Cass. Sez. III n. 9461 del 6 marzo 2024 (UP 19 gen 2024)
Pres. Aceto Rel. Corbo Ric. Bert
Rifiuti.Reato di inottemperanza ad ordine di rimozione

L’art. 255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, sanziona penalmente la condotta di «chiunque non ottempera all’ordinanza del Sindaco di cui all’art. 192, comma 3», e che, secondo quest’ultima disposizione, l’ordinanza del Sindaco deve essere emessa innanzitutto nei confronti del responsabile della condotta di abbandono o di deposito dei rifiuti, nonché del proprietario dell’area interessata e dei titolari dei diritti reali e personali di godimento sulla stessa, i quali sono obbligati «in solido» con il primo. Sulla base di questa disciplina, si è precisato che, in tema di smaltimento di rifiuti, l'obbligo di rimozione sorge sia in capo al responsabile dell'abbandono, quale conseguenza della sua condotta, sia nei confronti degli obbligati in solido, quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o della colpa, sia nei confronti dei destinatari dell'ordinanza sindacale di rimozione che sono obbligati in quanto tali e che, in caso di inottemperanza, ne subiscono, per ciò solo, le conseguenze se non hanno provveduto ad impugnare il provvedimento per ottenerne l'annullamento o non hanno fornito al giudice penale elementi significativi per l'eventuale disapplicazione.  Si deve aggiungere, inoltre, che i destinatari dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti non possono addurre, a giustificazione, di non avere la diretta disponibilità dell’area su cui intervenire. 


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 18 novembre 2022, la Corte di appello di Trento ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Trento che, in data 26 gennaio 2021, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato Luca Bert colpevole del reato di cui all’art. 255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006 e lo aveva condannato alla pena di due mesi di arresto.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, Luca Bert, come accertato l’11 ottobre 2017 e con condotta tuttora perdurante, non avrebbe ottemperato alla ordinanza del Sindaco del Comune di Lavis, emessa il 15 marzo 2017, e notificatagli il 3 luglio 2017 nella qualità di presidente del consiglio di amministrazione della “Ires Costruzioni s.r.l.”, con cui gli si intimava di rimuovere i rifiuti pericolosi e non pericolosi presenti presso il capannone della ditta. 
 
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe Luca Bert, con atto sottoscritto dall’avvocato Lorenzo Maria Cinquepalmi, articolando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, si contesta l’omessa considerazione dell’avvenuta dichiarazione di fallimento della società in data precedente alla notifica dell’ordinanza del Sindaco.
Si deduce che la sentenza di dichiarazione di fallimento è stata pronunciata il 29 settembre 2016, e che, quindi, già alla data della emissione dell’ordinanza del Sindaco il 15 marzo 2017, l’attuale ricorrente era nell’impossibilità di ottemperare alla stessa, essendo tutti i beni della società nella disponibilità del curatore fallimentare. Si aggiunge che il curatore fallimentare ha riconosciuto di essere destinatario dell’ordinanza, tanto da averla impugnata davanti al Giudice amministrativo, che la sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2021 non invalida questa ricostruzione, e che, anzi, non può escludersi la riconducibilità dei rifiuti al periodo successivo alla dichiarazione di fallimento.  
2.2. Con il secondo motivo, si contesta il mancato riconoscimento della continuazione tra il reato oggetto della sentenza impugnata e quello di cui all’art. 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, accertato il 10 gennaio 2017. 
Si deduce che i due reati, quello accertato con la sentenza impugnata e quello accertato con sentenza divenuta irrevocabile il 27 dicembre 2020, hanno ad oggetti «rifiuti sostanzialmente analoghi», nonché condotte sviluppatesi nello stesso arco temporale, sicché è evidente il vincolo della continuazione tra di essi.
2.3. Con il terzo motivo, si contestano l’eccessività della pena ed il diniego delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale.
Si deduce che la sentenza impugnata ha omesso di considerare l’impossibilità dell’imputato di ottemperare all’ordinanza, siccome emessa dopo lo spossessamento dei beni per effetto della dichiarazione di fallimento.  

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate. 

2. Manifestamente infondate sono le censure esposte nel primo motivo, che contestano la ritenuta configurabilità del reato derivante dall’inottemperanza all’ordine di rimozione dei rifiuti, emesso dal Sindaco territorialmente competente, deducendo che l’imputato era nell’impossibilità di darvi attuazione per essere il precisato provvedimento successivo alla dichiarazione di fallimento della società alla quale l’intimazione era diretta e di cui egli era il legale rappresentante, e che i rifiuti potrebbero essere stati prodotti anche dopo il passaggio della disponibilità del sito al curatore fallimentare.
2.1. Occorre premettere che l’art. 255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, sanziona penalmente la condotta di «[c]hiunque non ottempera all’ordinanza del Sindaco di cui all’art. 192, comma 3», e che, secondo quest’ultima disposizione, l’ordinanza del Sindaco deve essere emessa innanzitutto nei confronti del responsabile della condotta di abbandono o di deposito dei rifiuti, nonché del proprietario dell’area interessata e dei titolari dei diritti reali e personali di godimento sulla stessa, i quali sono obbligati «in solido» con il primo.
Sulla base di questa disciplina, si è precisato in giurisprudenza che, in tema di smaltimento di rifiuti, l'obbligo di rimozione sorge sia in capo al responsabile dell'abbandono, quale conseguenza della sua condotta, sia nei confronti degli obbligati in solido, quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o della colpa, sia nei confronti dei destinatari dell'ordinanza sindacale di rimozione che sono obbligati in quanto tali e che, in caso di inottemperanza, ne subiscono, per ciò solo, le conseguenze se non hanno provveduto ad impugnare il provvedimento per ottenerne l'annullamento o non hanno fornito al giudice penale elementi significativi per l'eventuale disapplicazione (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 39430 del 12/06/2018, Pavan, Rv. 273841-01). 
Si deve aggiungere, inoltre, che i destinatari dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti non possono addurre, a giustificazione, di non avere la diretta disponibilità dell’area su cui intervenire. 
In particolare, e ad esempio, come più volte affermato dalla giurisprudenza, in tema di rifiuti, il fatto che questi ultimi si trovino in stato di abbandono all'interno di un'area sottoposta a sequestro giudiziario non può avere alcuna efficacia scriminante del reato di cui all'art. 255, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 per inesigibilità della condotta, poiché, in tal caso, il destinatario dell'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti, emessa ai sensi dell'art. 192, comma 3, del medesimo d.lgs., deve richiedere al giudice l'autorizzazione ad accedere ai luoghi per provvedere alla rimozione (così Sez. 3, n. 33585 del 08/04/2015, Rosano, Rv. 264440-01, e Sez. 3, n. 14747 del 11/03/2008, Clementi, Rv. 239974-01). 
Né questa conclusione è in contrasto con la giurisprudenza del giudice amministrativo, come sembrerebbe prospettato nel ricorso: l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, infatti, proprio con riferimento alla vicenda in esame, ha precisato che il curatore del fallimento non è responsabile dell’abbandono incontrollato dei rifiuti e non subentra nella proprietà dell’area interessata dall’illecito accumulo, perché la società dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio, sebbene la gestione di questo passi al curatore (Cons. Stato, Ad. Plen., n. 3 del 2021). 
2.2. Ciò posto, nella specie, la sentenza impugnata rappresenta, innanzitutto, che l’ordinanza di rimozione dei rifiuti è stata emessa e notificata nei confronti dell’attuale ricorrente, quale legale rappresentante della “Ires Costruzioni s.r.l.”.
Osserva, poi, che la precisata società è da ritenersi responsabile dell’inquinamento in quanto soggetto produttore dei rifiuti e proprietario del suolo di illecito stoccaggio degli stessi, e che l’attuale ricorrente era il legale rappresentante di tale impresa nel momento della produzione e della raccolta dei predetti scarti.
Aggiunge, inoltre, che l’attuale ricorrente, dopo la notifica dell’ordinanza, è rimasto del tutto inerte e non si è attivato né presso il curatore fallimentare per poter adempiere, né in sede giurisdizionale, per essere autorizzato ad accedere all’area da bonificare, o per contestare la legittimità dell’ordine. 
2.3. L’applicazione dei principi giuridici indicati in precedenza nel § 2.1. ai fatti accertati dalla sentenza impugnata consente di ritenere incensurabili le conclusioni di quest’ultima in ordine alla responsabilità dell’imputato.
L’attuale ricorrente, infatti, era stato legittimamente reso destinatario dell’ordine di rimozione dei rifiuti, in quanto legale rappresentante dell’ente responsabile della produzione e dell’illegittimo stoccaggio degli stessi, e, nonostante abbia ricevuto regolare notifica del provvedimento, non vi ha ottemperato, omettendo anzi di assumere qualunque iniziativa.
2.4. Del tutto assertiva, infine, è l’affermazione secondo cui i rifiuti non rimossi potrebbero essere stati prodotti dopo la dichiarazione di fallimento.
Anzi, la sentenza allegata al ricorso a supporto del secondo motivo, relativo all’applicazione della continuazione, ed esaminato in seguito al § 3, consente di rilevare come i rifiuti oggetto dell’ordine di rimozione fossero esattamente i rifiuti per i quali l’imputato è stato condannato con la sentenza della Corte d’appello di Trento del 30 settembre 2020 con riferimento al reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a) e b), e comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, contestatogli nell’imputazione sub B. 

3. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure formulate nel secondo motivo, che contestano il mancato riconoscimento della continuazione tra il reato oggetto della sentenza impugnata e quello di cui all’art. 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, accertato il 10 gennaio 2017.
Invero, la sentenza relativa al reato di cui all’art. 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, accertato il 10 gennaio 2017, secondo la stessa allegazione contenuta nel ricorso, è passata in giudicato il 27 dicembre 2020, e quindi ben prima della pronuncia di primo grado nel presente processo, siccome emessa dal Tribunale di Trento il 26 gennaio 2021.
Ora, in linea generale, la giurisprudenza di legittimità ritiene improponibile davanti alla Corte di cassazione la richiesta di applicazione della continuazione tra il reato per il quale si procede, ancora sub judice, ed altro reato per il quale sia intervenuta condanna definitiva successivamente alla pronuncia della sentenza gravata di ricorso, potendo in tal caso la continuazione essere applicata in sede esecutiva (cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 54638 del 20/09/2018, Rodriguez, Rv. 274708-01, e Sez. 2, n. 31974 del 02/07/2015, Ciavoni, Rv. 264180-01).
Ma questo principio deve essere esteso, a maggior ragione, anche all’ipotesi in cui la richiesta di applicazione della continuazione sia formulata per la prima volta davanti alla Corte di cassazione ed abbia riferimento, oltre che al reato per cui si procede, ad altro reato per il quale sia intervenuta condanna definitiva prima della pronuncia della sentenza gravata di ricorso. 
In questa ipotesi, infatti, si chiede direttamente alla Corte di cassazione una valutazione in fatto, esorbitante dai limiti del giudizio di legittimità, che avrebbe potuto essere domandata al giudice di merito, e che potrà comunque essere chiesta al giudice dell’esecuzione.

4. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono anche le censure enunciate nel terzo motivo, che contestano l’eccessività della pena ed il diniego delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale.
Il ricorso, infatti, si limita a richiamare una situazione di impossibilità di adempiere all’ordinanza di rimozione dei rifiuti, in realtà da escludere in considerazione di quanto evidenziato in precedenza nei §§ 2, 2.1, 2.2. e 2.3. Lo stesso, inoltre, non si confronta con quanto indicato nella sentenza impugnata, la quale, a fondamento delle sue determinazioni in tema di determinazione della pena e di diniego delle circostanze attenuati generiche e della sospensione condizionale, ha richiamato sia il comportamento complessivo dell’imputato di completo disinteresse per le conseguenze di un'ampia attività di gestione illecita di rifiuti pericolosi, compresi scarti di oli minerali e bidoni contenenti amianto, sia i precedenti giudiziari del medesimo, siccome indicativi di persistenza nella condotta delittuosa nonostante la controspinta psicologica di precedenti condanne.

5. Per completezza, va rilevato che non è decorso il termine di prescrizione.
Infatti, come precisato dalla giurisprudenza, il reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale di rimozione dei rifiuti, di cui all’art. 255, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ha natura di reato permanente, nel quale la scadenza del termine per l'adempimento non indica il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l'inizio della fase di consumazione che si protrae sino all'ottemperanza all'ordine ricevuto (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 39430 del 12/06/2018, Pavan, Rv. 273841-01, e Sez. 3, n. 33585 del 08/04/2015, Rosano, Rv. 264439-01).
E nella specie, l’imputazione precisa, in calce alla descrizione del fatto, «accertato l’11.10.2017 – reato permanente». La sentenza, inoltre, espressamente rappresenta che l’ordine di rimozione dei rifiuti non è stato adempiuto.
Di conseguenza, la data di inizio del decorso del tempo necessario a prescrivere il reato oggetto del presente giudizio si individua in quella della pronuncia della sentenza di primo grado, il 26 gennaio 2021.
Né può ritenersi decorso il termine per l’improcedibilità di cui all’art. 344-bis cod. proc. pen., posto che, in disparte da ogni altra considerazione sui rapporti tra l’istituto appena indicato e la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, la sentenza impugnata è stata emessa dalla Corte di appello il 18 novembre 2022, ed ha anche previsto il termine di novanta giorni per il deposito della motivazione.

6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in data 19/01/2024