizioni concettuali fattane e degli artificiali steccati eretti e puntellati da vetere concezioni del mercato - con le sue ipotetiche suddivisioni - che smarriscono la centralità (la potenza) del consumo, ovvero della tecnica.

Per l’intanto chiediamoci quale sia la dialettica tra scambio e concorrenza, se la concorrenza sia equivalenza o piuttosto ineguaglianza (vedi, per esempio, i mercati delle materie prime tra i paesi europei e Cina) e se il monopolio non sia un espediente (al di là degli aspetti igienico-sanitari, qui stiamo parlando in senso più ampio) voluto per salvarsi dagli effetti perversi del mercato ovvero per mantenere una crescita economica e certi servizi.

Vogliamo finalmente fare una seria analisi LCA dei beni recuperati? Quanta acqua, energia, risorse vengono consumate per il recupero? Quanto vale sul mercato un bene sostitutivo? E’ davvero conveniente? Questo non significa che non si debba procedere col recupero dei rifiuti, ma che occorre prevedere diversi meccanismi regolatori, ma soprattutto economici, altrimenti non vi sarà mai vera convenienza al recupero.

   Ma, allora, questo “futuro” di risorsa può essere forse “capitalizzata” nel rifiuto? Cioè esiste un meccanismo di capitalizzazione che conserva, anzi massimizza, le risorse (incamerandole, etc.)?