Consiglio di Stato Sez. IV n. 2725 del 20 marzo 2024
Rifiuti.Fonti inquinanti costituite da rifiuti stoccati e messa in sicurezza soggetta al regime autorizzatorio previsto per le discariche
L’art. 3, comma 3, del d.l. 25 gennaio 2012, come novellato dal d.lgs. 77/2021, convertito con modifiche dalla legge 108/2021, nell’affermare, ai fini dell’interpretazione autentica dell’art. 185 del D.lgs. n. 152/2006, l’equiparazione al suolo (e la gestione attraverso i soli procedimenti di bonifica) si riferisce alle “…matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione…”, ragione per cui non può trovare applicazione nella fattispecie, ricorrente nel caso in esame, in cui il materiale non sia, in grandissima parte, qualificabile come “riporto” ma come residuo di attività produttive, identificabile pertanto quale come rifiuto. In favore di questa conclusione depone l’evoluzione della rilevante normativa di settore. Dal quadro regolatorio emerge che, nell’ipotesi in cui le fonti inquinanti siano costituite da rifiuti stoccati, la messa in sicurezza deve trovare collocazione nel quadro del più ampio regime autorizzatorio di cui al Titolo IV previsto per le discariche di rifiuti. Ne discende che qualora nell’ambito di un procedimento di bonifica sia prevista la messa in sicurezza permanente mediante la realizzazione di un volume confinato qualificabile come rifiuto, tale intervento, pur se autorizzato nell’ambito di un procedimento di cui alla Parte Quarta, Titolo Quinto, del d.lgs. n. 152/2006, necessita di tutti i titoli necessari alla sua realizzazione restando conseguentemente la MISP assoggettata al regime autorizzatorio delle discariche di rifiuti di cui al citato Titolo IV.
Pubblicato il 20/03/2024
N. 02725/2024REG.PROV.COLL.
N. 08088/2023 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8088 del 2023, proposto da Enel Produzione S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Angelo Crisafulli, Matteo Benozzo, Francesco Bruno, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
Regione Autonoma della Sardegna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Mattia Pani, Giovanni Parisi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Comune di Portoscuso, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Silvio Pinna, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giorgio Carta in Roma, viale Parioli 47;
Inail, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Luciana Romeo, Renata Tomba, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima) n. 00548/2023.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, della Regione Autonoma della Sardegna, di Inail e di Comune di Portoscuso;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 gennaio 2024 il Cons. Luigi Furno e uditi per le parti gli avvocati come da verbale;
FATTO
Enel Produzione S.p.A. (d’ora in avanti anche “ENEL”) è proprietaria di un terreno di circa 14 ettari, denominato “Area 5”, in prossimità della sua centrale termoelettrica nel Sulcis (“Grazia Deledda”).
L’Area 5 era di proprietà comunale fino al 1961, per poi essere ceduta alla SMCS – Società Mineraria Carbonifera Sarda perché fosse adibita- su autorizzazione dello stesso Comune - “...alla sistemazione dei rifiuti della propria Centrale Termoelettrica”.
Il sito presentava originariamente una morfologia irregolare e delle depressioni naturali ma venne progressivamente modificato fino ad un livellamento totale al piano campagna in conseguenza del posizionamento in esso – fino al 1965 - delle ceneri di carbone originate dalla centrale, frammiste a terriccio e altri materiali.
Al momento dell’acquisizione dell’impianto da parte di ENEL, a seguito della nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’Area 5 si presentava nello stato in cui attualmente versa.
Dalla nazionalizzazione della centrale nel 1965 e fino al 1989, infatti, l’ENEL eseguiva gli abbancamenti sopra il livello del suolo, in sovrapposizione ai materiali già in posto, ma detto deposito successivo di ulteriori ceneri in loco venne rimosso nella sua totalità dalla stessa Società a partire dal 1990 quando, con DPCM del 30 novembre 1990, il territorio del Sulcis-Iglesiente venne dichiarato nel suo insieme dal Governo nazionale (inclusa quindi l’Area 5) “Area ad elevato rischio di crisi ambientale”, e venne approvato uno specifico “Piano di Disinquinamento del Sulcis-Iglesiente”.
In particolare, nei successivi tre anni da tale dichiarazione, l’Enel rimuoveva e smaltiva oltre 600.000 tonnellate di materiale stoccato, riportando l’Area 5 alla condizione e allo stato ante nazionalizzazione (quindi al 1965, sostanzialmente nelle condizioni in cui le era stata consegnata dalla società mineraria).
In seguito, poi, ipotizzando di destinare l’Area 5 ad attività differenti, a metà degli anni ‘90 l’ENEL operava un livellamento di tutto il sito con materiali di riporto provenienti da una vicina cava, per consentire l’installazione provvisoria di un’area cantiere.
L’installazione però non avveniva e l’Area 5 veniva definitivamente dismessa da attività.
Su richiesta del Comune, tra il 1990 e il 2003, l’ENEL sviluppava un nuovo progetto di intervento ambientale, ipotizzando ulteriori rimozioni di materiali, recupero di quanto possibile dell’esistente ed invio off site del resto, il cui piano definitivo di “Sistemazione dei siti interessati dalla presenza di ceneri di carbone, terreni di riporto e materiali di scavo nell’area della Centrale Sulcis” veniva preso in esame dal Comune ai sensi del d.m. 25 ottobre 1999, n. 471.
Nel marzo 2003, la centrale e la stessa l’Area 5 venivano inserite nella perimetrazione del SIN “Sulcis-Iglesiente-Guspinese” e, quindi, sottoposte al programma nazionale di cui alla legge 9 dicembre 1998, n. 426, con competenza esclusiva per le bonifiche del MATTM e sospensione e revisione di tutti i progetti locali di intervento sino a quel momento sviluppati.
In tale nuovo contesto ENEL avviava - tra il 2005 e il 2006 - una nuova caratterizzazione dell’Area 5, approfondendo le indagini con ulteriori verifiche in campo tra il 2011 e il 2012.
Il risultato di tali approfondimenti consentiva di stimare in 245.000 mc il volume presente in sottosuolo (tra 1,7 e 5 mt dal piano campagna, inclusi 35.000 mc a livello di sottofalda) e lì allocato dal precedente proprietario (SMCS, su autorizzazione comunale), composto da ceneri di carbone frammiste a terriccio e sterili di miniera.
ENEL presentava quindi un progetto e un’analisi di rischio che, in sede di Conferenza di Servizi decisoria del 27 novembre 2013, il MATTM respingeva sostenendo che il Volume fosse “una fonte attiva di contaminazione”, per cui la Società avrebbe dovuto presentare “un progetto complessivo di Messa in Sicurezza Permanente dell’intera area, la cui realizzazione potrà essere attuata per lotti funzionali privilegiando quegli ambiti territoriali che, sulla base delle informazioni già acquisite, presentano la maggiore criticità ambientale”.
ENEL presentava allora un secondo progetto di Messa in Sicurezza che prevedeva la realizzazione di un modulo di confinamento permanente (un c.d. Confined Disposal Facility – CDF) finalizzato all’isolamento totale e definitivo del Volume.
In sostanza, dal momento che il Volume interessava solo metà dell’Area 5, il progetto – condiviso e affinato nel suo contenuto in ottemperanza alle varie richieste e prescrizioni e ai confronti con gli Enti interessati – prevedeva:
1) un primo scavo di tutto il Volume (compresi i circa 35.000 mc sotto falda), per collocarlo temporaneamente sulla metà dell’Area 5 non interessata da escavazioni;
2) il riempimento dello scavo con terreno certificato fino a raggiungere il piano di posa di uno strato insaturo (a circa +3.5 mt s.l.m.);
3) la posa in opera di tale strato insaturo (una barriera di argilla di circa 2 mt di spessore) e sulla sommità, nonché sulle pareti laterali dello scavo, lo stendimento di uno strato di materiale isolante in HDPE;
4) la ricollocazione del Volume all’interno dello scavo da coprire in superficie con un ulteriore strato impermeabilizzante in HDPE (il c.d. capping) e con materiale e terreni di copertura certificati da piantumare.
L’opera si sarebbe dovuta concludere con la realizzazione di un canale in calcestruzzo armato destinata all’inalveamento del tratto terminale del Riu Perdaias, così da eliminare ogni possibile rischio idraulico gravante sull’area; e per la riqualificazione post-operam, ENEL proponeva la realizzazione sulla sommità della copertura di un parco fotovoltaico da 4.2 MWp e l’organizzazione di una attività di monitoraggio con stima preliminare per un quinquennio.
Con nota n. 12091/STA del 17 giugno 2019 veniva indetta dalla Direzione Generale per la Salvaguardia del Territorio e delle Acque del MATTM la conferenza dei servizi istruttoria per la valutazione del progetto in questione.
Con nota prot. 0015884 dell’1.8.2019 il MATTM comunicava a ENEL, all’esito della conferenza e tenuto conto dei pareri resi dagli enti interessati, i motivi ostativi ex art. 10-bis L. n. 241/1990 alla conclusione positiva del procedimento, invitando la proponente a presentare le proprie osservazioni.
Con nota del 30 settembre 2019 ENEL trasmetteva al MATTM le proprie osservazioni ed integrazioni progettuali chiedendo, in ragione della complessità della materia, la convocazione di un tavolo tecnico al fine di superare le rilevate criticità.
Con nota prot. n. 20370 del 7 ottobre 2019 il Ministero convocava detta riunione tecnica per il 7 novembre 2019 all’esito della quale gli Enti competenti così sinteticamente concludevano:
- i materiali presenti nel sito sono da considerarsi rifiuti ed il MATTM si riservava di approfondire l’aspetto autorizzativo della Confined Disposal Facility (CDF), anticipando che, in ogni caso, sarebbe stata richiesta l'assoggettabilità alla procedura di VIA;
- la documentazione trasmessa non era esaustiva e, pertanto, ai fini di una adeguata valutazione del progetto da parte degli Enti, era necessario che Enel provvedesse a trasmettere un’analisi comparativa tra le soluzioni on site (realizzazione della CDF) e off site (smaltimento dei materiali nella Regione Sardegna o fuori dalla stessa) relativamente ai costi, ai benefici e ai tempi di esecuzione al fine di avere un quadro complessivo più dettagliato e di conseguenza maggiori elementi per una valutazione
congrua e definitiva;
- gli Enti chiedevano di dettagliare i costi da sostenere per il monitoraggio trentennale per la gestione della discarica, non limitato, dunque, a 5 anni, come proposto nel progetto di ENEL.
In particolare, il Servizio VIA dell’Assessorato Regionale della Difesa dell’Ambiente, con nota prot. n. 23020 del 6 novembre 2019, fermi restando i dubbi interpretativi sull’effettivo inquadramento normativo dei materiali oggetto di intervento, riteneva che l’intervento in esame, quanto alla Confined Disposal Facility, doveva essere ricondotto alla categoria di cui all’Allegato A1 punto 13 della D.G.R. n.45/24 del 2017 (“impianti di smaltimento di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di deposito preliminare, con capacità superiore a 150.000 mc oppure con capacità superiore a 200 t/ giorno”), da sottoporre, dunque, alla procedura di valutazione di impatto ambientale, di competenza regionale, da attivarsi su istanza di Enel secondo le modalità di cui al richiamato Allegato A della DGR n. 45/24 del 2017 ed alla DGR n. 53/14 del 2017.
Dando esecuzione a quanto sopra indicato, il 21 febbraio 2020 l’ENEL trasmetteva un documento in cui, oltre all’aggiornamento dei costi di monitoraggio su base trentennale, svolgeva l’analisi comparativa della soluzione proposta nel progetto (la MISP con Volume confinato: “Scenario 0”) con due scenari di scavo ed asportazione off site del materiale presente nel Volume e sostituzione con terreno certificato:
a) un primo scenario che ipotizzava lo smaltimento in discariche esistenti o da costruire solo sul territorio regionale (Scenario 1);
b) un secondo scenario che prevedeva l’utilizzo in parte di discariche interne alla Regione (30% dei volumi pari a 73.500 mc), ricorrendo per il resto (70% dei volumi pari a 171.500 mc) a discariche fuori Regione (Scenario 2).
Le diverse ipotesi prospettate evidenziavano diversi valori sia in ordine ai costi da sostenere sia in ordine ai tempi di realizzazione dell’intervento.
Secondo l’ENEL, sia dal punto di vista ambientale che sociale, lo “Scenario 0” (la MISP con Volume confinato) sarebbe quello più sostenibile e, addirittura, sarebbe quello maggiormente in linea con la disciplina della Regione che nell’ultimo Piano Regionale Bonifica delle Aree Inquinate di febbraio 2019 (“PRB”), espressamente prevede che per volumetrie superiori a 100.000 mc, le soluzioni da preferire sarebbero dovute essere quelle interne agli stessi siti in bonifica, per evitare di gravare sulle complessive capacità di smaltimento del sistema regionale delle discariche.
Con il provvedimento di cui alla nota prot. 77423 del 2 ottobre 2020, impugnato da ENEL con il ricorso principale, il Ministero resistente rispondeva a dette osservazioni, richiamando gli allegati pareri resi sulle osservazioni medesime dal Servizio Tutela Atmosfera e Territorio della Regione
Sardegna, da ISPRA e da ARPAS e così precisava:
“relativamente all’inquadramento tecnico/normativo della soluzione progettuale proposta si ritiene che la realizzazione di un’area per il confinamento permanente dei rifiuti ivi presenti, unitamente a rifiuti provenienti da altre porzioni del sito, ricade nell’ambito di applicazione della normativa di cui alla Parte Quarta, Titolo Primo del d.lgs. n. 152/2006 (“Gestione dei rifiuti”) e ai sensi di tale disciplina vada autorizzata», per cui, «dovranno essere avviate presso l’Autorità competente le procedure autorizzative» relative e non quelle di cui al Titolo V sulle bonifiche”.
In ragione di quanto sopra il MATTM concludeva:
“si chiede a Codesta Azienda, al fine di proseguire con l’iter istruttorio, di trasmettere un documento che contenga la scelta progettuale selezionata dal proponente aggiornata con le indicazioni contenute nei pareri allegati e, come previsto dall’allegato 3 al Titolo V della Parte Quarta del 152/06, le analisi comparativa delle diverse tecnologie di intervento applicabili al sito in esame, già sviluppate nel documento in oggetto.
Inoltre, dovranno essere avviate presso l’Autorità competente le procedure autorizzative ai sensi del precedente capoverso”.
Con ricorso di primo grado ENEL ha impugnato quest’ultima determinazione per i seguenti motivi:
1)Violazione e falsa applicazione degli artt. 208, 240, lett. o, 242 e 252 del codice dell’ambiente, del decreto discariche, dell’art. 3 del d.l. n. 2/2012, come novellato dall’art. 41 del d.l. n. 69/2013, delle “linee guida” redatte dal commissario delegato per l’emergenza ambientale delle aree minerarie del Sulcis iglesiente e del guspinese ai sensi del d.p.c.m. 21 dicembre 2007 e del o.p.c.m. 15 gennaio 2008, n. 3640 e dell’art. 97 Cost. - Eccesso di potere in tutte le figure sintomatiche, tra cui l’errore e la falsità dei presupposti, il travisamento dei fatti e l’erronea loro valutazione, lo sviamento e la mancata valutazione degli scritti di parte: in quanto la nota impugnata avrebbe erroneamente ordinato, nel confinamento del Volume, l’avvio di una procedura autorizzatoria ex Titolo I della Parte Quarta del Codice dell’ambiente, e non già l’approvazione dell’intervento di MISP ai sensi del Titolo V;
2) Violazione e falsa applicazione degli artt. 242 e 252 del codice dell’ambiente, nonché degli artt. 1, 3, 6 e 10 della legge n. 241/1990 - Eccesso di potere sotto ogni profilo e, in particolare, per difetto di motivazione: in quanto il MATTM pur sollecitato dai pareri della Regione, dell’ISPRA e di ARPAS sulla questione relativa all’inquadramento tecnico/normativo della soluzione progettuale proposta, in particolare se MISP ai sensi della normativa di settore o, viceversa, discarica, e come tale autorizzata, avrebbe adottato la soluzione contestata senza spendere nessuna argomentazione posta a fondamento della sua decisione;
3)Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 242 e 252 del codice dell’ambiente, nonché degli artt. 1, 6, 10 e 14 della legge n. 241/1990 - Eccesso di potere sotto ogni profilo e figura sintomatica, con particolare riferimento all’errore e falsità dei presupposti, al travisamento dei fatti e all’erronea loro valutazione, all’incompletezza dell’istruttoria, allo sviamento e alla mancata valutazione degli scritti di parte: in quanto diversamente da quanto accennato nella nota ministeriale, nell’area non sarebbero presenti rifiuti diversi ed ulteriori se non il materiale di riporto in cui consiste il volume;
4)Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 97 della Cost., nonché degli artt. 1, 3, 6 e 10 della legge n. 241/1990 - Violazione dei principii economicità, di uguaglianza, di imparzialità e proporzionalità - Eccesso di potere per disparità di trattamento e contraddittorietà nell’agire amministrativo: in quanto la nota impugnata comporterebbe l’azzeramento del lavoro e delle interlocuzioni portate avanti con gli enti in 7 anni di studio della situazione che hanno consentito l’elaborazione di un progetto completo e pronto per la sua esecuzione, e solo per cambiare contesto autorizzativo, imponendo l’avvio di un diverso procedimento di amministrativo per una discarica, in violazione del principio di proporzionalità per il quale la pubblica amministrazione deve adottare la soluzione più idonea ed adeguata al caso concreto al fine di arrecare il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti.
Con ricorso per motivi aggiunti, depositato il 17 novembre 2021, l’ENEL ha impugnato il provvedimento del 3 agosto 2021, prot. n. 85408, con il quale lo stesso Ministero ha comunicato la conclusione negativa del procedimento per non aver la Società chiesto “l’autorizzazione ai sensi della normativa rifiuti”(Parte Quarta, Titolo Primo del d.lgs. n. 152/2006).
Il T.a.r Sardegna, con decisione 18 luglio 2023, n. 548, ha respinto il ricorso.
Contro tale decisione Enel ha proposto appello chiedendo la parziale riforma della sentenza impugnata.
Si sono costituiti nel presente giudizio il Comune di Portoscuro, la Regione Sardegna e il Ministero dell’Ambiente, chiedendo di dichiarare l’appello inammissibile e, in ogni caso, infondato.
Si è costituita nel presente giudizio Inail, chiedendo la dichiarazione del proprio difetto di legittimazione passiva.
In vista dell’udienza del 25 gennaio 2024, le parti hanno depositato memorie con le quali hanno chiarito e ulteriormente argomentato la fondatezza delle rispettive posizioni difensive.
All’udienza del 25 gennaio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
L’appello non è fondato.
In via preliminare il Collegio rileva che può prescindersi dalle eccezioni in rito riproposte dal Comune di Portoscuro, ai sensi dell’art. 101 del c.p.a, essendo l’appello infondato nel merito.
Sempre in via preliminare, il Collegio rileva il difetto di legittimazione passiva di Inail, e ne dispone la conseguente estromissione dal presente giudizio, dal momento che quest’ultima non ha effettuato, nell’ambito del procedimento amministrativo da cui sono scaturiti gli atti oggetto di contestazione da parte di Enel, alcun intervento decisorio.
Ciò premesso, con un primo mezzo di gravame l’Enel deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha considerato che le ceneri presenti nella Area 5 della Centrale Termoelettrica Enel Sulcis erano state ivi stoccate dalla precedente proprietà della centrale dietro regolare autorizzazione amministrativa rilasciata nell’anno 1961.
Ad avviso della società appellante, il T.a.r. avrebbe dovuto, in applicazione del principio del tempus regit actum, ritenere legittimo l’utilizzo dei residui di produzione nel livellamento dell’Area 5 perché le norme in vigore al momento del rilascio della predetta autorizzazione consentivano tale utilizzo senza limitazioni di sorta.
Diversamente, a giudizio di Enel, la sentenza impugnata avrebbe avallato una interpretazione che applica retroattivamente alla fattispecie in esame una normativa sopravvenuta.
Il motivo non è fondato.
In senso contrario occorre rilevare che, a prescindere dalla fondatezza in fatto della ricostruzione effettuata da Enel, la questione controversa nel presente giudizio attiene, non alla legittimità dello stoccaggio delle ceneri nell’Area 5 da parte della società dante causa di Enel Produzione SpA, ma alla qualificazione del progetto di messa in sicurezza dell’area medesima di cui allo “scenario 0”, così come ricostruito nella parte in fatto.
Ne discende che, a prescindere dal regime di regolazione dell’attività di stoccaggio realizzata nel passato, il progetto di messa in sicurezza, proprio in ottemperanza al medesimo principio del tempus regict actum, invocato dalla società appellante, deve essere disciplinato dalla vigente normativa di settore (Titoli I e V del D. Lgs. 152/2006, art. 3 del D. Lgs. 2/2012 e s.m.i.).
Sul punto va, infatti, richiamata la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio a mente della quale "La corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta che l'amministrazione debba tener conto anche delle modifiche normative intervenute durante l'iter procedimentale, non potendo al contrario considerare l'assetto "cristallizzato" una volta per tutte alla data dell'atto che vi ha dato avvio" (Cons. Stato Sez. IV, 4.11.2011, n. 5854).
Tale conclusione è, del resto, del tutto coerente con l’affermazione, altrettanto consolidata, secondo la quale, in base al principio del tempus regit actum, in caso di attività di durata le quali si perfezionano attraverso il compimento di attività poste in sequenza logico-funzionale la disciplina normativa sopravvenuta è destinata a disciplinare le situazioni giuridiche emergenti nell’ambito delle fasi non ancora compiute al momento della propria entrata in vigore (in tal senso cfr.: Cons. Stato, Sez. IV, sent. 13 ottobre 2003, n. 6185; Cons. Stato, Sez VI, 15 aprile 2010, n. 2136; in tal senso anche Cons. Stato, Sez. VI, sent. 26 maggio 1999, n. 694; Cons. Stato, sez. IV, 12.5.04, n. 2894; Cons. Stato, sez. VI, 20.7.04, n. 5252; Cons. Stato. sez IV, 7 maggio 1999 n. 799).
Con un ulteriore sub-motivo la parte appellante deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’applicazione al materiale presente nell’Area 5 delle regole sulle “matrici materiali di riporto” (e, dunque, l’applicazione disciplina sul trattamento dei rifiuti di cui al Titolo I della parte IV del T.U. 152/2006 in luogo di quella sulla disciplina del “suolo” di cui all’art. 185 del medesimo T.U.).
A sostegno dell’assunto la parte appellante invoca l’art. 3 del d.lgs. 2/2012, come novellato dal d.lgs. 77/2021, convertito con modifiche dalla legge 108/2021, il quale equiparerebbe matrici materiali di riporto al suolo quando sono costituite da una «miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito».
Ciò anche in considerazione del fatto che, essendo presenti in loco da oltre sessant’anni, le ceneri e gli sterili di miniera che compongono il volume in esame sarebbero divenuti parti della stessa orografia e stratigrafia anche geologica dell’Area 5, e, come tali esulerebbero dalla nozione di rifiuto, che, come ineliminabile presupposto, richiederebbe la mobilità e identità distintiva del bene cui la qualifica viene attribuita.
Secondo la prospettazione di Enel, infatti, le “ceneri” in esame andrebbero qualificate come “materiali di riporto” e non come rifiuti anche in ragione di quanto indicato nelle “Linee guida per la gestione dei materiali di riporto (mdr) nei siti oggetto di procedimento di bonifica” pubblicate ad agosto 2023 dal SNPA (Sistema Nazionale a rete per la Protezione dell’Ambiente).
Il sub-motivo non è fondato.
La censura non trova corrispondenza nelle risultanze processuali, dalle quali, al contrario, si ricava incontrovertibilmente che i materiali presenti nell’area di che trattasi sono da qualificare come rifiuti.
Un primo elemento a favore della qualificazione del volume in esame come rifiuto si ricava dalla nota del M.I.T.E. datata 3 agosto 2021.
A sostegno di questa conclusione depone, inoltre, chiaramente il parere di cui alla nota prot. n. 16306 del 20 luglio 2019 del competente Servizio regionale rilasciato in sede di conferenza asincrona con il quale si è chiarito che “I materiali presenti nell’Area 5 sono costituiti da una miscela eterogenea di ceneri di carbone e sterili di miniera, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno nel sito”.
Di segno analogo sono inoltre i pareri acquisiti nel corso della conferenza di servizi, quali:
· il Parere Regione Autonoma della Sardegna – Direzione Generale dell’Ambiente servizio Valutazioni Impatti e Incidenze Ambientali prot. 14610 del 9.6.22;
· il Parere di ARPA prot.n.26732/2022 del 4 agosto 2022;
· il Parere della Regione Autonoma della Sardegna -Direzione Generale dei Lavori Pubblici- prot. 32232 dell’11 agosto 2022.
Questa conclusione era stata già prefigurata in sede di tavolo tecnico il 7 novembre 2019, nell’ambito del quale il rappresentante dell’Assessorato della Difesa Ambiente evidenziava che, a fronte degli orizzonti omogenei di ceneri risultanti dalla caratterizzazione, non constava in alcun modo che le stesse fossero state utilizzate in commistione al terreno per creare “rilevati, riempimenti e/o interri”, per cui potessero avere, in base alla normativa vigente, i requisiti per essere classificati come “materiali di riporto” e non, invece, come rifiuti.
Milita, infine, a supporto di questa conclusione anche la nota prot. 14610 del 9.6.2022, con la quale la Direzione Generale dell’Ambiente della Regione Sardegna ha confermato quanto già espresso in precedenza in merito alla necessità di «sottoporre il progetto alla procedura di valutazione di impatto ambientale [...]», ritenendo il progetto riconducibile, tra le altre, alle seguenti categorie di opere «Impianti di smaltimento di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di deposito preliminare, [...]».
Neppure, per giungere a diverse conclusioni, è possibile, come fa la parte appellante, argomentare dalle citate linee guida.
In senso contrario il Collegio rileva che, anche a volere prescindere dal tema della loro qualificazione giuridica e quindi della loro discutibile efficacia regolatoria rispetto alla fattispecie in disamina, esse non possono assumere rilievo in relazione alla questione oggetto del presente giudizio in quanto successive all’adozione del provvedimento contestato.
A tal riguardo il Collegio ricorda che “È principio giurisprudenziale del tutto pacifico quello secondo cui la legittimità del provvedimento amministrativo finale deve essere accertata con riferimento alla normativa vigente al momento della sua adozione, in ossequio al principio tempus regit actum” (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 14 agosto 2020, n. 5038; id. sez. IV, 21 agosto 2012, n. 4583).
Con un secondo mezzo di gravame Enel deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha sostenuto che un «volume confinato qualificabile come rifiuto ... pur se autorizzato nell’ambito di» una bonifica «necessita di tutti i titoli necessari alla sua realizzazione» (punto 19), tra cui quelli per la “gestione di rifiuti” ex Titolo I della Parte Quarta d.lgs. 152/2006, consentendo «interventi di MISP che interessano rifiuti o matrici ambientali» solo a fronte di un «provvedimento di approvazione del relativo progetto ... ai sensi della normativa sulla gestione dei rifiuti».
Nella prospettiva della società appellante, il Giudice di prime cure avrebbe erroneamente applicato al progetto di messa in sicurezza permanente elaborato da Enel, contemplante il solo mantenimento dei materiali già presenti nell’Area 5 senza alcuna movimentazione o generazione o ricezione dall’esterno di rifiuti, la normativa che disciplina la diversa fattispecie della gestione dei rifiuti; in tal modo svuotando di significato la disciplina relativa alle bonifiche e all’istituto della messa in sicurezza permanente.
Tale conclusione, ad avviso della società appellante, non sarebbe condivisibile, dal momento che le regole di gestione dei rifiuti supererebbero l’applicazione delle norme sulle bonifiche solo in relazione ai casi in cui i rifiuti siano stati oggetto di “abbandono” o di “deposito incontrollato”, circostanza quest’ultima non ricorrente nella fattispecie di che trattasi.
A rincalzo delle precedenti argomentazioni, Enel evidenzia che la “dinamicità”, che costituirebbe, in tale prospettiva, il presupposto autorizzativo e gestionale di una discarica, è totalmente inconciliabile e incompatibile con la “staticità”, che costruirebbe, di contro, il presupposto dell’istituto della messa in sicurezza permanente
Secondo la parte appellante, una conferma di questa distinzione si ricaverebbe dal parere rilasciato dalla Commissione nell’ambito della procedura d’infrazione UE n. 2009/4426 avverso il Governo italiano, la quale procedura di infrazione, contrariamente alla fattispecie oggetto di giudizio, avrebbe avuto ad oggetto una vicenda “dinamica” nei termini dianzi indicati.
In via subordinata, la società appellante, formula una richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE affinché sia sottoposto alla Corte di giustizia il seguente quesito: se una interpretazione della disciplina nazionale in materia di bonifiche che preveda l’esecuzione di interventi di messa in sicurezza permanente senza previa autorizzazione ai sensi della direttiva 99/31/CE del Consiglio del 26.4.1999 (c.d. direttiva discariche) ma previa valutazione di impatto ambientale di cui alla direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13.12.2011 e che abbiano ad oggetto terreni contaminati e materiali allocati storicamente nel sottosuolo e negli anni consolidati e aggregati in modo compatto, tanto da divenire un tutt’uno con il suolo stesso e difficilmente scavabili per una rimozione selettiva, sia compatibile con la direttiva discariche e la disciplina comunitaria in materia di rifiuti di cui alla direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19.11.2008, ove le attività di messa in sicurezza riguardino solo fonti di inquinamento già presenti nel luogo di intervento, senza movimentazioni e conferimenti esterni di materiali e/o rifiuti da altre aree, e la cui realizzazione comporti escavazione, posa in opera di isolanti e strutture atte a garantire un elevato livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente, con ricollocamento finale dei terreni e dei materiali escavati per il loro definitivo isolamento.
Infine, la parte appellante osserva che, anche a voler per ipotesi ritenere necessaria un’autorizzazione alla discarica nella realizzazione del progetto di MISP sul Volume, comunque gli abbancamenti di che trattasi sono avvenuti in forza di un titolo autorizzatorio (la delibera comunale n. 28/20 del 1961), dacché la richiesta di un ulteriore titolo autorizzativo allo stoccaggio sarebbe del tutto ultronea. Il motivo non è fondato.
Come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, l’art. 3, comma 3, del d.l. 25 gennaio 2012, come novellato dal d.lgs. 77/2021, convertito con modifiche dalla legge 108/2021, nell’affermare, ai fini dell’interpretazione autentica dell’art. 185 del D.lgs. n. 152/2006, l’equiparazione al suolo (e la gestione attraverso i soli procedimenti di bonifica) si riferisce alle “…matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione…”, ragione per cui non può trovare applicazione nella fattispecie, ricorrente nel caso in esame, in cui il materiale non sia, in grandissima parte, qualificabile come “riporto” ma come residuo di attività produttive, identificabile pertanto quale come rifiuto.
In favore di questa conclusione depone l’evoluzione della rilevante normativa di settore.
L’art. 2, lett. i), del D.M. 471/1999, prevedeva, infatti, che per messa in sicurezza permanente dovesse intendersi l’“... insieme degli interventi atti a isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti qualora le fonti inquinanti siano costituite da rifiuti stoccati e non sia possibile procedere alla rimozione degli stessi pur applicando le migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili, secondo i principi della normativa comunitaria ...”.
L’art. 240, comma 1, lett. o), del D.Lgs. 152/2006, oggi, invece, definisce la messa in sicurezza permanente come “… l’insieme degli interventi atti a isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti e a garantire un elevato e definitivo livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente … in tali casi devono essere previsti piani di monitoraggio e controllo e limitazioni d’uso rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici …”.
L’art. 239, comma 2, del D. Lgs. n. 152/2006 specifica, poi, che quanto disposto al Titolo V non si applica “ … all’abbandono dei rifiuti disciplinato dalla parte quarta del presente decreto …”, precisando che in tale ipotesi “… qualora, a seguito della rimozione, avvio a recupero, smaltimento dei rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato, si accerti il superamento dei valori di attenzione, si dovrà procedere alla caratterizzazione dell’area ai fini degli eventuali interventi di bonifica e ripristino ambientale da effettuare ai sensi del presente titolo …”.
La modifica introdotta nell’art. 240 del d.lgs. 152/2006, rispetto al precedente DM 471/1999, con l’eliminazione dell’esplicito riferimento ai rifiuti, e la precisazione di cui al riportato co. 2 del citato art. 239, devono essere interpretate nel senso di escludere la possibilità di messa in sicurezza permanente nell’ipotesi in cui le fonti inquinanti siano costituite da rifiuti stoccati, comunque di voler assoggettare in tale evenienza la messa in sicurezza al regime autorizzatorio di cui al Titolo IV previsto per le discariche di rifiuti.
Dal riportato quadro regolatorio emerge che, nell’ipotesi in cui le fonti inquinanti siano costituite da rifiuti stoccati, la messa in sicurezza deve trovare collocazione nel quadro del più ampio regime autorizzatorio di cui al Titolo IV previsto per le discariche di rifiuti.
Ne discende che qualora nell’ambito di un procedimento di bonifica sia prevista la messa in sicurezza permanente mediante la realizzazione di un volume confinato qualificabile come rifiuto, tale intervento, pur se autorizzato nell’ambito di un procedimento di cui alla Parte Quarta, Titolo Quinto, del d.lgs. n. 152/2006,necessita di tutti i titoli necessari alla sua realizzazione restando conseguentemente la MISP assoggettata al regime autorizzatorio delle discariche di rifiuti di cui al citato Titolo IV.
Tale conclusione trova ulteriore sostegno nella nuova formulazione del comma 6 dell’art. 252, del d.lgs. n. 152/2006, il quale prevede che l’autorizzazione del progetto “ricomprende” (e non “sostituisce”, come nella precedente formulazione) le autorizzazioni e gli atti di assenso comunque denominati previsti dalla legislazione vigente per la realizzazione e l'esercizio degli impianti e delle attrezzature.
La formula utilizzata dal Legislatore, soprattutto se letta in riferimento alla pregressa formulazione, sta chiaramente ad indicare che tutti gli atti di assenso devono essere rilasciati dalle autorità ordinariamente competenti e acquisiti dal Ministero attraverso il modulo della conferenza di servizi, per essere poi ricompresi nel provvedimento di autorizzazione del progetto adottato dallo stesso Ministero.
Alla luce delle suesposte considerazioni, la diversa prospettazione, esposta da Enel nell’atto di appello, che fa leva sulla differenza tra messa in sicurezza permanente e discarica sotto il profilo della sussistenza, rispettivamente, nella prima di una vicenda statica e nella seconda di una vicenda dinamica di gestione dei rifiuti, non può essere condivisa perché priva di riscontro sul piano del diritto positivo.
Né, per le ragioni già evidenziate in relazione all’esame del primo motivo di appello, può rilevare, per giungere a diverse conclusioni, la circostanza, peraltro non debitamente documentata, secondo cui abbancamenti di che trattasi sono avvenuti in forza di un titolo autorizzatorio (la delibera comunale n. 28/20 del 1961).
Il Collegio ritiene, inoltre, che non vi siano i presupposti per disporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per le ragioni che seguono.
La Corte di Giustizia dell’U.E., Grande Sezione, 6 ottobre 2021, in causa C-561/19 ha chiarito che:
I) la valutazione sulla rilevanza della questione posta sia di esclusiva competenza del giudice, il cui obbligo di rinvio viene meno nel caso in cui la questione non possa influire sull'esito della controversia;
II)spetta solo al giudice "valutare, sotto la propria responsabilità, in maniera indipendente e con tutta la dovuta attenzione", se si trovi in una delle ipotesi che consentono di derogare all'obbligo di rinvio;
III) l'istituto del rinvio pregiudiziale non è un rimedio giuridico esperibile dalle parti di una controversia dinanzi a un giudice nazionale: non è sufficiente che una parte sostenga che la controversia ponga una questione di interpretazione perché il giudice nazionale sia obbligato a sollevare tale questione. In particolare, in relazione a tale punto centrale del suo itinerario argomentativo, la Corte di giustizia ha testualmente affermato che “la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di queste altre letture appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, segnatamente alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione”;
IV) rispetto all'assenza di ogni ragionevole dubbio, necessaria per derogare all'obbligo del rinvio pregiudiziale, essa va valutata con particolare attenzione quando vi siano orientamenti giurisprudenziali divergenti in uno o più Stati membri: con la conseguenza che "il pacifico diritto vivente [...] è condizione sufficiente per rendere flessibile l'obbligo".
Applicando tali coordinate al caso di che trattasi, rileva il Collegio che, in relazione alle disposizioni invocate dalla parte appellante, anche alla luce del contesto in cui si inseriscono e delle finalità da esse perseguite, non sussiste alcun dubbio interpretativo.
Depone in favore di tale conclusione il parere motivato che in data 26 marzo 2015 la Commissione europea ha inviato all’Italia, ex art. 258 de TFUE (procedura d’infrazione 2009/4426), con il quale ha chiesto di rispettare la normativa ambientale europea per garantire che il progetto di risanamento di uno stabilimento chimico dismesso, in Liguria, non ponga rischi per la salute umana o per l'ambiente.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla parte appellante, il caso riguardava una fattispecie analoga a quella in esame, ovvero il risanamento di una ex area industriale sita a Cengio sulla quale si trova una discarica per terreni inquinati e rifiuti pericolosi. A tal riguardo la Commissione ha chiarito che, ai sensi della direttiva 85/337/CE (direttiva sulla valutazione dell'impatto ambientale) i progetti per i quali si prevede un impatto ambientale rilevante, per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, devono essere sottoposti a una valutazione dell'impatto prima che venga concessa l'autorizzazione. Ciò in quanto la valutazione dell'impatto ambientale è obbligatoria per gli impianti di smaltimento destinati a discarica di rifiuti.
Per meglio intendere l’assenza nel caso in esame di dubbi interpretativi, giova premettere che l’istituto della messa in sicurezza permanente, nella sua originaria configurazione, consisteva, secondo la definizione offerta dall’art. 2, lettera i), del decreto ministeriale 25 ottobre 1999, n. 471 (Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni e integrazioni), in un insieme di interventi, posti in essere nel corso della bonifica di un sito inquinato, atti ad isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti, qualora le fonti inquinanti fossero costituite da rifiuti stoccati e non fosse possibile procedere alla rimozione degli stessi a costi sopportabili, pur applicando le migliori tecnologie disponibili. La messa in sicurezza permanente era, dunque, originariamente riferita ai soli materiali, presenti in un sito inquinato, qualificabili come rifiuti.
Fra le misure che contraddistinguevano i richiamati interventi di isolamento vi era, in particolare, quella della realizzazione di discariche per la messa in sicurezza permanente e di impianti di trattamento dei rifiuti prodotti in corso di bonifica; operazione da effettuare seguendo i criteri e le modalità prescritti dal d.lgs. n. 36 del 2003, di attuazione della direttiva 1999/31/CE.
Secondo l’art. 3, comma 1, dello stesso decreto legislativo, infatti, «le disposizioni del presente decreto si applicano a tutte le discariche, come definite dall’articolo 2, comma 1, lettera g)», ossia alle «aree adibite a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno. Sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno». Dal combinato disposto di queste previsioni normative emerge, dunque, che le discariche per la messa in sicurezza permanente sono ricomprese nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 36 del 2003 e che ad esse si applicano criteri e modalità ivi previsti.
Più di recente, il d.lgs. n. 152 del 2006, all’art. 240, comma 1, lettera o), ha ridefinito la messa in sicurezza permanente in termini maggiormente comprensivi, stabilendo che essa si concreta nell’«insieme degli interventi atti a isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti e a garantire un elevato e definitivo livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente». Attualmente, pertanto, gli interventi in questione, in aggiunta a quelli già sopra delineati, possono riguardare anche fonti inquinanti non qualificabili come rifiuti, come, ad esempio, il suolo contaminato (art. 185, comma 1, lettera b, cod. ambiente) o matrici materiali di riporto (art. 3, comma 1, del d.l. n. 2 del 2012, come convertito).
Tali approdi interpretativi sono stati confermati dalla recente decisione della Corte costituzionale, 25 gennaio 2023, n. 50., che, proprio partendo dalle suindicate premesse interpretative, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la legge della Regione Lombardia 20 maggio 2022, n. 9 (Legge di semplificazione 2022).
Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, e del ricostruito quadro normativo, l’interpretazione del diritto dell’Unione invocato dall’appellante si impone nel caso in esame con un’evidenza tale da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio. Tale conclusione va affermata in base alle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, e all’assenza di contrasti interpretativi sul tema in disamina.
Con un terzo motivo di gravame la parte appellante deduce che la sentenza impugnata avrebbe omesso di pronunciare sugli ulteriori motivi formulati con il ricorso di primo grado, limitandosi a trattarne tre.
Per tale motivo assume di volere riproporre tutti i motivi di impugnazione formulati in primo grado avverso i due atti (Nota e Provvedimento) chiedendone l’accoglimento e rinviando alle argomentazioni svolte nei due ricorsi, principale e per motivi aggiunti, di primo grado.
Il motivo, così come formulato, è inammissibile.
Il Collegio rileva che, in ordine alla natura, al fondamento ed alla consistenza dei doveri di chiarezza e specificità degli atti di impugnazione, ed alle conseguenze discendenti dalla loro violazione, la Sezione non intende discostarsi dai principi elaborati dalla giurisprudenza civile ed amministrativa (da ultimo esaustivamente, anche per i richiami ivi contenuti, cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 4413/2018; sez. IV n. 247/2019), secondo i quali:
a) gli artt. 3, 40 e 101, cod. proc. amm, intendono definire gli elementi essenziali del ricorso, con riferimento alla causa petendi (i motivi di gravame) ed al petitum, cioè la concreta e specifica decisione richiesta al giudice; con particolare riguardo alla stesura dei motivi, lo scopo delle disposizioni è quello di incentivare la redazione di ricorsi dal contenuto chiaro e di porre argine ad una prassi in cui i ricorsi, oltre ad essere poco sintetici non contengono una esatta suddivisione tra fatto e motivi, con il conseguente rischio che trovino ingresso i c.d. “motivi intrusi”, ossia i motivi inseriti nelle parti del ricorso dedicate al fatto, che, a loro volta, ingenerano il rischio della pronuncia di sentenze che non esaminano tutti i motivi per la difficoltà di individuarli in modo chiaro e univoco e, di conseguenza, incorrano nel rischio di revocazione;
b) la chiarezza e specificità degli scritti difensivi (ed in particolare dei motivi) si riferiscono all’ordine delle questioni, al linguaggio da usare, alla correlazione logica con l’atto impugnato (sentenza o provvedimento che sia), alle difese delle controparti; ne consegue che è onere della parte ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, così evitando la prolissità e la contraddittoria commistione fra argomenti, domande, eccezioni e richieste istruttorie;
c) l’inammissibilità dei motivi di appello non consegue solo al difetto di specificità di cui all’art. 101, co. 1, cod. proc. amm, ma anche alla loro mancata “distinta” indicazione in apposita parte del ricorso a loro dedicata, come imposto dall’art. 40, cod. proc. amm, applicabile a giudizi di impugnazione in forza del rinvio interno operato dall’art. 38, cod. proc. amm;
d) gli oneri di specificità e chiarezza incombenti sulla parte ricorrente (e sul suo difensore, che tecnicamente la assiste in giudizio) trovano il loro fondamento:
I) nell’art. 24 Cost., posto che solo una esposizione chiara dei motivi di ricorso o, comunque, delle ragioni che sorreggono la domanda consente l’esplicazione del diritto di difesa delle altre parti evocate in giudizio;
II) nella loro strumentalità alla attuazione del principio di ragionevole durata del processo, ex art. 111, comma secondo, Cost., poiché un giudizio impostato in modo chiaro e sintetico, quanto alla causa petendi ed al petitum, rende più immediata ed agevole la decisione del giudice, evita l’attardarsi delle parti su argomentazioni ed eccezioni proposte a mero scopo tuzioristico, rende meno probabile il ricorso ai mezzi di impugnazione e, tra questi, in particolare al ricorso per revocazione, a maggior ragione se proposto con finalità meramente dilatorie del passaggio in giudicato della decisione;
III) nella necessità della difesa “tecnica”, il che contribuisce a rendere evidente la natura della professione legale quale “professione protetta”, ai sensi dell’art. 33, quinto comma, Cost. e degli artt. 2229 e seguenti del codice civile (cfr. Corte cost., 17 marzo 2010 n. 106);
IV) nella necessità di consentire alla controparte e al giudice di individuare chiaramente le censure proposte e conseguentemente consentire alla parte privata di approntare le relative difese nonché al giudice di delimitare correttamente l’oggetto del giudizio;
e) in definitiva, lungi dal porsi come un “ostacolo” alla esplicazione del diritto alla tutela giurisdizionale, i principi di specificità chiarezza e sinteticità sono funzionali alla più piena e complessiva realizzazione del diritto di difesa in giudizio di tutte le parti del processo, in attuazione degli artt. 24 e 111 Cost., e sostengono, una volta di più, le ragioni della necessità di difesa tecnica e, dunque, della natura “protetta” della professione intellettuale legale.
Questi principi sono stati ribaditi, di recente, anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sez. I, 28 ottobre 2021, Succi c. Italia), la quale ha avuto modo di chiarire la legittimità della sanzione dell’inammissibilità (del ricorso per Cassazione), a fronte della violazione dei doveri di specificità e sinteticità (nel caso esaminato, si trattava della violazione del c.d. principio di autosufficienza nella predisposizione del ricorso per cassazione).
Alla luce di tale consolidato orientamento giurisprudenziale, il Collegio nell’esaminare l’atto di appello farà esclusivamente riferimento ai motivi compiutamente esposti nell’atto di gravame e non anche a quelli per i quali si opera un generico rinvio a motivi di ricorso di primo grado, i quali per le ragioni evidenziate devono ritenersi inammissibili.
A tal riguardo si ricorda ulteriormente che l’art. 101 cod. proc. civ. prevede che il ricorso in appello deve indicare le «specifiche censure contro i capi della sentenza gravata».
Alla stregua di tale previsione normativa, un costante indirizzo giurisprudenziale assume l’inammissibilità delle censure riproposte ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.a. attraverso un semplice richiamo agli atti di I grado, senza che ne venga trascritto il testo in modo da poter individuare con certezza di quali censure effettivamente si tratti (per tutte, C.d.S., sez. IV, 1 agosto 2023; n7467;C.d.S. sez. VI 14 febbraio 2020 n.1186 e sez. V 26 ottobre 2016 n.4471).
Siffatta modalità di esposizione dei motivi di ricorso, definita per relationem, per il rinvio ad altro atto allo scopo di integrazione delle ragioni di critica ai provvedimenti impugnati, si pone, «in contrasto con il principio di specificità dei motivi imposto dall’art. 40, comma 1, lett. d) Cod. proc. amm.» (così Cons. Stato, Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1323; Sez. IV, 25 ottobre 2019, n. 7275; Sez. IV, 12 luglio 2019, n. 4903; Sez. V, 20 luglio 2016, n. 3280). Non è, invero, imposto al giudice e alle altre parti di ricostruire le tesi del ricorrente, supplendo al mancato assolvimento dell’onere di specificazione, con esiti comunque incerti non potendo certo ricavarsi dal solo tenore dei documenti depositati in via induttiva le ragioni fondanti la censura articolata in ricorso.
Ciò premesso, con un quarto motivo di appello Enel lamenta il mancato accoglimento del secondo motivo del ricorso principale di primo grado con il quale era stata dedotta la «violazione e falsa applicazione degli artt. 242 e 252 del Codice dell’ambiente, nonché degli artt. 1, 3, 6 e 10 della legge n. 241/1990; eccesso di potere sotto ogni profilo e, in particolare, per difetto di motivazione».
In particolare, con esso era stata contestata l’assenza di motivazione a sostegno della Nota del MATTM prot. 77423 del 2.10.2020 con la quale si era disposto l’ordine di avvio della procedura autorizzatoria.
Il motivo non è fondato.
In senso contrario il Collegio rileva che dai pareri del Servizio Tutela Atmosfera e Territorio della Regione Sardegna, di ISPRA e ARPAS allegati alla Nota di che trattasi e dal verbale della riunione tecnica del 7.11.2019 ivi richiamato, emerge una idonea motivazione in ordine alla qualificazione dell’intervento di MISP mediante realizzazione della Confined Disposal Facility nell’Area 5, proposto da ENEL come “scenario 0”, ed al regime autorizzatorio cui tale intervento avrebbe dovuto conseguentemente essere assoggettato.
A tal riguardo, il Collegio ricorda che è del tutto consolidato il principio secondo cui non sussiste un obbligo di motivazione contestuale dei provvedimenti amministrativi. Tale principio ha trovato riconoscimento normativo nell’art. 3, comma 3, legge 241 del 1990, in base al quale “se le ragioni della decisione risultano da un altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l’atto cui essa si richiama”.
Con un quinto motivo di appello Enel lamenta il mancato accoglimento del terzo motivo del ricorso principale con il quale era stata dedotta la «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 242 e 252 del Codice dell’ambiente, nonché degli artt. 1, 6, 10 e 14 della legge n. 241/1990; eccesso di potere sotto ogni profilo e figura sintomatica, con particolare riferimento all’errore e falsità dei presupposti, al travisamento dei fatti e all’erronea loro valutazione, all’incompletezza dell’istruttoria, allo sviamento e alla mancata valutazione degli scritti di parte»).
In particolare, con esso era stata contestata la predetta Nota del MATTM prot. 77423 del 2.10.2020 anche per travisamento dei fatti, incompletezza di istruttoria e mancata valutazione degli scritti di parte, per avere essa fatto ad una “dinamicità” di gestione dei rifiuti totalmente inesistente.
Il motivo non è fondato non trovando corrispondenza in atti.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla società appellante, dalla lettura della nota prot. 77423/2020 emerge che il confinamento di rifiuti ulteriori rispetto alle ceneri stoccate nell’Area 5 è presa in considerazione dal Ministero non come fatto accertato, ma come una mera ipotesi.
Del resto, per le ragioni già evidenziate nel corso dell’esame del secondo motivo di appello, in considerazione della accertata presenza di rifiuti nell’area di che trattasi, nessun rilievo può assumere, ai fini dell’applicazione di un diverso regime autorizzatorio, la propugnata distinzione tra una vicenda statica e dinamica nella gestione dei rifiuti.
Con un sesto motivo di appello Enel lamenta il mancato accoglimento del quarto motivo del ricorso principale con il quale era stata dedotta la «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 97 della cost., nonché degli artt. 1, 3, 6 E 10 della legge n. 241/1990; violazione dei principii economicità, di uguaglianza, di imparzialità e proporzionalità; eccesso di potere per disparità di trattamento e contraddittorietà nell’agire amministrativo».
In particolare, con esso era stata dedotta l’illegittimità della menzionata Nota per assoluta sproporzione, contraddittorietà, violazione del principio di economicità nell’agire e totale disparità di trattamento laddove “... apre ed impone l’avvio di un differente procedimento autorizzatorio, autonomo e a sé stante rispetto a quello approvativo di bonifica in corso ...”
Il motivo non è fondato.
Come è noto il principio di proporzionalità, di derivazione europea, impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato. Alla luce di tale principio, nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa una adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso l’esercizio del potere in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi.
Il principio di proporzionalità, secondo l’impostazione più accreditata, postula una valutazione che si articola in tre passaggi successivi, che prevedono l’utilizzo di altrettanti criteri di valutazione (c.d. «teoria dei tre gradini»):
- l’idoneità della decisione a raggiungere lo scopo, intesa come rapporto fra mezzo utilizzato e fine da raggiungere. Secondo questo primo indice di valutazione, la soluzione prospettata dalla pubblica amministrazione dev’essere effettivamente idonea a realizzare gli obiettivi legittimi di interesse pubblico o la tutela di diritti fondamentali, per come dichiarato dalla stessa amministrazione;
- la sua necessarietà, intesa come inesistenza di alternative più miti per il raggiungimento dello stesso risultato. In base a tale criterio, la scelta amministrativa deve necessariamente ricadere su quella che determini il sacrificio minore per i soggetti che ricevono un pregiudizio dalla decisione: in questo secondo passaggio si ha, dunque, un quid pluris rispetto al primo, consistente nella valutazione delle alternative plausibili per il raggiungimento degli stessi interessi pubblici con misure meno gravose;
- l’adeguatezza o proporzionalità in senso stretto, intesa come tollerabilità della decisione da parte del suo destinatario. In virtù di quest’ultimo indice valutativo, l’amministrazione deve effettuare una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, onde verificare se la misura sia «non eccessiva» rispetto all’obiettivo da perseguire.
Come ha avuto, infatti, modo di chiarire il Consiglio di Stato, proprio con riferimento al principio di proporzionalità in senso stretto, come sopra delineato, la proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido e immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V 21 gennaio 2015 n. 284) e come concreto bilanciamento tra interessi potenzialmente antagonisti.
In tale senso depone, del resto, la considerazione per cui il bilanciamento tra interessi potenzialmente incompatibili è una vicenda di allontanamento più o meno intenso da quel nucleo di massima protezione del singolo interesse e che dipende dalle relazioni di prevalenza o subordinazione che, all'interno della ponderazione, si stabiliscono con i principi concorrenti.
Nel caso di che trattasi, le prescrizioni prefigurate nella contestata Nota sacrificano in modo proporzionato e nella misura strettamente necessaria l’interesse economico della società appellante, per tutelare l’interesse ambientale e sanitario perseguito con riguardo a profili tecnici ineccepibili.
Non sussiste, nella fattispecie in esame, neanche la prospettata lesione del principio di economicità, essendosi l’amministrazione limitata a fare pedissequa applicazione delle norme di legge che, per le ragioni in precedenza indicate, impongono inderogabilmente il regime autorizzatorio relativo alle discariche di rifiuti.
Parimenti infondato è il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento.
Ricorda, al riguardo, la Sezione che il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento postula che l’amministrazione emani statuizioni tra loro diverse nell’esercizio dello stesso potere, in relazione a fattispecie assolutamente identiche, senza fornire alcuna giustificazione. Come chiarito da una consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, l’onere di provare l’identità delle situazioni, nonché di identificare le aree che avrebbero goduto del trattamento diverso, grava sul ricorrente che deduce il vizio di disparità di trattamento (Cons. Stato n.476/1997; Cons. Stato n.145/99).
Nel caso di che trattasi, manca, infatti, financo un principio di prova in ordine alla perfetta identità di situazioni soggettive e oggettive.
Ne discende che il dedotto vizio di disparità di trattamento è, pertanto, rimasto indimostrato e solo apoditticamente affermato.
Con un settimo motivo di appello Enel lamenta il mancato accoglimento del primo motivo del ricorso per motivi aggiunti con il quale in primo grado era stata dedotta «violazione e falsa applicazione degli artt. 242 e 252 del codice dell’ambiente, nonché degli artt. 1, 3, 6 e 10 della legge n. 241/1990; eccesso di potere sotto ogni profilo e, in particolare, per difetto di motivazione».
Con tale motivo si era in particolare fatta valere in primo grado l’assoluta carenza ed erroneità della motivazione del provvedimento che ha imposto l’iter autorizzativo dal momento che il suo intero impianto si fondava sul richiamo di un parere esterno, che al momento della notifica del ricorso non era rinvenibile e sull’attribuzione a detto parere di “... un valore gerarchicamente superiore, tale – sembrerebbe – da non poterne contraddire il contenuto”.
Il motivo non è fondato.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla società appellante, il richiamo, nell’ambito della motivazione del provvedimento di diniego contestato, del parere della Commissione Europea, costituisce solo una delle argomentazioni evidenziate dall’amministrazione, che, peraltro, per le ragioni in precedenza evidenziate, appare del tutto immune da rilievi.
Il provvedimento di che trattasi è pertanto un provvedimento pluri-motivato ovvero fondato su distinte ragioni, ciascuna autonomamente in grado di sorreggerne il decisum.
In proposito, il Collegio osserva che:
- in presenza di provvedimenti motivati con distinte ragioni, ciascuna delle quali di per sé astrattamente sufficiente a sorreggere la volizione amministrativa, la parte che agisce per l’annullamento ha l’onere ( non assolto proficuamente nella fattispecie in dinsamina) di aggredire tutti i pilastri motivazionali che reggono l’avversata decisione, pena l’inammissibilità dell’azione, strutturalmente inidonea, quand’anche in toto accolta, a determinare l’annullamento dell’atto, che, al contrario, resterebbe in piedi in virtù delle ragioni non fatte oggetto di censura;
- specularmente, pur ove il ricorrente abbia aggredito tutti i pilastri motivazionali, ove uno dei motivi indicati dall’Amministrazione a fondamento del provvedimento superi il vaglio giurisdizionale (regga, cioè, alle doglianze formulate dall’interessato).
Quanto alla censura che fa leva sulla mancata messa a disposizione del parere della Commissione Europea, nella sua versione integrale, va rilevato in senso contrario che, come il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire “... il procedimento di infrazione comunitaria, in ogni sua fase e, quindi, anche con riferimento alla fase precontenziosa, è da considerarsi un procedimento integralmente comunitario, facente capo alla commissione europea, sola istituzione da ritenere competente a conoscere della richiesta di accesso agli atti in conformità alle disposizioni del regolamento ce 30 maggio 2001, n. 1049” (Consiglio di Stato, sez.. IV, 28 novembre 2018 n. 6737;).
Con l’ottavo mezzo di gravame Enel lamenta il mancato accoglimento del secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti con il quale in primo grado era stata dedotta «violazione e falsa applicazione degli artt. 208, 240, lett. o, 242 e 252 del codice dell’am-biente, del decreto discariche, dell’art. 3 del d.l. 2/2012, come novellato dall’art. 41 del d.l. 69/2013 e dal d.l. 77/2021, delle “linee guida” redatte dal commissario delegato per l’emergenza ambien-tale delle aree minerarie del sulcis iglesiente e del guspinese ai sensi del d.p.c.m. 21.12.2007 e del d.p.c.m. 15.01.2008, n. 3640 e dell’art. 97 cost.; eccesso di potere in tutte le figure sintomatiche, tra cui l’errore e la falsità dei presupposti, il travisamento dei fatti e l’erronea loro valutazione, lo sviamento e la mancata valutazione degli scritti di parte»)
Con tale motivo si era dedotto, in particolare, in relazione all’impugnato provvedimento di diniego, il vizio di travisamento dei fatti, incompletezza di istruttoria e mancata di valutazione degli scritti di parte, nella parte in cui attribuiva alla MISP non già solo per isolare il Volume, ma anche creare una discarica di supporto alle attività di risanamento con escavazione, raccolta e movimentazione e stoccaggio finale nell’Area 5 di rifiuti.
Il motivo non è fondato.
Esso, nella misura in cui ricalca, la censura, già analizzata e ritenuta infondata in relazione al secondo motivo di impugnazione, va respinto per le medesime ragioni ivi indicate. Il provvedimento di diniego è, infatti, fondato, sulle medesime ragioni già anticipate dal Ministero in sede interlocutoria e che ENEL ha avuto modo di contestare con il ricorso averso detta nota interlocutoria prot. 77423/2020.
Con il nono motivo di appello Enel lamenta il mancato accoglimento del terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti con il quale in primo grado era stata dedotta la «violazione e falsa applicazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990; eccesso di potere in tutte le figure sintomatiche, tra cui l’errore e la falsità dei presupposti, il travisamento dei fatti e l’erronea loro valutazione, lo sviamento e la mancata valutazione degli scritti di parte».
Con tale motivo, in particolare, era stata dedotta, in relazione all’impugnato provvedimento di diniego, la violazione dell’art. 10-bis della legge 241/1990 dal momento che il MASE aveva deciso di concludere definitivamente ed archiviare la procedura in corso senza proseguirne l’istruttoria sulle ipotesi alternative prospettate (lo “Scenario 1” e lo “Scenario 2”).
In termini generali il Collegio ricorda che “... ai fini della configurabilità della violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241/90, le garanzie procedimentali non possono ridursi a mero rituale formalistico, con la conseguenza che, nella prospettiva del buon andamento dell'azione amministrativa, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle proprie pretese partecipative, ma è anche tenuto ad indicare o allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento ...” (così ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, 27.10.2022, n.9183).
Nel caso in esame, ENEL non ha introdotto elementi, che, se evidenziati in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento, essendosi limitata a denunciare la violazione della norma procedimentale di cui all’art. 10-bis della L. 241/1990 s.m.i. ed a fare riferimento alle due originarie ipotesi progettuali alternative, dalla stessa ENEL abbandonate in corso di procedimento. Di qui l’infondatezza anche di quest’ultimo motivo di appello.
Le considerazioni che precedono impongono, pertanto, la reiezione dell’appello e la conferma, sia pure con le precisazioni svolte in motivazione, della sentenza impugnata.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando
- dichiara il difetto di legittimazione passiva di INAIL;
- respinge l’appello nei sensi di cui in motivazione.
Condanna la parte appellante alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi € 8.000,00 (ottomila), oltre accessori di legge, da corrispondere pro quota in favore del comune del Comune di Portoscuro, della Regione Sardegna, del Ministero dell’Ambiente e di INAIL.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati:
Vincenzo Neri, Presidente
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
Giuseppe Rotondo, Consigliere
Michele Conforti, Consigliere
Luigi Furno, Consigliere, Estensore