Nuova pagina 2

"Articolo 53bis D.Lv. 22 del 1997" di Luca RAMACCI

Pubblicato sul n. 10 del 2003 di Rivistambiente

Nuova pagina 1

Premessa

Quello che segue vuole essere un sommario esame dei contenuti dell’articolo 53bis D.Lv. 2297 in tema di rifiuti.

Si tratta di una disposizione di rilevante importanza non solo per le sue intrinseche caratteristiche che la differenziano dalle altre ipotesi di reato contemplate dal c.d. decreto Ronchi, ma anche per gli strumenti che offre sotto il profilo operativo ed investigativo.

Tali precipue caratteristiche rendono tuttavia necessaria, per meglio comprendere la portata della norma, una preventiva analisi - seppure sommaria e generica - della struttura complessiva dell’impianto sanzionatorio in materia di rifiuti e delle ragioni che hanno portato alla introduzione, in un complesso di disposizioni già di per sé articolato, di questo “nuovo” articolo la cui utilizzazione ha impresso una svolta significativa ad una particolare tipologia di indagini nel settore dei rifiuti.

 

La struttura dell’impianto sanzionatorio nel “decreto Ronchi”.

Come è noto, la normativa in tema di rifiuti ha determinato una efficace razionalizzazione  della materia apportando radicali modifiche rispetto alla situazione preesistente[1].

Poco tempo dopo la sua emanazione il D.Lv. 2297 diveniva però oggetto di non indifferenti interventi di modifica ed integrazione, specie ad opera del D.Lv. 8 novembre 1997 n.339 e della legge 8 dicembre 1998 n.426. Si trattava, come è ormai noto, di modifiche non proprio migliorative avendo in alcuni casi (si pensi al deposito temporaneo) introdotto innovazioni che rendevano meno efficaci i controlli e, più in generale, la tutela dell’ambiente.

Ciò nonostante, il D.Lv. 2297 appare sicuramente innovativo rispetto alla precedente disciplina sanzionatoria.

Viene infatti ampliato il numero delle violazioni di carattere amministrativo, secondo una prassi ormai frequente nella materia della protezione ambientale, prevedendo altresì l’obbligo di bonifica dei siti inquinati, alcune ipotesi di confisca e la possibilità di sottoporre a particolari prescrizioni la sospensione condizionale della pena.

A fronte di simili interventi, sicuramente sintomatici di un approccio del legislatore diverso e più attento alle esigenze di salvaguardia dell’ambiente e della salute delle persone, non può farsi a meno di osservare come l’insieme delle sanzioni, pur prevedendo conseguenze talvolta gravi per il contravventore (come la confisca dell’area interessata dalla discarica abusiva), soffre degli stessi limiti che altre disposizioni in campo ambientale hanno evidenziato nella pratica quotidiana.

Ciò posto, è il caso di individuare sinteticamente questi limiti per meglio comprendere, come si è già detto, quale sia stata la portata rivoluzionaria dell’introduzione dell’articolo 53bis

Si è fatto cenno in precedenza alla presenza di sanzioni tanto penali che amministrative. Queste ultime sono state ripetutamente privilegiate dal legislatore ritenendo, a nostro avviso a torto, che abbiano una efficacia deterrente se non pari, almeno vicina a quella delle sanzioni penali sottolineando altresì la loro utilità per graduare l’entità della pena rispetto a fatti meno rilevanti.

Tale assunto trova nutrito seguito tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. A tale proposito, basti qui ricordare quanto affermato in una delle diverse decisioni sul punto della Corte Costituzionale.

Trattando infatti di rifiuti (art. 52 D.Lv. 2297 concernente gli obblighi di registrazione e comunicazione), il giudice delle leggi ha affermato che la norma in esame non concerne condotte direttamente pregiudizievoli per l'ambiente – diversamente da altre quali quelle che vietano lo scarico non consentito di sostanze inquinanti - ma “condotte in contrasto con obblighi formali (di comunicazione o di tenuta di registri), sia pure strumentali, nel contesto legislativo, al miglior controllo sull'attività, potenzialmente pericolosa per l'ambiente, di produzione e di smaltimento di rifiuti. Tale strumentalità non basta per fare assimilare pienamente siffatte condotte a quelle direttamente lesive dell'ambiente; e dunque per rendere ingiustificata, in tale assetto normativo, la scelta della sanzione amministrativa, anziché di quella penale. Né va trascurata la considerazione che la repressione penale non costituisce, di per se, l'unico strumento di tutela di interessi come quello ambientale, ben potendo risultare altrettanto e perfino più efficaci altri strumenti, anche sanzionatori, specialmente quando si tratti di regolare e di controllare, più che condotte individuali - le uniche assoggettabili a pena, in forza del principio di personalità della responsabilità penale - attività d'impresa[2].

Queste considerazioni, seppure astrattamente condivisibili, cozzano tuttavia con l’amara realtà quotidiana dove può constatarsi la sostanziale inefficacia delle sanzioni amministrative (quando e se vengono applicate), come è stato notato chiaramente in dottrina da Amendola con la consueta schiettezza[3]. 

L’inefficacia della sanzione amministrativa è altresì evidenziabile facendo riferimento al fatto che molte tra le attività vietate e sanzionate solo amministrativamente sono talvolta collegate intimamente con condotte ben più gravi quali quelle contemplate dall’articolo 53 bis in esame (si può richiamare, a tale proposito, proprio l’inosservanza degli obblighi di comunicazione e registrazione di cui tratta la decisione della Corte Costituzionale appena richiamata).

Non meno rilevante, sempre con riferimento alla inefficacia delle sanzioni amministrative, è la natura degli interessi coinvolti dalle attività che incidono negativamente sull’integrità dell’ambiente in generale e sulle attività di gestione dei rifiuti in particolare.

Si tratta, in primo luogo, di interessi economici facilmente individuabili:  

-        nelle spese relative alla gestione dei rifiuti

-        nei costi di adeguamento degli impianti alla normativa vigente

-        dell’incidenza (eventuale), sul regime di concorrenza tra imprese, della diversità di trattamento da impresa a impresa secondo i controlli o la scelta di ricorrere all’illegalità.

A ciò vanno aggiunti i costi “sociali” che inevitabilmente gravano sulla collettività allorquando norme di tutela ambientale vengano violate con conseguente degrado dell’ambiente.

E’ forse superfluo osservare come questo stato di cose costituisca un terreno fertile per attività illecite svolte anche in forma organizzata, quali quelle che l’articolo 53bis ora cerca di contrastare.

Il riferimento non riguarda esclusivamente le c.d. ecomafie. Il neologismo, talmente suggestivo da essere stato inserito recentemente nel vocabolario della lingua italiana, evoca scenari forse non sempre coincidenti con la realtà. Non sembra infatti che siano mai stati dimostrati fenomeni associativi mafiosi aventi come unica finalità quella della gestione illegale dei rifiuti, mentre è vero invece che il quantitativo di rifiuti gestiti illegalmente ed il guadagno che tali traffici consentono sono considerati particolarmente appetibili, al pari dei ogni altra attività illegale, dalla criminalità organizzata.

La eccessiva mobilità dei rifiuti ed il controllo solo apparente consentito dalla normativa attuale che, come abbiamo visto, sanziona in modo molto lieve condotte che si prestano al mascheramento dei percorsi e della destinazione finale del rifiuto, offrono facile possibilità di guadagno con bassissimo rischio.

A questo scenario poco edificante va aggiunto l’atteggiamento estremamente ambiguo di un legislatore che volge prevalentemente l’attenzione verso il mondo imprenditoriale varando modifiche e interventi legislativi che hanno lo scopo di sottrarre quante più materie possibili dal novero dei rifiuti, con la conseguenza che anche l’inserimento di disposizioni più efficaci quali quelle contenute nell’articolo 53bis restano applicabili ad un numero sempre inferiore di condotte.

Gli esempi in tal senso sono a tutti noti e, ancor più che con gli estremi delle leggi, sono conosciuti per il riferimento ai procedimenti penali che con gli interventi modificativi si sono voluti bloccare.

E così si parla del Petrolchimico di Gela con riferimento al pet-coke trasformato da rifiuto in combustibile, di alta velocità per ricordare che le terre e rocce da scavo entrano ora solo con difficoltà tra i rifiuti, anche se contaminate e di rottami ferrosi per un’ interpretazione autentica contenuta nel Dl 8 luglio 2002, n. 138, convertito con modifiche nella legge 8 agosto 2002, n. 178 e fornita in spregio alla normativa ed alla giurisprudenza comunitaria dando, peraltro, dimostrazione della trasversalità di quello che sempre Amendola ha chiamato il “partito del non rifiuto” (il testo è infatti la riproduzione esatta del “Ronchi quater” fortunosamente rimasto nel cassetto della precedente maggioranza di governo).

E’ dunque in questo panorama desolante che dobbiamo valutare l’efficacia dell’impianto sanzionatorio del Ronchi, considerando – come subito dopo vedremo – altri aspetti significativi.

Le sanzioni amministrative sono dunque inefficaci non solo per la loro natura intrinseca e per la esiguità della pena ma anche perché: 

-        operano prevalentemente nei confronti di soggetti di regola economicamente forti;

-        i soggetti preposti ai controlli fanno spesso parte di enti i cui vertici sono soggetti ad un incisivo controllo politico o che, in ogni caso, non godono di sufficiente autonomia operativa.

-        vi è una estrema facilità nell’ottenere l’annullamento in sede giudiziaria o direttamente da parte dell’Ente che dovrebbe erogarle.

Ma anche le sanzioni penali previste dal D.Lv. 2297, prima dell’introduzione dell’articolo 53bis, sebbene di maggior rilievo rispetto a quelle amministrative soffrono di alcuni limiti:

-        la natura contravvenzionale determina quasi sempre la prescrizione prima dell’esaurimento di tutti i gradi di giudizio;

-        le contravvenzioni pur consentendo l’applicazione della misure cautelare reale del sequestro preventivo non consentono l’applicazione di misure personali ed il ricorso a strumenti investigativi particolari quali, ad esempio, le intercettazioni telefoniche 

-        le sanzioni sono comunque applicabili solo a persone fisiche, anche a causa della incompleta attuazione della direttiva comunitaria in materia effettuata con la legge 29 settembre 2000 n. 300 la quale ha delegato il governo a disciplinare la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica. Il D.Lv. 862001 n. 231 ha però utilizzato solo in parte la delega non prevedendo la responsabilità amministrativa degli enti predetti per i reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio (e di quelli di cui agli artt. 589 e 590 c.p. commessi in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero di tutela dell’igiene e della salute sul lavoro)[4].

Un dato essenziale, comune tanto alle sanzioni amministrative che a quelle penali, è inoltre rappresentato dalla effettività dei controlli che molto spesso mancano o risentono  della scarsità del personale e della mancanza di una adeguata preparazione da parte dello stesso.

Sempre nel D.Lv. 2297 si rinvengono, infine, caratteristiche comuni ad altre disposizioni sanzionatorie in materia ambientale che incidono non poco nel complessivo quadri generale. Ci si riferisce al frequente rinvio ad adempimenti amministrativi o criteri tecnici contenuti nel corpo del testo con conseguenti difficoltà interpretative; alla mancanza di determinatezza del precetto e, come è avvenuto per le sanzioni in tema di omessa bonifica dei siti inquinati, al rinvio a provvedimenti normativi successivi, spesso emanati in ritardo rispetto ai tempi previsti, per la concreta attuazione della disposizione.

 

L’inserimento dell’articolo 53bis nel “decreto Ronchi”

Come è noto il reato in esame venne introdotto con l’articolo 22 della Legge 23 marzo 2001, n. 93 "Disposizioni in campo ambientale" pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 79 del 4 aprile 2001.

L’articolo 53bis venne inserito nel testo della legge, come è stato reso noto in diverse occasioni, anche a seguito delle sollecitazioni di una tra le più note associazioni di tutela ambientale. Il tutto avvenne a fine legislatura.

Durante la discussione in parlamento, proprio con riferimento al contenuto della disposizione in esame il sottosegretario all’ambiente ebbe a dire “… è molto importante e molto atteso, soprattutto dopo l'emendamento approvato nella seduta di ieri in quest'Aula che depenalizza alcuni reati. Con questo emendamento noi potremo meglio combattere le ecomafie. Credo che debba essere ringraziato il senatore Manfredi, che ha avuto la sensibilità di presentarlo e sono soddisfatto che l'Aula lo abbia approvato”.

Non sfuggiva, dunque, la effettiva portata della disposizione che, lo ricordiamo, nella sua definitiva formulazione così recita: “(Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti). 1. Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni.

2. Se si tratta di rifiuti ad alta radioattività si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.

3. Alla condanna conseguono le pene accessorie di cui agli articoli 28, 30, 32 bis e 32 ter del codice penale, con la limitazione di cui all’articolo 33 del medesimo codice.

4. Il giudice, con la sentenza o con la decisione emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, ordina il ripristino dello stato dell’ambiente, e può subordinare ove possibile la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente.

Esame generale della disposizione

Va subito detto che la disposizione in esame, come è stato da più parti osservato in dottrina, è formulata in modo forse eccessivamente approssimativo e contiene riferimenti errati ad altre disposizioni non solo relative alla materia ambientale, ma anche previste dal codice penale. Se ne tratterà più diffusamente in seguito.

Appare ora importante, al contrario, evidenziare che il dato determinante che consente di superare le perplessità sollevate da più parti sulla correttezza della formulazione di questa disposizione è rappresentato dalla natura di delitto del reato ipotizzato.

Si tratta, come è stato osservato[5], del primo delitto contro l’ambiente introdotto nella vigente normativa nonostante da tempo si sia da più parti avvertita la necessità di prevedere fattispecie di reato diverse dalle contravvenzioni che, anche a fronte di una concorrente depenalizzazione, possano consentire una adeguata tutela dell’ambiente da condotte particolarmente gravi ed aggressive.

Ciò nonostante, si assiste invece ad un sempre più frequente ricorso alle sanzioni amministrative non compensato dall’introduzione della nuova categoria di delitti contro l’ambiente poiché i reiterati tentativi in sede parlamentare attraverso accordi “trasversali”, come nel caso del progetto di legge n. 3282 presentato nella scorsa legislatura e relativo all’inserimento nel codice penale del titolo VI-bis riferito ai “delitti contro l’ambiente” dove peraltro veniva prevista l’introduzione di un articolo 452bis nel quale si precisava, finalmente, che “agli effetti della legge penale l’ambiente è nozione unitaria comprensiva delle risorse naturali, sia come singoli elementi che come cicli naturali e delle opere dell’uomo protette dall’ordinamento per il loro interesse ambientale, artistico, archeologico, architettonico e storico”.

Anche la Comunità europea ha più volte rappresentato la necessità di privilegiare la difesa dell’ambiente attraverso il diritto penale, affermando, da ultimo che “…La Comunità ha cominciato a legiferare in campo ambientale 25 anni fa e da allora, in questa materia, sono state emanate oltre duecento direttive. Si è tuttavia rilevato che in molti casi la normativa ambientale comunitaria subisce ancora gravi violazioni. Ciò dimostra che le sanzioni attualmente irrogate dagli Stati membri non bastano a garantire la piena osservanza del diritto comunitario. La presente proposta di direttiva della Commissione chiede agli Stati membri di istituire sanzioni penali, perché solo questo tipo di misure sembra appropriato e sufficientemente dissuasivo per assicurare un livello adeguato di osservanza della normativa ambientale[6].

In questo panorama, come si è già detto, l’articolo 53bis rappresenta dunque un’eccezione e fornisce agli operatori uno strumento potente per intervenire.

La natura di delitto richiede come elemento soggettivo il dolo, che deve dunque essere dimostrato, diversamente da quanto avviene per le violazioni aventi natura contravvenzionale, ma che offre la possibilità – considerata l’entità della pena prevista – di utilizzare le intercettazioni telefoniche ed ambientali e di ottenere ordinanze restrittive della libertà personale. Oltre, ovviamente, a ridurre drasticamente la possibilità che il reato venga travolto dalla prescrizione.

La violazione è ascrivibile a “chiunque” trattandosi di reato comune. La condotta si riferisce, invece, al compimento di più operazioni e l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate finalizzate alla cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione, o comunque gestione abusiva di rifiuti.

Detti rifiuti devono essere in quantitativi definiti “ingenti” e l’attività deve avere come scopo il conseguimento di un ingiusto profitto.

Suscita inoltre perplessità il richiamo, effettuato nel titolo dell’articolo, al “traffico illecito di rifiuti” che, nel testo del D.Lv. 2297, è tutt’altra cosa rispetto alle attività di cui tratta l’articolo 53bis.

Il traffico illecito di rifiuti è disciplinato infatti dall’articolo 53 che riguarda le spedizioni di rifiuti costituente traffico illecito ai sensi dell’articolo 26 del regolamento (CEE) n. 259/93 del Consiglio, del 1° febbraio 1993 ovvero l’effettuazione di una spedizione di rifiuti elencati nell’allegato II del citato regolamento in violazione dell’articolo 1, comma 3, lettere a), b), c) e d), del regolamento stesso.

In base al citato articolo 26, costituisce traffico illecito qualsiasi spedizione di rifiuti: a)effettuata senza che la notifica (prevista dallo stesso regolamento) sia stata inviata a tutte le autorità competenti interessate conformemente al regolamento; b)effettuata senza il consenso delle autorità competenti interessate; c) effettuata con il consenso delle predette autorità ma ottenuto mediante falsificazioni, false dichiarazioni o frode; d) non concretamente specificata nel documento di accompagnamento; e) che comporti uno smaltimento o un recupero in violazione delle norme comunitarie o internazionali; f) contraria alle disposizioni degli artt. 14,16,19 e 21 del regolamento.

Dall’esame delle disposizioni richiamate appare di tutta evidenza la rilevante offensività della condotta presa in considerazione e la necessità che l’attività sia posta in essere – come può desumersi dall’utilizzazione del termine “traffico” -  in modo organizzato e continuativo.

E’ chiaro, dunque, come non vi sia una diretta correlazione tra le due disposizioni se non quella di essere quella in esame collocata all’interno del D.Lv. 2297 subito dopo la norma che prende in esame il traffico illecito di rifiuti.

 

Aspetti significativi evidenziati dalla dottrina

Oltre alle particolarità rappresentate dalla natura di delitto della violazione in esame la dottrina[7] si è soffermata su alcuni aspetti che non possono non essere condivisi.

In primo luogo, la scelta del dolo specifico che rende evidente la necessità di accentrare l’attenzione sui motivi che inducono l’autore del reato a porre in essere la condotta prevista dalla violazione e che, nel caso specifico, è rappresentato dall’ingiusto profitto che si intende perseguire ponendo in essere l’attività illecita.

Detta attività, inoltre, contempla una serie di azioni già previste da altre disposizioni come autonome ipotesi di reato (attività di gestione abusiva di rifiuti) che devono però essere poste in essere “con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate” e riguardare quantitativi di rifiuti definiti “ingenti”.

Il riferimento alla natura abusiva delle attività di gestione sembra peraltro superflua per il fatto che non sarebbe logico prevedere, in alternativa, operazioni ed allestimenti di mezzi e attività in correlazione con condotte di gestione di rifiuti non abusive. Inoltre, si è osservato[8], altrettanto illogico sarebbe un riferimento ad una attività abusiva finalizzata ad un profitto giusto.

Riassumendo, dunque, i requisiti della condotta sono così individuabili:  

1)    Compimento di più operazioni

2)    Allestimento di mezzi e attività continuative organizzate che con l’attività descritta al punto precedente devono essere strettamente correlate, posto che il legislatore utilizza la congiunzione “e”  (“…con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate…

3)    Attività di cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione, o comunque gestione abusiva di rifiuti. Dette attività che, come si è detto, già risultano sanzionate penalmente, vengono agevolate dalle azioni propedeutiche descritte nei capi precedenti

4)    La  condotta deve riguardare un quantitativo “ingente” di rifiuti.

Ciò posto, se anche – come pure si è detto in precedenza – la genericità dei termini utilizzati nella descrizione della condotta può ampliare notevolmente l’ambito di operatività della fattispecie, la analoga genericità del termine “ingente” riferito al quantitativo dei rifiuti può risultare di difficile interpretazione.

A tale proposito basti ricordare la copiosa giurisprudenza creatasi con riferimento ad altra norma (l’articolo 80 II comma del D.p.r. 30990 in tema di stupefacenti) che pure utilizza l’aggettivo “ingente”.

Sicuramente la valutazione che il giudice dovrà effettuare nel considerare la quantità di rifiuti dovrà fondarsi su criteri obiettivi e non soggettivi che prescindano dal dato meramente quantitativo quali, ad esempio, la pericolosità per l’ambiente e la salute dei cittadini (è di tutta evidenza l’incidenza della natura del rifiuto, pericoloso o non) ricordando anche che la giurisprudenza, proprio in tema di stupefacenti, ha avuto modo di precisare che il temine “ingente” indica un valore molto elevato nella scala delle quantità ma non ne raggiunge i vertici, esprimibili con aggettivazioni più appropriate (“enorme”, “sproporzionato”, “spropositato” etc.)[9] .

Non meno criticabile appare poi il contenuto della circostanza aggravante prevista dal secondo comma e riguardante “rifiuti ad alta radioattività”.

A tale proposito si è osservato[10] come venga fatto riferimento, in una norma contenuta nel D.Lv. 2297, ad una tipologia di rifiuti che detto decreto espressamente indica come sottratti alla sua disciplina nell’articolo 8, comma primo, lettera a).

Detta tipologia di rifiuti, come è noto, è trattata dal D.Lv 23095 così come modificato dagli interventi operati dal legislatore nel 2000 e nel 2001. Sono considerati come tali, secondo la definizione datane dall’articolo 4, comma terzo, lettera i) del citato D.Lv. “qualsiasi materia radioattiva, ancorché contenuta in apparecchiature o dispositivi in genere, di cui non è previsto il riciclo o la riutilizzazione”[11].

Nella stessa occasione si è poi rilevato che il termine “rifiuti ad alta radioattività” non appartenente a classificazioni scientificamente accettate in quanto “nel linguaggio non tecnico per "rifiuti ad alta radioattività" o ad "alta attività" si intendono , in genere, i rifiuti provenienti da impianti nucleari , tuttavia la normativa attualmente vigente ( D.Lgv.230/95 come modificato ed integrato dal D.lgv.241/00 quando si riferisce a detta tipologia di rifiuti li indica testualmente come " rifiuti provenienti da impianti ci cui al capo VII ".[12]

E’ espressamente prevista (terzo comma) l’applicabilità, in caso di condanna, delle pene accessorie della interdizione dai pubblici uffici, dell’interdizione da una professione o da un’arte, dell’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione con le limitazioni di cui all’articolo 33 C.P. che, però, riguarda i delitti colposi categoria alla quale non appartiene la violazione in esame per la quale è espressamente richiesto, come già si è detto, il dolo specifico.

Questo riferimento, come si è osservato, altro non sarebbe se non  il risultato dell’approssimazione con la quale è stata redatta la norma[13]. 

 

Non minori perplessità hanno destato i contenuti dell’ultimo comma della disposizione in esame.

Si prevede infatti che il giudice debba ordinare, con la sentenza di condanna o con quella emessa a seguito di “patteggiamento”, il “ripristino dello stato dell’ambiente”, figura sinora sconosciuta, senza ulteriori precisazioni che consentano di comprendere la portata ed il senso della disposizione.

Nell’intero “decreto Ronchi” si è fatto osservare[14] viene utilizzata nell’articolo 17 e nel DM 47199 ad esso intimamente collegato, altra terminologia (ripristino ambientale delle aree inquinate “ con riferimento a indici di inquinamento dei siti individuati legislativamente) e la mancanza di una definizione normativa del termine “ambiente”[15] rende ancor più vaga la portata della disposizione.

Lo stesso comma prevede, infine, che la sospensione condizionale della pena sia subordinata – “ove possibile” – “all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente”.

Anche i questo caso la genericità dell’indicazione ed il riferimento alla facoltà concessa al giudice, di subordinare la sospensione della pena ad adempimenti indicati in modo del tutto vago rendono particolarmente difficoltosa l’individuazione degli adempimenti medesimi.

Non desta minori preoccupazioni, inoltre, la precisazione contenuta nell’espressione “ove possibile” che potrebbe prestarsi a defatiganti discussioni circa l’impossibilità per il giudicando che richiede l’applicazione del beneficio, di procedere in base alle tecnologie disponibili all’eliminazione delle conseguenze della sua condotta. Situazione, questa., che è facile prevedere attesi i costi per operazioni del genere.

A fronte di tanta confusione, verosimilmente dovuta alla fretta con la quale si è scritta la disposizione a fine legislatura, gli strumenti offerti ed i risultati pratici conseguiti consentono di superare ogni perplessità.

Nonostante il limitato lasso di tempo trascorso dall’entrata in vigore dell’articolo 53bis, l’utilizzazione fattane dalla magistratura inquirente ha portato a risultati notevoli che altre disposizioni già in vigore non avrebbero consentito.

Tutti i provvedimenti cautelari adottati, inoltre, hanno trovato conferma in sede di riesame e, in un caso, da parte della Corte di cassazione.


[1] Per un esame approfondito ed esaustivo dell’intera disciplina v. BELTRAME “Gestione dei rifiuti e sistema sanzionatorio” PADOVA, 2000

[2] Corte Cost. sent. 4561998

[3] Si condivide appieno l’osservazione del chiaro Autore nel commento alla citata pronuncia in Dir. Pen. e proc. 1996 pag. 186

[4] La singolare scelta, come da più parti osservato, è stata effettuata a seguito delle prevedibili pressioni del mondo dell’impresa.  Si veda, in dottrina, PASCULLI “Questioni insolute ed eccessi di delega nel D.Lvo n. 2311” in Riv. Pen. 92002  pag.739  

[5] AMENDOLA “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti: introdotto il primo delitto contro l’ambiente, commento alla legge 23 marzo 2001 n. 93 in Dir. Pen. e proc., 2001 pag. 708

[6] Proposta modificata di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla tutela dell'ambiente attraverso il diritto penale in GUCE del 28 gennaio 2003

[7] Si vedano per tutti, oltre all’opera di AMENDOLA citata in precedenza, anche le osservazioni di PRATI “Il nuovo reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti: una norma problematica” in Ambiente - Consulenza e pratica per l'impresa n. 72001 pag. 625 e ss. e VERGINE “Sul delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti “ (in Banca dati Lexambiente www.lexambiente.it)
[8] Vergine, op. cit.
[9] V. ex pl. Cass. Sez. VI n. 8637 del 2491996
[10] VERGINE, op. cit.
[11] Per una trattazione completa della materia si rinvia al lavoro di VERGINE – GIROILETTI “Radiazioni ionizzanti”, Napoli 2003
[12] VERGINE, op. cit.
[13] Così PRATI “Il nuovo reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti: una norma problematica” in Ambiente - Consulenza e pratica per l'impresa n. 72001 pag. 625 e ss.
[14] VERGINE op. cit.
[15] Sulla questione relativa alla individuazione giuridica della nozione di a,ambiente mi permetto di rinviare a RAMACCI “Manuale di diritto penale dell’ambiente” Padova 2003, Cap. I