Cass. Sez. III n.16351 del 252005 (c.c. 1532005)
Pres. Zumbo Est. Postiglione Imp. Dalena
Rifiuti - CDR - utilizzazione e regime autorizzatorio
Il combustibile può essere ottenuto sua da rifiuti urbani che speciali non pericolosi ed è irrilevante la forma delle procedure autorizzatorie
Svolgimento del processo
Con ordinanza in data 19 luglio 2004 il Tribunale di Bari confermava il decreto di sequestro preventivo emesso il 21.06.2004 dal GIP presso il Tribunale di Trani nei confronti di Dalena Giuseppe Angelo, avente ad oggetto un'area sita nella zona industriale di Barletta, utilizzata per operazioni di gestione di rifiuti dalla società Dalena Ecologia.
Riteneva il Tribunale di Bari configurabile il reato di concorso continuato in attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti. I
Secondo il Tribunale la misura cautelare era giustificata, perché la società "Dalena Ecologia" era autorizzata in via ordinaria al solo stoccaggio provvisorio ed adeguamento volumetrico mediante triturazione a freddo di rifiuti vari e non alla produzione di CDR, cioè combustibile di rifiuto, sicché non poteva cedere alla “Buzzi Unicum” tale rifiuto per due ragioni:
a) perché non si trattava di rifiuto destinabile alla combustione ed al recupero energetico (come avveniva presso la Società Buzzi Unicem cessionaria), non provenendo in via esclusiva da rifiuti urbani, ex art. 6 lett. P del Decreto Ronchi;
b) perché il combustibile di rifiuto può essere prodotto solo in regime di procedura semplificata ex artt. 31 e 33 del Decreto Ronchi, in quanto il legislatore avrebbe al momento dettato specifiche norme tecniche soltanto per tale tipo di procedura ai sensi del DM 5.2.1998, onde assicurare la compatibilità ambientale.
II Tribunale di Bari, aderendo alle conclusioni del consulente tecnico e tenendo conto degli accertamenti eseguiti dal Noe di Bari, nonché della documentazione relativa ai quantitativi inerenti la produzione aziendale della Dalena Ecologia srl, riteneva che l'autorizzazione ordinaria in possesso al Dalena non consentiva la cessione dei rifiuti, perché impropriamente denominati CDR e dunque non utilizzabili per la effettiva combustione e recupero energetico, in assenza delle garanzie di legge.
Contro questa ordinanza l'indagato Dalena Giuseppe Angelo ha proposto ricorso per Cassazione, denunciando la violazione dell'art. 53 bis del D.L.vo 22/97, non essendo configurabile astrattamente l'ipotesi di reato posta a base della misura cautelare.
Sostiene il ricorrente che la lettura integrata del Decreto Ronchi non consente la conclusione che l'unico CDR sia quello ricavato dai rifiuti urbani ex art. 6 lettera p, come si ricava dalla “ratio” ispiratrice, in cui rientra la finalità del riciclaggio e recupero, riferita a tutti i rifiuti e non solo a quelli urbani e da alcuni riferimenti testuali (l'art. 6 lett. a sulla definizione di rifiuto ed il rinvio all'allegato A, che comprende 16 categorie peraltro non esaustive; l'art. 4, comma 1 lett. d che richiama per tutti i rifiuti il concetto di utilizzazione principale dei rifiuti come combustibile o come altro mezzo per produrre energia).
L'ordinanza impugnata non avrebbe comunque tenuto conto del mutato quadro normativo sopravvenuto al Decreto Ronchi, cioè della legge 179/2002, che ha inserito tra i rifiuti speciali il CDR, quale combustibile derivato da rifiuti, senza più il riferimento esclusivo ai rifiuti urbani e della Decisione 2001/118/CE che ha aggiornato il Catalogo Europeo dei Rifiuti, inserendo espressamente quello dei "rifiuti combustibili", codici 19.12.10, non riferito ai soli rifiuti urbani.
II ricorrente, sul punto, richiama inoltre la legislazione in materia di rifiuti sanitari, non assimilati ai rifiuti urbani, per i quali è prevista la utilizzazione per produrre combustibili (D.P.R. n.254 del 15-7-2003 art. 9, codice CER 19.12.10) e la legge delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'interpretazione della legislazione ambientale (ora 1. n. 308, del 15.12.2004, G.U. 27-12-2004, n. 187 Supplemento Ordinario), che esclude il CDR dalla nozione stessa di rifiuto, ove ricorrano alcune condizioni di carattere tecnico (conformità alle norme tecniche del D.M. 5.2.1998 già citato o a quelle UN - 9903), e requisiti di qualità, provenienza (da rifiuti urbani o speciali, ma non pericolosi) e destinazione all'effettivo e nuovo utilizzo (in cementifici o centrali termoelettriche).
Infine il ricorrente nega, in via di principio, che l'autorizzazione ordinaria alla gestione di rifiuti possa essere considerata di per sé meno garante dei valori ambientali rispetto a quella relativa alla procedura semplificata e, nel caso specifico, richiama la regolarità degli atti autorizzatori della P.A.: l'autorizzazione della Giunta Provinciale di Bari del 22.12.1998 n. 848, [che fa riferimento allo stoccaggio, adeguamento e triturazione di rifiuti destinati al riutilizzo in un processo di combustione]; la determinazione n. 129 del 12.9.2003, e n. 93 del 28 aprile 2004, da cui si evincerebbe la legittimità della gestione di rifiuti destinati alla combustione per 33.000 tonnellate annue, trattandosi di rifiuti combustibili CER 19.12.10, espressamente menzionati come tali nella autorizzazioni più recenti sopra indicate.
In conclusione il ricorrente domanda l'annullamento della ordinanza impugnata ed il conseguente dissequestro per insussistenza del "fumus commissi delicti", perché la nuova legge 308/04 esclude dal campo di applicazione della legge sui rifiuti “il combustibile ottenuto dai rifiuti urbani e speciali non pericolosi utilizzato in impianti di produzione di energia elettrica ed in cementifici e perché, comunque, nel caso in esame l'autorità competente aveva autorizzato la combustione e la specifica destinazione con l'atto del 22.12.1998, n. 848, come integrato con atto del 12.09.2003 n. 129 e atto del 28 aprile 2004 n. 93.
Rileva la Corte preliminarmente che la vicenda doveva essere chiarita con precisione in punto di fatto nei punti essenziali e ciò non è stato fatto in modo adeguato.
Si rileva dagli atti:
a) che la Società Dalena Ecologia srl è autorizzata con procedura ordinaria dalla Provincia di Bari alla produzione di CDR;
b) che la stessa Società Dalena Ecologia s.r.l fornisce CDR ad una distinta Società Buzzi Unicum spa, autorizzata al trattamento di rifiuti di terzi (sia con procedura ordinaria, che semplificata) per essere destinati a combustione ed a recupero energetico in un cementificio della stessa Buzzi Unicem.
Poiché non è in discussione l'utilità sociale ed economica dell'utilizzo dei rifiuti nella combustione, quale fonte di energia (ad esempio in un cementificio al posto del tradizionale carbone coke), si pone il problema della compatibilità ambientale, assicurata da apposite procedure amministrative e norme tecniche. Poiché esistono vari tipi di CDR a seconda della composizione e del potere calorifero (il CDR conforme alle norme tecniche UNI, come si vedrà, non è addirittura rifiuto, ma “merce di qualità”), occorreva verificare se ciò che forniva la Dalena alla Unicem (i rifiuti raccolti nello spiazzo, a prescindere dalla proprietà, soggetti a processi di adeguamento volumetrico e triturazione a freddo) era compatibile con il CDR che la Unicem era autorizzata a bruciare nel cementificio in considerazione delle caratteristiche tecniche intrinseche. La questione non è se la Dalena è autorizzata a produrre CDR (e lo è formalmente), ma se quel CDR è fornito secondo le corrette procedure tecniche e amministrative.
Orbene l'ordinanza impugnata aderendo alle conclusioni del consulente tecnico, ha fatto proprie due
affermazioni di principio che non appaiono conformi a corretti criteri logici e giuridici.
La prima affermazione sostiene che il combustibile denominato CDR (combustibile derivato da rifiuti) sia soltanto quello ottenuto da rifiuti urbani. A giudizio della Corte questa tesi si fonda solo sul dato letterale dell'articolo 6 lettera p del D.L.vo 22/97 e non anche su una lettera integrata del testo di legge, ispirato al recupero dei rifiuti, quale punto cardine del settore (art. 4) e non più sul concetto di smaltimento e discarica, come avveniva nel vecchio D.P.R. 915/82.
La prevenzione e la riduzione dello smaltimento finale sono resi possibili anche dalla "utilizzazione principale dei rifiuti come combustibile o come altro mezzo per produrre energia" (come recita testualmente l'art. 4, 1° comma lettera d, con riferimento ai rifiuti in generale e non solo a quelli urbani).
L'ordinanza impugnata sul punto non è corretta, come è dimostrato anche dalla evoluzione successiva della normativa nazionale (legge 179/2002 che ha inserito il CDR quale combustibile senza il riferimento esclusivo ai rifiuti urbani e il DPR 15-7-2003 n. 254 art. 9 che consente la utilizzazione dei rifiuti sanitari (rifiuti speciali) per produrre combustione ed energia).
Anche in sede comunitaria è pacifica la stessa evoluzione, come risulta dalla Decisione 2001/118/CE, che ha aggiornato il Catalogo Europeo dei Rifiuti, inserendo espressamente quello dei "rifiuti combustibili" non riferito ai soli rifiuti urbani (Codice 19-12-10).
La Corte di giustizia delle Comunità Europee ritiene che la combustione di rifiuti costituisce un'operazione di recupero quando il suo obiettivo principale è che i rifiuti possano svolgere una funzione utile, come mezzo per produrre energia, sostituendosi all'uso di una fonte di energia primaria che avrebbe dovuto essere usata per svolgere questa funzione e che nei rapporti tra Stati europei non sono accettabili obiezioni ingiustificate alle spedizioni verso altro Stato membro/Causa C. 228100, 13.2.2003; Causa C-458/00, 13.2.2003).
Non corretta è anche la seconda affermazione della ordinanza impugnata, secondo cui il CDR impugnabile per recupero energetico in inceneritori dedicati ed in impianti industriali (es. cementifici o centrali termoelettriche) sia solo quello prodotto in regime di procedura semplificata ex artt. 31 e 31 D.L.vo 22/97 e non con la procedura ordinaria.
Trattasi di tesi non condivisibile anzitutto per ragioni logiche, poiché l'autorizzazione dell'autorità competente è un atto che offre maggiori garanzie di controllo rispetto alla comunicazione ad opera dell'interessato. Quello che conta è il contenuto dell'atto e non la forma. Nell'autorizzazione la P.A. è in grado di stabilire in via preventiva ed in modo espresso e specifico quali siano le prescrizioni tecniche da osservare (tipologia, provenienza, caratteristiche) sulla base della normativa tecnica esistente (compreso il D.M. 5.2.1998). Né va dimenticato che il nostro sistema evolve verso meccanismi integrati preventivi, di controllo ambientale (VIA, Autorizzazione ambientale integrata). Nella comunicazione unilaterale da parte dell'interessato, tipica delle procedure semplificate, la P.A. o rimane in silenzio oppure è costretta a richiedere documentazione integrativa ex post.
Nel caso in esame, la Società Dalena Ecologia ha attribuito al CDR in uscita, conferito alla Buzzi Unicem un codice corretto (19 12 10), come risulta dalla decisione 2001/118/CE, che espressamente denomina "rifiuti combustibili" quei rifiuti - urbani e speciali - destinati alla combustione.
II ricorrente ha anche dedotto la violazione dell'art. 14 del decreto legge 8.7.2002 n. 138, convertito nella legge 8.8.2002 n. 178. Questa Corte si è occupata del problema, con orientamenti finora non omogenei, che evidenziano la complessità della problematica.
La soluzione più radicale risulta espressa dalla decisione Sez. III, 27 novembre 2002 n. 2125, Ferretti, per la quale la recente normativa nazionale dovrebbe non essere applicata in quanto in contrasto con la definizione di rifiuto contenuta nel Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993 n. 259), sui trasporti transfrontalieri), attesa la natura della fonte (regolamento) che la contiene.
Sulla stessa linea un orientamento, meno rigido risulta contenuto nella decisione Sez. III, 15 gennaio 2003, n. 1766, Gonzales, per la quale, al fine di delineare la nozione di rifiuto, sussiste la necessità dell'applicazione immediata, diretta e prevalente, nell'ordinamento nazionale, dei principi fissati dai regolamenti comunitari (v. Corte cost., ord. 144/1990) e della sentenza della Corte Europea di Giustizia (v. Corte cost., sent. 389/1999, 255/1999 e 113/1985), atteso che le decisioni della Corte di Giustizia, allorché l'esegesi del diritto comunitario sia incontrovertibile e la normativa nazionale ne appaia in contrasto, sono immediatamente e direttamente applicabili in Italia.
Diversamente in Cass. Sez. III, 13 novembre 2002, n. 4052, Passerotti, si è affermato che nuove disposizioni sono vincolanti per il giudice in quanto introdotte con atto avente pari efficacia legislativa della recedente normativa sebbene venga modificata la nozione di rifiuto dettata dall'art. 1 della Direttiva 91/156/CEE. La decisione ricorda altresì che tale direttiva non è autoapplicativa (self executing) e che in proposito non può adirsi direttamente la Corte di Giustizia per acquisire una interpretazione pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 (ex 117), atteso che a dovere essere interpretata è non già la norma europea, bensì quella nazionale; con la conseguenza che unico strumento operativo, peraltro attivato, è quello della procedura di infrazione contro lo Stato italiano ed il successivo ricorso alla Corte di Giustizia in caso di non adeguamento dello Stato al parere motivato della stessa Commissione, ai sensi dell'art. 226 (già 169) del Trattato di Roma.
Su questa linea sono anche la Sentenza Sez. III, 27 ottobre 2004, n. 1285, Sollo ed altre decisioni della Corte.
Nel frattempo è intervenuta la sentenza 11 novembre 2004 (Causa C - 457/02 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee di Lussemburgo, nella quale si afferma che è contraria al diritto comunitario la nozione di rifiuto "autenticamente interpretata" a norma dell'art. 14 Decreto legge 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178.
Più esattamente, secondo la motivazione della Corte, la nozione comunitaria di rifiuto ammette che non sia considerato tale un materiale residuo di produzione che si intende sfruttare o commercializzare in un processo successivo, ovverosia un "sottoprodotto" derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione e destinato al riutilizzo, purchè però “il suo riutilizzo sia certo” e avvenga senza trasformazioni preliminari, nel corso del processo di produzione, e residui di consumo sono, invece, sempre catalogabili nella categoria dei rifiuti.
Trattasi di una decisione importante, che va rispettata non solo per i limiti posti al nostro ordinamento interno dalla gerarchia delle fonti giuridiche, ma anche per le aperture in ordine alla esclusione dal novero dei rifiuti dei “sottoprodotti” con “certo” riutilizzo.
La decisione citata vincola certamente il giudice remittente in ordine al caso concreto oggetto del giudizio, ma - ad avviso di questa Corte - non comporta l'automatico annullamento di una legge dello Stato italiano e neppure esclude che a livello giurisprudenziale in sede comunitaria e nei singoli Paesi membri continui una elaborazione paziente e necessaria in ordine alla concezione del rifiuto) che non è di tipo ideologico e che deve saper contemperare le giuste esigenze di tutela della salute e dell'ambiente con quelle legate alla evoluzione tecnica, economica e sociale del settore a distanza di 30 anni dalla prima Direttiva comunitaria.
Come la Corte europea può mutare indirizzo, così i giudici nazionali conservano un proprio ruolo nei casi concreti, pur nell'ambito dei punti definiti dalla Corte.
Con riferimento al caso in esame, le sentenza della Corte europea sopra citata esige una verifica sulla natura del CDR e sull'effettivo ed univoco riutilizzo del materiale ceduto dalla Società Dalena
Ecologia srl alla Società Buzzi Unicem spa con sede in Barletta. Tale accertamento non risulta essere stato compiuto, perché ritenuto non necessario alla luce dei due erronei presupposti di cui si è già detto.
Il ricorrente ha, infine, richiamato la legge 15 dicembre 2004 n. 308, che all'art. 29, lettera b contiene una esclusione, in via immediata ed oggettiva, dal campo di applicazione della legge sui rifiuti e del novero stesso dei rifiuti del combustibile ottenuto dai rifiuti urbani e speciali non pericolosi, come descritto dalle norme tecniche UNI 9903-1 (RDF di qualità elevata), utilizzato in co-combustione, come definita dall'articolo 2, comma 1, lettera g) , del decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato 11 novembre 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 292 del 14 dicembre 1999, come sostituita dall'articolo 1 del decreto del Ministro delle attività produttive 18 marzo 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 71 del 25 marzo 2002, in impianti di produzione di energia elettrica e in cementifici, come specificato nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 12 marzo 2002".
Questa norma interessa specificamente il caso in esame e deve - a giudizio di questa Corte - trovare
applicazione se ne ricorrono i presupposti.
II giudice, infatti, è soggetto alla legge secondo i principi costituzionali.
II giudice di rinvio [acquisito il concetto che il combustibile può essere ottenuto sia da rifiuti urbani che speciali non pericolosi e che è irrilevante la forma delle procedure autorizzatorie] per escludere in concreto la stessa natura del rifiuto (che non consentirebbe in radice di ravvisare il “fumus boni iuris" del reato), deve accertare:
a) se nel caso in esame il CDR è conforme alle norme tecniche UNI 9903-1;
b) se esso è utilizzato in modo certo in impianti di produzione di energia elettrica o in cementifici (come risulterebbe nel caso concreto).
La nuova norma non richiede altre condizioni. Essa non esclude che il combustibile sia ottenuto da rifiuti urbani e speciali e possa essere ceduto a terzi per la utilizzazione in un cementificio, trattandosi in tal caso di una "merce" e non di un rifiuto in senso tecnico. Basta la conformità alle norme tecniche di qualità UN 9903-1.
Se questa condizione che travolgerebbe subito la misura cautelare non si verifica in punto di fatto, rimane la subordinata, ossia di accertare se il rifiuto (perché di questo si tratterebbe) poteva essere ceduto e utilizzato come CDR nel cementificio UNICEM di Barletta per le sue intrinseche caratteristiche.
Prescindendo dalla natura urbana o speciale, e della forma dell'atto (autorizzazione o comunicazione) e dalla procedura (ordinaria o semplificata), l'indagine deve essere rivolta alle prescrizioni della P.A. per accertare se esse sono conformi alla normativa e se il loro contenuto tecnico è stato osservato.
La misura cautelare - che inibisce una attività economica - comunque, potrà essere conservata solo se effettivamente continuano a sussistere i presupposti di legge, alla luce dei principi sopra indicati da questa Corte.