Cass. Sez. III n. 35850 del 31 agosto 2016 (Ud 10 mag 2016)
Pres. Rosi Est. Di Stasi Ric. Tramontana
Acque.Caratteristiche delle acque reflue industriali
Ai fini della tutela penale dall'inquinamento idrico nella nozione di acque reflue industriali ex art. 74, comma 1, lett. h, del d.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (come modificato dal d.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività commerciali e produttive, in quanto detti reflui non attengano prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche di cui alla nozione di acque reflue domestiche, come definite dall'art. 74, comma 1, lett. g). Per determinare, quindi, le acque che derivano dalle attività produttive occorre procedere a contrario, vale a dire escludere le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica. Le attività produttive, inoltre, non necessitano per essere tali di un vero e proprio stabilimento: l'insediamento può essere effettuato anche in un edificio che non abbia complessivamente destinazione industriale. Il criterio distintivo tra insediamenti civili e insediamenti produttivi deve essere ricercato in concreto sulla base dell'assimilabilità o meno dei rispettivi scarichi, per quantità e qualità dei reflui, a quelli provenienti da insediamenti abitativi.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 16.10.2014, il Tribunale di Nocera Inferiore dichiarava T.F., nella qualità di legale rappresentante del Centro di Emodialisi sito in (OMISSIS) responsabile del reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 137, comma 1, perchè effettuava o comunque consentiva lo scarico di acque reflue industriali derivanti da postazioni di dialisi (fatti accertati in (OMISSIS)) e, concesse le attenuanti generiche, la condannava alla pena di Euro 1000,00 di ammenda.
2. Avverso tale sentenza ha proposto appello T.F., a mezzo del difensore di fiducia, articolando i motivi di seguito enunciati:
Con un primo motivo chiede l'assoluzione perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato, deducendo che, in base alla normativa regionale vigente all'epoca dei fatti, i reflui provenienti dal Centro di Emodialisi non erano assimilabili a reflui industriali nè per categoria nè per attività, difettando la menzione dei Centri di Emodialisi nell'elenco delle attività i cui scarichi venivano definiti industriali.
Con un secondo motivo chiede l'assoluzione ex art. 530 c.p.p., comma 2, non essendo emersa la prova che il Centro di Emodialisi scaricasse reflui di tipo industriale.
Con ordinanza emessa dalla Corte d'appello di Salerno in data 15.5.2015, depositata in pari data, previa qualificazione dell'appello come ricorso per cassazione è stata disposta la trasmissione degli atti a questa Corte, trattandosi di sentenza di condanna alla sola pena dell'ammenda.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La rilevanza penale dell'illecito in materia di scarichi presuppone che lo scarico abbia ad oggetto acque reflue industriali, per cui la natura del refluo scaricato costituisce il criterio di discrimine tra tutela punitiva di tipo amministrativo e quella strettamente penale.
Ai fini della tutela penale dall'inquinamento idrico nella nozione di acque reflue industriali D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ex art. 74, comma 1, lett. h, (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività commerciali e produttive, in quanto detti reflui non attengano prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche di cui alla nozione di acque reflue domestiche, come definite dall'art. 74, comma 1, lett. g).
Per determinare, quindi, le acque che derivano dalle attività produttive occorre procedere a contrario, vale a dire escludere le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica (cfr. sez. 3, 27 novembre 2003, dep. 20 gennaio 2004 n. 978; conformi sez. 3, 1 luglio 2004 n. 35870, sez. 3, 24 ottobre 2002 n. 42932, sez. 3 n. 1774/2000).
Le attività produttive, inoltre, non necessitano per essere tali di un vero e proprio stabilimento: l'insediamento può essere effettuato anche in un edificio che non abbia complessivamente destinazione industriale.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, il criterio distintivo tra insediamenti civili e insediamenti produttivi deve essere ricercato in concreto sulla base dell'assimilabilità o meno dei rispettivi scarichi, per quantità e qualità dei reflui, a quelli provenienti da insediamenti abitativi.
Tate principio, già espresso più volte nella vigenza della L. n. 319 del 1976, è stato ribadito anche nella vigenza delle successive discipline (ex plurimis, sez. 3, 6 dicembre 2011, n. 45341;sez. 3 n.2340 del 2013; sez. 3, 13 maggio 2014, n. 24330, la quale contiene una disamina della giurisprudenza sul punto).
Deve, dunque, ribadirsi quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la definizione di acque reflue domestiche, contenuta nel D.Lgs. n. 152 del 2006, quali acque provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche, è tale da non ricomprendere ai sensi del successivo art. 101, comma 7, lett. e) le acque reflue non aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche (ex plurimis, sez. 3, 15 dicembre 2010, n. 2313, Rv. 249532; sez. 3, 18 giugno 2009, n. 35137, Rv. 244587).
Pertanto, nella nozione di acque reflue industriali rientrano tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche e non sono costituiti da acque meteoriche di dilavamento (ex multis, sez. 3, 7 luglio 2011, n. 36982).
Le acque reflue prodotte da un centro di emodialisi, quindi, in quanto provenienti da una attività che ha ad oggetto l'effettuazione di prestazioni terapeutiche (l'emodialisì è una terapia fisica sostitutiva della funzionalità renale somministrata a soggetti nei quali essa è criticamente ridotta e si attua mediante l'utilizzo di un impianto attraverso il quale il sangue del soggetto dializzato viene estratto dal paziente, filtrato ponendolo a contatto con il liquido di dialisi attraverso l'interposizione di una membrana di dialisi a livello della quale si determina lo scambio di soluti tra i fluidi- sangue e liquido di dialisi- e, quindi, reinfuso:; il liquido di dialisi contiene soluti ma anche sostanze microinquinanti provenienti dall'acqua utilizzata dagli apparecchi di dialisi, dai concentrati e, in particolari condizioni sfavorevoli, dalle stesse attrezzature di dialisi), sono caratterizzate dalla presenza di sostanze estranee sia al metabolismo umano che alle attività domestiche; non possono, quindi, essere qualificate come acque reflue domestiche ma vanno qualificate come acque reflue industriali.
Giova ricordare, poi, che, sebbene con riferimento alla materia dei rifiuti sanitari, questa Corte ha ritenuto che le acque di emodialisi rientrano nella nozione di rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo di cui al D.P.R. 15 luglio 2003, n. 254, in quanto la presenza di sangue nelle stesse è da sola sufficiente a farle rientrare nella predetta categoria (Sez. 3, n. 22021 del 13/04/2010, Rv. 247604).
Va rimarcato, infine, la delibera Giunta Regionale Campania n. 1350 del 6 agosto 2008, richiamata dalla ricorrente a fondamento del motivo proposto quale normativa regionale vigente al momento dei fatti, non menziona affatto tra gli scarichi assimilabili alle acque reflue domestiche i centri di emodialisi e, quindi, non assume alcun rilievo ai sensi del D.P.R. n. 152 del 2006, art. 101, comma 7, lett. e), che, comunque, prevede l'applicabilità della normativa regionale purchè le acque indicate come assimilate alle acque reflue domestiche abbiano caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche.
Il Giudice di merito, pertanto, avendo accertato che l'imputata, nella qualità di legale rappresentante del Centro di Emodialisi sito in Sarno, ha effettuato scarichi senza autorizzazione dei relativi reflui nella raccolta delle acque piovane, ne ha correttamente affermato la penale responsabilità, in applicazione dell'art. 74, comma 1, nel combinato disposto delle lett. g) e h), in relazione al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 101, comma 7, lett. e), trattandosi di acque reflue industriali per cui è configurabile la contravvenzione di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 137, comma 1.
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Va ricordato che l'impugnazione proposta come appello, riqualificata dalla Corte territoriale come ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 568 c.p.p., comma 5, in base al principio di conservazione degli atti, determina unicamente l'automatico trasferimento del procedimento dinanzi al giudice competente in ordine alla impugnazione secondo le norme processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio di impugnazione correttamente qualificato, ciò comportando che l'atto convertito deve avere i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe dovuto essere proposta (ex multis: Sez. 1, n. 2846 del 08/04/1999 - dep. 09/07/1999, Annibaldì R, Rv. 213835).
Nel caso in esame, il motivo proposto è diverso da quelli consentiti dalla legge ex art. 606 c.p.p., comma 3, atteso che, come si desume dal tenore dell'originario gravame, esso attiene a censure di merito, riguardanti, da un lato la rivalutazione del compendio probatorio e dall'altro la ricostruzione in fatto della vicenda, ambiti che esulano dal sindacato di legittimità.
3. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
4. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
5. L'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza del motivo proposto non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p., ivi compresa la prescrizione (Sez. U. del 25.3.2016 n. 12602; Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, Rv.256463; Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Rv.231164; Sez. 4 n. 18641, 22 aprile 2004).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 10 maggio 2016.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2016