Abusi edilizi e autotutela: l’onere della prova in capo al privato. Nota a Cons. Stato, II, 1 febbraio 2024, n. 1016.
di Clara NAPOLITANO
pubblicato su giustiziainsieme.it. Si ringraziano Autore ed Editore
Sommario: 1. I fatti: il rilascio del permesso di costruire, l’annullamento in autotutela, l’ordine di demolizione. La quæstio giuridica all’esame del Consiglio di Stato. – 2. L’autotutela: il modello generale dell’annullamento d’ufficio. – 3. Le peculiarità dell’autotutela edilizia. – 4. L’annullamento d’ufficio del permesso di costruire a fronte della falsa – o incerta – rappresentazione della realtà: l’onere della prova procedimentale. – 5. Il principio di vicinanza della prova: rilievo processuale e, prima ancora, procedimentale.
1. I fatti: il rilascio del permesso di costruire, l’annullamento in autotutela, l’ordine di demolizione. La quæstiogiuridica all’esame del Consiglio di Stato.
Nella sentenza in commento, il Consiglio di Stato si pronuncia in merito all’impugnazione, da parte del ricorrente, del provvedimento di annullamento d’ufficio del permesso di costruire precedentemente rilasciatogli dall’Amministrazione comunale e della conseguente ordinanza di demolizione dei manufatti ritenuti abusivi dalla stessa p.A.
Questi i fatti.
Il privato chiedeva al Comune il rilascio di un permesso di costruire piuttosto curioso: un p.d.c. «per presa d’atto», in modo da «acquisire una legittimazione postuma di una serie di modiche apportate alle predette unità e certamente risalenti a tempo immemorabile e comunque a prima del 1942»[1]. In quella istanza, il privato dichiarava, dunque, che gli immobili che intendeva regolarizzare erano stati così realizzati prima del 1942, ovvero prima dell’adozione della legge urbanistica fondamentale – la l. n. 1150/1942 – e, dunque, prima che fosse necessario un qualsivoglia titolo edilizio per la loro edificazione. Il permesso, pertanto, chiesto il 29 aprile 2016, era rilasciato il 14 luglio 2016.
La vicenda, probabilmente, non avrebbe avuto ulteriori sviluppi se non si fosse aperto – poco prima dell’istanza stessa – un procedimento parallelo di verifica dello stato dei luoghi, sollecitato dalla confinante controinteressata.
Era infatti accaduto che l’anno precedente, nel 2015, quello stesso privato avesse presentato al Comune una SCIA e – di poi, nell’arco dello stesso 2016 – una serie di C.I.L. in relazione ad alcuni manufatti localizzati in altra parte di quegli stessi immobili. L’Amministrazione comunale, effettuati i relativi sopralluoghi, avrebbe poi emanato una ordinanza di demolizione di quei manufatti, ritenuti abusivi, e, al contempo, aperto un procedimento di verifica del seguente permesso di costruire del 2016.
Il Comune aveva infatti notato – tra le altre cose – che tra la planimetria allegata alla SCIA del 2015 e quella allegata all’istanza di p.d.c. del 2016 c’erano discrete incongruenze le quali lasciavano intendere che tra il 2015 e il 2016 fossero state realizzate opere abusive che, poi, l’istante avrebbe voluto sanare tramite il permesso di costruire per «presa d’atto», retrodatando la planimetria al periodo ante 1942.
Prima di giungere all’esito del procedimento di autotutela sul permesso di costruire, l’Amministrazione comunale sollecitava più volte il privato a chiarire e attestare – comprovandola agli atti – la risalenza delle opere al periodo antecedente al 1942: stante l’assenza di un qualunque riscontro, la conclusione del procedimento diventava pressoché obbligata nel senso dell’annullamento d’ufficio del permesso di costruire precedentemente rilasciato[2].
Il provvedimento era pertanto oggetto d’impugnazione al Tar, che rigettava il ricorso sulla scorta della seguente motivazione: «secondo la giurisprudenza amministrativa l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spett(a) a colui che ha commesso l’abuso e ... solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi – i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni – trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione»; sicché «il soggetto che contesta la legittimità dell’ordinanza sindacale di demolizione di un manufatto abusivo ha l’onere di fornire per lo meno un principio di prova in ordine al tempo di ultimazione di quest’ultimo, se asserisce che è stato realizzato prima della legge n. 1150/‘42 (nel centro abitato), ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia»[3].
Non dandosi per vinto, il privato-ricorrente proponeva appello: il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, confermava la decisione del Tar in tutti i suoi aspetti, rilevando che la pur articolata ricostruzione dei fatti e degli interventi edilizi operata dall’appellante «non contrasta in alcun modo il ragionamento svolto dal primo giudice, ancorato ad una pluralità di elementi che risultano correttamente desunti e condivisibili».
La questione giuridica concerne, dunque, il rapporto tra privato e p.A. in relazione all’onere della prova nel caso di abusi edilizi: posto che, come si vedrà, vige granitico il principio per cui spetta al privato l’onere di provare che gli interventi edilizi sine titulo sono risalenti a un torno di tempo anteriore al 1942 (così legittimandone l’esecuzione priva di titoli abilitativi di sorta), fino a che punto quest’onere può spingersi, alla luce dei principi di correttezza e buona fede nel rapporto con la p.A.?
2. L’autotutela: il modello generale dell’annullamento d’ufficio.
Il tema che sta sullo sfondo della vicenda concerne l’esercizio del potere di autotutela – nella forma dell’annullamento d’ufficio – in materia edilizia.
È ben noto l’assetto generale del potere sancito – dal 2005 – dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Solo per ripercorrere per apicibus la sua parabola evolutiva[4], basterà ricordare che in origine il potere di annullare d’ufficio i propri provvedimenti era considerato attributo immanente e permanente del più generale potere-dovere della p.A. di curare l’interesse pubblico. La natura giuridica del potere medesimo – se fosse espressione del potere originario di provvedere (e ri-provvedere, seppur in senso demolitorio) sul medesimo interesse pubblico; o se, viceversa, fosse espressione di un potere proprio di “annullamento” – erano questioni, tutto sommato, orbitanti rispetto alla certezza che annullare d’ufficio gli atti, motivatamente e in misura proporzionata, fosse comunque un potere immanente nella pubblica Amministrazione, che non necessitava d’esser sancito legislativamente.
L’ancoraggio al dato normativo è avvenuto, come anticipato, nel 2005, interpolando nella legge generale sul procedimento amministrativo alcune disposizioni sull’autotutela esecutiva (art. 21-ter) e altre sull’autotutela decisoria (art. 21-quinquies e 21-nonies in particolare, ma anche art. 21-quater concernente la sospensione del provvedimento): sono gli anni di una rinnovata attenzione al principio di legalità, ed è dunque essenziale che il potere non sia più immanente, ma espressamente regolato da disposizioni di legge, a tutela anche (o forse, soprattutto) del privato che ne subisce gli effetti giuridici[5].
Ne deriva una formulazione della norma che restituisce un potere ancora fortemente discrezionale[6]: l’Amministrazione può decidere se aprire un procedimento di annullamento d’ufficio di un proprio precedente provvedimento illegittimo[7]; quando farlo[8]; se annullare o meno[9]. Sono pochissime le ipotesi di Reduzierung auf Null della discrezionalità, generalmente ricondotte al diritto europeo e ad altre scarne evenienze nelle quali il mantenimento in vita del provvedimento illegittimo è «semplicemente insopportabile» (unerträglich)[10].
Senonché, dal 2011 in poi l’esigenza di reagire alla crisi economica attraverso un’adeguata politica di incentivazione degli investimenti, tale da rendere il Paese più appetibile, ha, coerentemente, indotto il legislatore a rivedere la disciplina dell’autotutela sugli atti amministrativi incidenti sull’esercizio delle attività economiche, spingendolo a prestare sempre maggiore attenzione alla tutela dell’affidamento determinato dal conseguimento dei titoli abilitativi. In quest’ottica, i successivi interventi legislativi si sono mossi nella logica di dare maggior fiducia agli investitori. In particolare, la l. 11 novembre 2014, n. 164 (di conversione del d.l. 11.9.2014, n. 133, c.d. decreto Sblocca Italia) e poi, soprattutto, la l. 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. legge Madia) e i suoi decreti attuativi (in particolare cc.dd. SCIA-1 e SCIA-2), si sono mossi in una logica – per un verso – di semplificazione amministrativa, ampliando la possibilità di ottenere titoli abilitativi per silentium o sulla base di un mero decorso temporale a fronte della presentazione di autocertificazioni; per altro verso, di irrigidimento dei poteri di autotutela, limitati fortemente nei presupposti ma soprattutto nell’arco temporale d’esercizio[11].
Sicché, l’annullamento d’ufficio ha, sì, mantenuto una dimensione discrezionale, restando tuttavia confinato alle sole ipotesi di provvedimenti illegittimi sotto il profilo sostanziale e comunque limitato nel tempo a 18 mesi dall’adozione di quei provvedimenti, oltre i quali v’è una prevalenza automatica dell’affidamento legittimo del privato e il provvedimento autorizzatorio non è più annullabile[12]. Nondimeno, il termine d’esercizio del potere è stato ulteriormente abbreviato[13]: 12 mesi, nell’attuale formulazione normativa, frutto del d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (c.d. decreto Semplificazioni-bis). È peraltro in cantiere un nuovo d.d.l. Semplificazioni, il cui schema è stato sottoposto al Consiglio dei Ministri il 26 marzo 2024, per cui il termine d’esercizio del potere di annullamento d’ufficio sarà ridotto ulteriormente a 6 mesi[14].
L’unica eccezione alla (sempre maggiore) perentorietà del termine sta nella possibilità che il privato non sia effettivamente titolare di un affidamento legittimo meritevole di tutela sulla stabilità del titolo abilitativo per aver egli stesso dolosamente o colposamente indotto in errore l’Amministrazione o aver dato falsa o mendace rappresentazione della realtà: lo stabilisce il comma 2-bis dell’art. 21-nonies, in base al quale «i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445». La disposizione, per il vero non particolarmente perspicua[15], ha dato la stura a un corposo orientamento giurisprudenziale che – spesso proprio in materia edilizia – legittima il potere di autotutela “tardivo” dell’Amministrazione a fronte di false rappresentazioni della realtà da parte del privato senza che neanche sia richiesto l’accertamento penale[16].
3. Le peculiarità dell’autotutela edilizia.
Ora, il modello generale di autotutela (nel senso dell’annullamento d’ufficio) – pur se fortemente ridimensionato nei tempi d’esercizio – è comunque basato su un ampio potere discrezionale dell’Amministrazione, che trova limite nell’affidamento del privato (laddove legittimo) e spinge la p.A. a dover minuziosamente motivare il suo atto di secondo grado per giustificarne gli effetti giuridici demolitori.
Rispetto a questo quadro, l’autotutela edilizia presenta due peculiarità:
- la possibilità di motivazione affievolita (c.d. interesse pubblico in re ipsa);
- per certe fattispecie, la doverosità.
Il distacco sotto il primo profilo rispetto al modello generale è prefigurato – seppur prudentemente – dall’Adunanza Plenaria n. 7/2018[17]: pronunciatasi su una fattispecie anteriore all’introduzione del termine di 18/12 mesi (profilo che dunque resta fuori da quanto adesso si dirà), la Plenaria ha offerto un archetipo dell’autotutela edilizia piuttosto rigoroso.
Anzitutto, la motivazione.
Pur non aderendo supinamente alla teoria della motivazione in re ipsa[18], il Collegio sostiene che l’obbligo di motivazione del provvedimento di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio è senz’altro attenuato in ragione dei peculiari e rilevanti interessi pubblici sottesi all’adozione di un simile provvedimento[19].
Ma lo è ancor di più laddove l’illegittimità sia stata provocata dalla falsa rappresentazione della realtà da parte del privato (o costui abbia contribuito a falsarla, non contraddicendo l’Amministrazione ma restando inerte davanti a un suo errore): non essendoci alcun legittimo affidamento da proteggere e da bilanciare con gli interessi pubblici[20].
Quanto, poi, al profilo della doverosità: la norma speciale sull’autotutela edilizia (art. 39, d.P.R. n. 380/2001) e una certa lettura giurisprudenziale dell’art. 21-nonies configurano il potere di annullamento d’ufficio come doveroso in quanto espressione – più che di una potestà discrezionale – di un potere di vigilanza sull’edificazione corretta del territorio[21].
4. L’annullamento d’ufficio del permesso di costruire a fronte della falsa – o incerta – rappresentazione della realtà: l’onere della prova procedimentale.
S’è visto che l’annullamento d’ufficio del titolo abilitativo edilizio è senz’altro agevolato – quanto meno sotto il profilo motivazionale, oltre che rispetto al lasso temporale d’esercizio – quando non vi sia un ragionevole convincimento sulla stabilità del titolo da parte del privato: ciò accade, appunto, quando dai documenti – nonché dal contegno di questi – sia evincibile una mistificazione dello stato di fatto.
Non bisogna dimenticare che, sullo sfondo della vicenda qui in commento, campeggiano i principi di correttezza, collaborazione e buona fede che governano ormai pacificamente il rapporto amministrativo, codificate all’art. 1, comma 2-bis, l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 120/2020. Ne ha dato ampio spaccato l’Adunanza Plenaria, con la sentenza (da ultimo) 21 novembre 2022, n. 19[22]: «il procedimento amministrativo – forma tipica di esercizio della funzione amministrativa – è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo. Per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa il procedimento necessita pertanto dell’apporto dei soggetti a vario titolo interessati, nelle forme previste dalla legge sul procedimento del 7 agosto 1990, n. 241. Concepito in questi termini, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell’ambito di una relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata ed in ragione di ciò esso si rivolge all’amministrazione e ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento».
La stessa Plenaria ha delineato i limiti di tutela dell’affidamento del privato, sempre alla luce dei detti principi: «deve innanzitutto premettersi che l’affidamento tutelabile in via risarcitoria deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, e in cui il privato abbia senza colpa confidato. […] per cui un affidamento incolpevole non è pertanto predicabile innanzitutto nel caso estremo […] in cui sia il privato ad avere indotto dolosamente l’amministrazione ad emanare il provvedimento. In conformità alla regola civilistica ora richiamata altrettanto è a dirsi se l’illegittimità del provvedimento era evidente ed avrebbe pertanto potuto essere facilmente accertata dal suo beneficiario».
Insomma, il privato contribuisce senz’altro – nel bene e nel male – al contenuto del provvedimento finale: nel caso in cui contribuisca nel male, gli è riconosciuta tutela nel caso questa circostanza sia avvenuta senza assoluta sua colpa e in modo per lui non riconoscibile.
Che fare, allora, nel caso di cui alla sentenza in commento? Come comportarsi, cioè, quando – a fronte della segnalazione del controinteressato al permesso di costruire – l’Amministrazione si avvede di incongruenze nelle planimetrie e chiede – invano – al beneficiario i relativi chiarimenti?
Nel caso di specie, l’Amministrazione si avvede che la consistenza dell’immobile in planimetria potrebbe non essere, effettivamente, risalente a un periodo ante 1942: la retrodatazione non è sufficientemente provata. O, meglio: lo era nel momento della richiesta del permesso; le allegazioni, tuttavia, a fronte della minuziosa segnalazione del controinteressato e del successivo sopralluogo, non bastano più e necessitano di prove più circostanziate.
Vale, insomma, il principio per cui «va posto in capo al proprietario (o al responsabile dell’abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l’onere di provare il carattere risalente del manufatto, collocandone la realizzazione in epoca anteriore alla c.d. legge ponte n. 761 del 1967 che con l’art. 10, novellando l’art. 31, l. n. 1150 del 1942, ha esteso l’obbligo di previa licenza edilizia alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano; tale conclusione vale non solo per l’ipotesi in cui si chiede di fruire del beneficio del condono edilizio, ma anche – in generale – per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione, appunto, di opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del regime amministrativo autorizzatorio dello ius aedificandi; tale criterio di riparto dell’onere probatorio tra privato e amministrazione discende dall’applicazione alla specifica materia della repressione degli abusi edilizi del principio di vicinanza della prova poiché solo il privato può fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre l’amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno dell’intero suo territorio»[23].
L’onere della prova per evitare la sanzione (o appunto l’annullamento d’ufficio – a questo punto, doveroso – del permesso di costruire “per presa d’atto”) grava, dunque, sul privato: ciò in quanto, secondo la giurisprudenza, è solo costui che può avere accesso a una documentazione comprovante la risalenza dell’intervento edilizio. Il Giudice amministrativo esclude che l’Amministrazione possa – da sé – fare quelle verifiche risalenti nel tempo e acquisire la certezza della datazione dell’intervento.
Ciò non implica, ovviamente, che anche laddove vi siano legittimi dubbi sull’epoca di realizzazione, l’Amministrazione possa provvedere senza interpellare il privato: il soggetto pubblico non può deflettere dal suo compito di provvedere – e, se del caso, sanzionare – prima di aver coinvolto il privato nel procedimento decisionale.
Laddove l’Amministrazione così agisse, sarebbe certo illegittimo il provvedimento conseguente. È il caso, per esempio, dell’illegittimità di un ordine di demolizione di un manufatto ritenuto abusivo, la cui edificazione ante normativa era invece stata provata dal privato con allegazioni fotografiche precise[24], considerate apoditticamente non sufficienti dalla p.A. comunale.
Nel caso di specie, al contrario, il Comune aveva dato prova di voler ascoltare le deduzioni del privato, chiedendogli più volte di comprovare la datazione dei presunti abusi edilizi precedentemente al 1942. Il privato, inerte e silenzioso rispetto alle sollecitazioni, aveva solo dedotto inizialmente in una relazione tecnica che «certamente» l’immobile aveva quella precisa conformazione da prima del 1942, senza però alcuna allegazione fotografica né altro tipo di testimonianza.
Lo stato storico dell’immobile, dunque, versava in una incertezza: risoltasi, però, anche a fronte del contegno inerte e silenzioso del privato, nella più che plausibile consapevolezza della non retro-databilità degli interventi edilizi.
5. Il principio di vicinanza della prova: rilievo processuale e, prima ancora, procedimentale.
L’orientamento giurisprudenziale per cui è il privato, a dover provare all’Amministrazione la datazione degli interventi, è sorretto anche dal principio (di natura processuale) di vicinanza della prova, di cui agli artt. 63 e 64 c.p.a.
Ciò in quanto, come afferma la giurisprudenza, «la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è posta sul privato e non sull’Amministrazione, atteso che solo il privato può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone e, dunque, in applicazione del principio di vicinanza della prova) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto; mentre, l’Amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio. Tale prova deve, inoltre, essere rigorosa e deve fondarsi su documentazione certa e univoca e comunque su elementi oggettivi, dovendosi, tra l’altro, negare ogni rilevanza a dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o a semplici dichiarazioni rese da terzi, in quanto non suscettibili di essere verificate»[25].
Ora, l’applicazione di questo principio nel processo amministrativo – specie nel giudizio impugnatorio – mira a temperare la forte asimmetria che c’è tra la parte pubblica e quella privata: discostandosi dall’allegazione formalistica di cui all’art. 2967 c.c. e guardando, invece, alla prova tramite allegazione dei documenti nella cui disponibilità è ciascuna parte[26].
Ovviamente, in fattispecie come questa si dà per assodata l’idea che sia il privato, a detenere “ordinariamente” documenti e reperti in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione degli interventi edilizi: documenti che poi, in sede di giudizio, dovrebbero anche essere prodotti. Senz’altro è possibile ricostruire la storia di un immobile dagli atti notarili, per esempio; forse, nei casi fortunati, si ritrovano fotografie in grado di testimoniare quelle stesse circostanze. Non è detto, però, che sia sempre agevole.
Nondimeno, non si vede altra strada che questa: l’Amministrazione, oggettivamente, salvo caso fortuito, non è in grado di ritrovare, neanche nei propri archivi, la prova della consistenza di un immobile negli anni anteriori all’instaurazione di qualunque obbligo di licenza edilizia. Tuttavia, se ne può trovare, almeno, il primo titolo storicamente accertabile: in un’epoca nella quale non si faceva uso di autocertificazioni, probabilmente i documenti in possesso delle Amministrazioni possono fornire una prova piuttosto fedele.
In questo modo, probabilmente, si può semplificare l’attività probatoria del privato, conducendo in maniera meno incerta a un esito sanzionatorio-annullatorio del permesso di costruire o, al contrario, a un’archiviazione del procedimento, con mantenimento dell’edificato.
Laddove la prova della realizzazione degli immobili nel periodo precedente il 1942 non sia raggiunta, prevarranno senz’altro le tutele degli interessi pubblici alla regolare edificazione del territorio: l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire sarà – ça va sans dire – doveroso.
[1] È quanto contenuto nel ricorso di parte, come mostra la sentenza di primo grado, Tar Puglia, Lecce, I, 15 giugno 2021, n. 926.
[2] Questa la motivazione del provvedimento ex art. 21-nonies, l. n. 241/1990:
«è stato disposto (…) l’avvio di procedimento amministrativo finalizzato alla verifica di legittimità del Permesso di Costruire n. 61/2016 (del) 14 luglio 2016 in quanto la consistenza dichiarata risulta essere superiore e diversa rispetto a quella indicata come stato di fatto nella SCIA n. 3/2015’ (…)
- in data 17 ottobre 2018, prot. n. 0054634, questo Ufficio ha inoltrato un primo sollecito, alle parti, a voler dimostrare l’effettiva consistenza e l’appartenenza degli ambienti che costituiscono incongruenza tra gli elaborati allegati alla SCIA n. 3/2015 e il PdC n. 61/2016;
- in data 14 febbraio 2019, prot. n. 0008834, questo Ufficio ha inoltrato un secondo sollecito, alle parti, a dare riscontro a richiesto con la precedente nota;
Dato atto che non risultano pervenute risposte dalle parti interessate.
Considerato: - che il titolo edilizio (PdC n. 61/2016 del 14 luglio 2016), per la connotazione particolare ‘per presa d’atto’ di immobile già esistente, necessariamente basa il suo presupposto principale sulla specifica attestazione delle parti aventi titolo in merito alla sua consistenza planivolumetrica e, susseguentemente, alla verifica da parte dell’ufficio, con riferimento alle caratteristiche tipologiche costruttive dell’immobile ed ai riscontri cartografici in atti; - che il mancato riscontro del richiedente, più volte sollecitato, fa venire meno il suddetto presupposto principale ai fini della validità del PdC n. 61/2016 … a maggior ragione in presenza di altro titolo edilizio (SCIA n. 3/2015) - sempre a nome dello stesso richiedente - che presenta la stessa porzione di immobile in modo differente nella sua consistenza; - che alla luce delle considerazioni sopra riportate, fatta salva ogni valutazione in merito, sugli aventi titolo per la porzione di immobile in argomento, e/o sulle interconnessioni con altri procedimenti urbanistico - edilizi in itinere, sempre riferiti all’immobile in argomento, appare inconfutabile la mancata puntuale definizione della effettiva consistenza dell’immobile oggetto del PdC n. 61/2016.
(…)
Determina l’annullamento del Permesso di Costruire…».
[3] Cfr. i rinvii giurisprudenziali a Tar Puglia, Lecce, I, 21 luglio 2020, n. 767; v. anche Cons. Stato, II, 5 febbraio 2021, n. 1109 e 8 maggio 2020, n. 2906, secondo cui «è a carico esclusivamente del privato l’onere della prova in ordine alla data della realizzazione dell’opera edilizia al fine di poter escludere al riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio (…) Tale onere discende attualmente dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità».
[4] La bibliografia sul punto è ovviamente sterminata. Sia sufficiente qui ricordare le ricostruzioni di M. Immordino, I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2014, pp. 337 ss. Sulle problematiche sollevate dall’istituto dell’annullamento, cfr. anche S. D’Ancona, L’annullamento d’ufficio tra vincoli e discrezionalità, Napoli, 2015. Sulle incongruenze della disciplina della revoca, P.L. Portaluri, Note sull’autotutela dopo la legge 164/14 (qualche passo verso la doverosità?), in Federalismi.it, 2014; su una lettura dei poteri di autotutela demolitoria che consente di trovare tratti comuni tra revoca e annullamento d’ufficio, A. Gualdani, Verso una nuova unitarietà della revoca e dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2016. Si v. anche M. Allena, L’annullamento d’ufficio, Napoli, 2017. Per il profilo europeo sia consentito il rinvio anche a C. Napolitano, Autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, 2018; da ultimo, M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, in Ceridap, n. 4/2020.
[5] V. in proposito, B.G. Mattarella, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Riv. it. dir. pubbl. com., pp. 1223 ss.; F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, n. 20/2015.
[6] Si ricorda la primigenia formulazione dell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990: «Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
[7] È granitico l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il potere di annullamento d’ufficio non può essere coartato dal privato, il quale – laddove l’Amministrazione non dia corso alla sua istanza – non potrà trovare tutela avverso il silenzio inadempimento della p.A., non configurandosi un obbligo di procedere e, dunque, un silenzio inadempimento: «Non sussiste in capo all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi in maniera esplicita sull’istanza del privato diretta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela su un diniego di condono reso in ragione delle caratteristiche con il sito protetto e del conseguente parere negativo della Soprintendenza. Il potere di autotutela è infatti incoercibile dall’esterno attraverso l’istituto del silenzio-inadempimento ai sensi dell’art. 117 c.p.a., salvo i casi normativamente stabiliti di autotutela doverosa e casi particolari legati ad esigenze conclamate di giustizia» (ex multis, Cons. Stato, VI, 6 aprile 2022, n. 2564).
[8] Il rapporto tra annullamento d’ufficio e decorso del tempo, prima della sua formalizzazione in un lasso temporale specifico, era dettato esclusivamente dalla possibilità di ritenere consolidato l’affidamento legittimo del privato (per uno spaccato rispetto alla norma vigente all’epoca, F. Caringella, Affidamento e autotutela: la strana coppia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, pp. 425 ss.). Per la giurisprudenza, sempre nell’applicazione della norma ratione temporis vigente, « L’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole; il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma peraltro il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio; l’onere motivazionale gravante sull’Amministrazione può ritenersi attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati» (Cons. Stato, VI, 20 settembre 2021, n. 6405 su fattispecie anteriore alla riforma normativa del 2015).
[9] Il potere di annullamento d’ufficio è ampiamente discrezionale nel merito, tanto da richiedere una motivazione spesso accurata in relazione all’interesse pubblico – concreto e attuale, diverso dal mero ripristino della legalità violata – da proteggere e alla sua prevalenza rispetto al contrario affidamento del privato. Per esempio, Cons. Stato, VI, 28 dicembre 2021, n. 8641: «I presupposti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall’originaria illegittimità del provvedimento, dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l’esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l’Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti: in ambito edilizio la motivazione esigibile deve essere integrata dall’allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell’interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall’eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l’Amministrazione».
[10] Si tratta della nota giurisprudenza derivante da Corte giust. UE, i-21 Germany GmbH (C-392/04) and Arcor AG & Co. KG (C-422/04) v Bundesrepublik Deutschland, 19 settembre 2006, che fa applicazione dell’art. 48 VwVfG. L’orientamento fu fatto proprio da una pronuncia rimasta isolata (peraltro in tema di edilizia): TRGA Trento, 16 dicembre 2009, n. 305, in Giur. merito, n. 5/2010, su cui v. A. Cassatella, Una nuova ipotesi di annullamento doveroso?, in Foro amm. TAR, n. 3/2010, pp. 802 ss.
[11] M.A. Sandulli, Autotutela, in Il libro dell’anno del diritto, Treccani, 2016. La limitazione temporale dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio ha ripercussioni singolari sulla SCIA, nella quale il decorso del termine – stante una certa mobilità del dies a quo – è di per sé incerto, non essendovi estranee neanche vicende nelle quali il privato abbia segnalato uno stato dei fatti non veritiero: sul punto v., da ultimo, P. Otranto, Quando tempus non regit actum. Ancora sulla c.d. “autotutela” in materia di s.c.i.a.: dichiarazioni non veritiere, interesse pubblico in re ipsa e termine ragionevole per l’esercizio del potere inibitorio postumo (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2023, n. 6387), in questa Rivista.
[12] Ex multis, Tar Campania, VIII, 02 novembre 2020, n. 4956: «Con riguardo ai titoli edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio devono rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione, diverso dal mero ripristino della legalità, da compararsi con i contrapposti interessi dei privati, entro un termine ragionevole, termine che l’art. 6, l. n. 124 del 2015 ha da ultimo fissato in diciotto mesi. Pertanto, nonostante l’esercizio del potere di autotutela sia espressione di rilevante discrezionalità, l’Amministrazione non è comunque esentata dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti».
[13] Ci si limita a segnalare la forte abbreviazione del termine in era Covid-19. Il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 ha infatti disposto (con l’art. 264, comma 1 lettera b) che «Al fine di garantire la massima semplificazione, l’accelerazione dei procedimenti amministrativi e la rimozione di ogni ostacolo burocratico nella vita dei cittadini e delle imprese in relazione all’emergenza COVID-19, dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2020: [...] b) i provvedimenti amministrativi illegittimi ai sensi dell’art. 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, adottati in relazione all’emergenza Covid-19, possono essere annullati d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro il termine di tre mesi, in deroga all’art. 21-nonies comma 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Il termine decorre dalla adozione del provvedimento espresso ovvero dalla formazione del silenzio assenso. Resta salva l’annullabilità d’ufficio anche dopo il termine di tre mesi qualora i provvedimenti amministrativi siano stati adottati sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, ivi comprese quelle previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445».
[14] Cfr. Schema di disegno di legge recante disposizioni per la semplificazione e la digitalizzazione dei procedimenti in materia di attività economiche e di servizi a favore dei cittadini e delle imprese, approvato dal Consiglio dei Ministri del 26 marzo 2024 (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/sche/schema-ddl-semplificazione-cdm-26-marzo-2024.pdf) e relativa Relazione illustrativa (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/rela/0000/relazione-illustrativa-26-marzo-ddl-semplificazioni-cdm.pdf) e Relazione tecnica (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/rela/0000/relazione-tecnica-ddl-semplificazioni-26-marzo-2024_--002-.pdf).
[15] Si è molto discusso sul valore del mendacio e del falso, sulle figure di reato contemplate, sulla necessità di una sentenza penale di condanna per l’accertamento del reato. Tra tutti si v. M.A. Sandulli, Poteri di autotutela della pubblica Amministrazione e illeciti edilizi, in Federalismi.it, n. 14/2015.
[16] Per esempio, Tar Campania, VII, 2 marzo 2023, n. 1337: «La falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, configurabile anche in presenza, come nella specie, del solo silenzio su circostanze rilevanti, comporta l’inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio introdotto, nell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, dall’art. 6, l. 7 agosto 2015 n. 124, senza che, a tal fine, sia neppure richiesto alcun accertamento processuale penale»; oppure Tar Lazio, Latina, I, 21 ottobre 2022, n. 807: «La falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, che comporta l’inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio, si configura quando l’erroneità dei presupposti del provvedimento non è imputabile (neppure a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave) del privato, dato che anche sul cittadino incombe pur sempre un obbligo di comportamento corretto ed in buona fede in adempimento dei doveri di solidarietà imposti dall’art. 2 Cost. Non sussistono, tuttavia, significativi profili di colpa grave ovvero di dolo del privato quando: da un lato, i non perspicui riferimenti normativi ben possono giustificare un’imprecisa ricostruzione dei requisiti posseduti; dall’altro lato, in presenza di inequivoca indicazione da parte dell’interessata, nonostante la consapevolezza dell’insufficienza del titolo la P.A. lascia trascorrere del tempo, così da far maturare un più che plausibile affidamento sulla validità del percorso seguito (nella specie, è stata ritenuta conseguenza di errore materiale la compilazione della domanda di condono nel 1986, laddove si è indicato come a uso ‘attività sportiva’ un manufatto di fatto utilizzato per ‘attività commerciale’, trattandosi di circostanza facilmente verificabile in ogni momento dall’Amministrazione e comunque nella specie corretta dall’istante nel 2009)».
[17] Si rinvia in proposito ai commenti di E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, in Riv. giur. ed., n. 2/2018, pp. 404 ss.; N. Posteraro, Annullamento d’ufficio e motivazione in re ipsa: osservazioni a primissima lettura dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017, in Riv. giur. ed., n. 5/2017, pp. 1103B; L. Bertonazzi, Annullamento d’ufficio di titoli edilizi: note a margine della sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017, in Dir. proc. amm., n. 2/2018, pp. 730 ss.; C. Pagliaroli, La motivazione del provvedimento di annullamento in autotutela di concessione edilizia in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 2/2017, pp. 379 ss.; Id., La “storia infinita” dell’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi: nessun revirement da parte dell’Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2018, pp. 92 ss.
[18] Ad. Plen., n. 8/2017: «In base a un primo orientamento, allo stato maggioritario, l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo (in specie se rilasciato in sanatoria) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato. […] questa Adunanza plenaria ritiene che le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti. Conseguentemente, grava in via di principio sull’amministrazione (e salvo quanto di seguito si preciserà) l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti».
[19] Ad. Plen., n. 8/2017, cit.: «È ora possibile […] domandarsi se l’onere motivazionale comunque gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del titolo edilizio in precedenza adottato possa restare in qualche misura attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati. Al quesito deve essere fornita risposta in senso affermativo alla luce della pregnanza degli interessi pubblici sottesi alla disciplina in materia edilizia e alla prevalenza che deve essere riconosciuta ai valori che essa mira a tutelare. Vero è infatti che – per le ragioni dinanzi esposte – il decorso del tempo onera l’amministrazione che intenda procedere all’annullamento in autotutela di un titolo edilizio illegittimo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento e alla valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. È parimenti vero, però, che tale onere motivazionale non muta il rilievo relativo da riconoscere all’interesse pubblico e la preminenza che deve essere riconosciuta al complesso di interessi e valori sottesi alla disciplina edilizia e urbanistica. Si pensi (e solo a mo’ di esempio) al titolo edilizio illegittimamente rilasciato in area interessata da un vincolo di inedificabilità assoluta o caratterizzata da un grave rischio sismico: in tali ipotesi la motivazione dell’atto di ritiro potrà essere legittimamente fondata sul richiamo all’inderogabile disciplina vincolistica oggetto di violazione, ben potendo tale richiamo assumere un rilievo preminente in ordine al complesso di interessi e di valori sottesi alla fattispecie. Nelle ipotesi di maggiore rilievo, quindi (e laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere - per così dire - ‘autoevidente’), l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi. Non pare quindi condivisibile la tesi (talora affermata dalla giurisprudenza anche di questo Consiglio) secondo cui, anche in sede di motivazione dell’annullamento in autotutela di titoli edilizi illegittimi, occorrerebbe riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto, i cui effetti si sarebbero ormai prodotti in via definitiva».
[20] Sempre Ad. Plen., n. 8/2017: «La giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente stabilito al riguardo che non sussiste l’esigenza di tutelare l’affidamento di chi abbia ottenuto un titolo edilizio - anche in sanatoria - rappresentando elementi non veritieri, e ciò anche qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione […]. La giurisprudenza di questo Consiglio ha inoltre stabilito (in modo parimenti condivisibile) che non può essere configurato alcun affidamento legittimo, in specie ai fini risarcitori, il quale risulti fondato su un provvedimento illegittimo. Si è osservato al riguardo che può essere non più opportuno far luogo all’annullamento in autotutela, in considerazione del tempo trascorso e degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; ma quando tali condizioni sono rispettate non vi è spazio per la tutela patrimoniale […]. Ebbene, se le acquisizioni in parola risultano valide ai fini risarcitori e a fronte di illegittimità imputabili all’amministrazione, esse risulteranno tanto più condivisibili nel caso in cui l’illegittimità dell’atto sia stata determinata dalla non veritiera prospettazione dei fatti rinveniente dal soggetto che si sarebbe in seguito avvantaggiato dell’errore dell’amministrazione. In tali ipotesi […] l’amministrazione potrà adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, non veritiera prospettazione. Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a prescindere dai profili di rilevanza penale), l’oggettiva falsità della prospettazione dei fatti rilevanti e la sua incidenza ai fini dell’adozione dell’atto illegittimo non consentiranno di configurare una posizione di affidamento legittimo e consentiranno all’amministrazione di limitare l’onere motivazionale alla dedotta falsità, non sussistendo un interesse privato meritevole di tutela da porre in comparazione con quello pubblico (comunque sussistente) al ripristino della legalità violata».
[21] Ex multis, CGARS, 26 maggio 2020, n. 325: «Il potere di annullamento regionale del permesso di costruire, di cui all’art. 39, d.P.R. n. 327 del 2001, è una forma di autotutela speciale, riconducibile all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, salva la specialità del termine decennale di esercizio, che è tuttora vigente»; Tar Campania, IV, 6 aprile 2020, n. 1338: «L’Amministrazione comunale può esercitare il potere di vigilanza sulle attività urbanistico-edilizie nei termini di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/1990 senza dover comparare gli interessi privati coinvolti e l’(eventuale) affidamento al mantenimento di opere abusive maturato dal privato per effetto del (solo) decorso del tempo».
[22] Sulla quale sia consentito il rinvio a C. Napolitano, Potere amministrativo e lesione dell'affidamento: indicazioni ermeneutiche dall'Adunanza Plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2022.
[23] Ex multis, Cons. Stato, II, 26 gennaio 2024, n. 858. La fattispecie concreta in questa sentenza consisteva nell’individuazione di abusi edilizi nel territorio circostante il centro abitato, sul quale la legge-ponte del 1967 aveva stabilito che le costruzioni dovessero avere un titolo edilizio. La medesima circostanza vale per gli edifici situati nel centro abitato, ma avendo come parametro normativo di riferimento la l. n. 1150/1942.
[24] Tar Friuli-Venezia Giulia, I, 10 novembre 2022, n. 476: «Il provvedimento ha ordinato la demolizione della tettoia sul presupposto della sua abusività, così assumendo che, ai fini della sua edificazione, fosse necessario munirsi di un titolo edilizio. Non affronta però la questione relativa alla data di realizzazione dell'opera e al correlato regime giuridico, che appare invece centrale nella presente vicenda. A tale proposito, i ricorrenti rappresentano che l'opera è stata edificata in data antecedente all'emanazione della c.d. legge ponte (l. 765 del 1967) e al primo piano regolatore del Comune di Lignano, entrato in vigore solo nel 1972. A comprova di tale affermazione, hanno prodotto documentazione fotografica (doc. 9) che, pur se di modesta qualità, consente di scorgere la tettoia di cui si discute e farla risalire ad una data antecedente quantomeno al 1969 (data del timbro postale sulla cartolina riprodotta nelle prime pagine del documento 9), se non addirittura al 1965 (come desumibile dall'indicazione "Lig 65/166" sul retro della cartolina, nonché dalla cartolina di cui al pag. 13 del documento, benché si tratti in questo caso di una data apposta dal compilatore della cartolina e non di un timbro postale). Anche nell'immagine aerea di cui al doc. 15, tratta dal sito del patrimonio culturale della Regione Friuli-Venezia Giulia, si intravede il manufatto, anche se la data dello scatto è indicata solo approssimativamente (tra il 1965 e il 1970). Tali elementi costituiscono rilevanti principi di prova circa l'anteriorità dell'opera al 1967 e quindi del suo risalire ad un'epoca in cui l'attività edilizia non era soggetta all'obbligo generalizzato di "chiedere apposita licenza al sindaco", introdotto solo dall'art. 10, l. 765 del 1967 (che ha riformulato l'art. 31 della l. 1150 del 1942). Il Tribunale ritiene, pertanto, che la circostanza fosse meritevole di considerazione da parte del Comune. Il Comune ha poi evidenziato che, anche assumendone l'edificazione in data anteriore alla legge ponte, la tettoia avrebbe comunque dovuto essere previamente assentita ai sensi dell'art. 31 della l. 1150 del 1942, nella versione vigente ratione temporis, che richiedeva in ogni caso la licenza edilizia per gli interventi da realizzarsi "nei centri abitati". Non è, però, dimostrato che l'edificio si trovasse, già all'epoca di realizzazione dell'opera, in area qualificabile come "centro abitato", mancando l'evidenza di una sua perimetrazione ad opera di provvedimenti precedenti al primo piano regolatore. In assenza di una sua formale identificazione ad opera dell'autorità, la nozione di "centro abitato" deve ricollegarsi a dati fattuali ed empirici (Cons. St., sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3656), che dovevano essere esaminati e valutati dall'amministrazione alla luce del contesto esistente al momento dell'intervento. Conclusivamente, il Tribunale ritiene che, a fronte di elementi che militano a favore di una realizzazione della tettoia ante 1967, era onere dell'amministrazione operare una più approfondita istruttoria circa la data di edificazione e la sua effettiva abusività (Cons. St., sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5988)».
[25] Ex multis, Tar Campania, VI, 17 novembre 2022, n. 7097 (corsivo nostro).
[26] F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l'esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 3/2017, pp. 911 ss.: «nel processo, la vicinanza può costituire una regola probatoria idonea a contrapporre allo schema, evidentemente formale, dell'onere secondo allegazione di cui all'art. 2697 c.c., nel quale le parti restano identificate senza residui dalla posizione processuale che vanno ad assumere nel relativo giudizio, uno schema sostanziale nel quale, avendosi riguardo alla specifica realtà della fattispecie controversa, il carico probatorio viene ponderato “tenuto conto in concreto della possibilità per l'uno e l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d'azione”. Il principio di “vicinanza alla prova” […] costituisce uno strumento più evoluto, in quanto assiologicamente meglio orientato e non ordalico, di risolvere il problema del divieto di non liquet: la vicinanza, infatti, flessibile per propria natura, implica – ed al contempo rende possibile – che il giudice risolva comunque la lite senza ricorrere all’éscamotage di soluzioni preconfezionate ed astratte dalla fattispecie concreta configurato dal formalistico criterio di cui all'art. 2697 c.c., intrinsecamente inidoneo a selezionare il reale. Tale principio, dunque, si configura, da un lato, come un corollario dei doveri di correttezza, buona fede e diligenza nell'adempimento delle obbligazioni (artt. 1175, 1176, comma 2º, e 1375 c.c.) e, dall'altro, come una derivazione del principio costituzionale del giusto processo e delle regole generali del codice di rito civile (in primis, il dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88, inteso come onere delle parti, vicine alla fonte di prova, di collaborare allegando tempestivamente e nel rispetto delle regole di correttezza i mezzi istruttori, in un'ottica di economia processuale e di ragionevole durata del giudizio). Esso, quindi, “viene ad assumere il ruolo di correttivo (se non altro) delle applicazioni più rigide e pesanti del formalismo caratteristico della regola della prova secondo allegazione. Un ruolo, a nostro avviso, anzi necessario – sotto il profilo costituzionale, prima di tutto il resto – per combattere e smorzare le asprezze, in effetti notevoli, che il modello dell'onere viene propriamente a proporre”».
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Pubblicato il 01/02/2024
N. 01016/2024REG.PROV.COLL.
N. 00392/2022 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 392 del 2022, proposto da
Luigi Cataldi e Safety Rent S.r.l., quest’ultima in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi dall'avvocato Alessandro De Matteis, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;
contro
Comune di Gallipoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Anita Stefanelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
Maria Rosaria Cataldi e Antonio Maruccia, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, Sezione Prima, n. 00926/2021, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Gallipoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2024 il Cons. Stefano Filippini;
Nessuno è comparso per le parti e vista l’istanza di passaggio in decisione della causa senza discussione, depositata dalla difesa del Comune appellato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe indicata il TAR Puglia, sede staccata di Lecce, ha respinto il ricorso con cui Luigi Cataldi e Safety Rent s.r.l. avevano impugnato la determinazione dirigenziale del Comune di Gallipoli (n. 1288 del 24 maggio 2019 a firma del Responsabile della Sezione SUE - Settore n. 4) di annullamento del precedente permesso di costruire (d’ora in poi, PdC) n. 61/2016 del 14 luglio 2016 (oltre agli atti presupposti) nonché con motivi aggiunti la successiva l’ordinanza di demolizione di opere abusive n. 172 del 10 luglio 2020.
2. Ad avviso del TAR non avevano pregio le doglianze dei predetti ricorrenti, incentrate su plurimi profili di violazione delle norme sul procedimento edilizio, di violazione dell’artt. 21-nonies l. n. 241/1990, di violazione del principio del legittimo affidamento nonché sul preteso difetto di istruttoria e di motivazione adeguata, atteso che risultavano insuperate le criticità poste a base del provvedimento impugnato.
In particolare, dall’istruttoria comunale relativa al confronto della documentazione allegata dal Cataldi a corredo di differenti pratiche edilizie presentate in Comune tra il 2015 e il 2016, erano emerso che: - l’elaborato grafico allegato al PdC non risultava conforme all’elaborato grafico allegato a precedente SCIA n. 3/2015, presentata in data 5 gennaio 2015, in quanto emergevano obiettive incongruenze tra la planimetria della SCIA n. 3/2015 e del PdC n. 61/2016 e quanto rappresentato nelle planimetrie catastali del 1939, in mancanza di atti probatori certi sulla dichiarata realizzazione ante 1942 delle opere non rappresentate nel catastale del 1939 e nella SCIA del 2015; - considerando l’avvenuto rilascio al Cataldi Luigi, in data 14 luglio 2016, del PdC n. 61/2016 (per “presa d’atto” in relazione a 3 abitazioni di antica costruzione site al piano terra di viale Giovanni Bovio ai civ. 8-10-12), si era reso necessario avviare un procedimento amministrativo di secondo grado per chiarire la ragione di detta discrasia e verificare la legittimità del PdC n. 61/2016; -quest’ultimo procedimento, anche a causa della mancata collaborazione istruttoria dei privati, aveva portato all’annullamento de quo atteso che le opere, a cui si riferiva il PdC in questione (per “presa d’atto” di costruzione risalente ad epoca anteriore al 1942), difettavano di adeguata dimostrazione circa detta datazione (con la conseguenza che la loro realizzazione posteriore richiedeva il previo rilascio di un valido titolo edilizio, nella specie carente).
2.2. Inoltre, sempre secondo il TAR, la giurisprudenza amministrativa poneva l’onere di provare la data di realizzazione delle opere abusive in capo a colui che aveva commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di elementi effettivi e concreti poteva comportare, eventualmente, il trasferimento del suddetto onere di prova contraria in capo all’Amministrazione. Nella specie, a fronte di oggettive discrasie documentali circa la rappresentazione planimetrica del piano terra dell’edificio di causa e di ben quattro sollecitazioni da parte del Comune, rivolte al privato affinchè documentasse il profilo della risalenza temporale delle opere di cui al PdC, la parte privata era (pacificamente) rimasta silente, non offrendo cioè alcun contributo e/o chiarimento, omettendo in tal modo di adempiere all’onere di dimostrare la databilità delle opere in parola a un periodo anteriore al 1942 (tale cioè da escludere la necessità di un previo titolo edilizio legittimante); anche nella fase giudiziale gli argomenti di prova offerti dai ricorrenti (in particolare, quelli relativi alla presenza di una “porticina” su una certa rampa di scale e le dichiarazioni testimoniali del sig. Caridi) non erano idonei a introdurre dati certi e specifici sulla datazione delle opere e sulla loro precisa consistenza ante 1942.
A tanto in definitiva conseguiva la legittimità del provvedimento impugnato.
3. Avverso tale sentenza gli originari ricorrenti hanno proposto appello, articolando motivi che ripropongono le censure già sollevate in primo grado, focalizzandosi essenzialmente sui motivi sub 1) e sub 3) del ricorso di primo grado e sul motivo sub 4) dei “motivi aggiunti” e lamentando in particolare la violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 380/2001 e delle norme e principi in materia di procedimento edilizio; la violazione e falsa applicazione degli artt.1, 3 e 21-nonies l. n. 241/1990; la violazione dei principi di economicità, efficacia, adeguatezza e proporzionalità dell’azione amministrativa; la violazione del giusto procedimento; l’eccesso di potere per irragionevolezza ed inadeguatezza della motivazione, errore sui presupposti, travisamento dei fatti e difetto di istruttoria; la violazione e falsa applicazione degli artt. 31, 33, 37 e 38 dpr n.380/2001 e dei principi generali in tema di stato legittimo degli edifici ante 1942; l’eccesso di potere per irragionevolezza, errore sui presupposti, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e di motivazione adeguata.
In sostanza gli appellanti hanno denunciato il cattivo uso da parte dell’ente del potere di autotutela, a loro avviso viziato da deficit istruttorio e motivazionale, nonché l’erronea valutazione dei fatti quanto al riparto dell’onere della prova, avendo essi introdotto elementi “non implausibili” che avrebbero meritato specifica confutazione da parte dell’Amministrazione; hanno evidenziato che la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela aveva identificato quale unico tratto di ravvisata discrasia tra la SCIA n.3/2015 ed il p.d.c. n.61/2016 il solo “ampliamento del perimetro dell’immobile”, effetto ascrivibile a due soli dei più ampi interventi interessati dal PdC (non si faceva menzione, cioè, dei soppalchi e delle modifiche interne realizzate negli appartamenti di causa); hanno sostenuto poi che il provvedimento impugnato non aveva svolto alcuna comparazione tra interesse pubblico e quello del privato alla conservazione dell’atto, a salvaguardia di quanto già realizzato; inoltre a loro avviso la realizzazione dei servizi igienici e dei soppalchi era attività trasformativa che poteva farsi rientrare nella “ristrutturazione edilizia leggera” per la quale era richiesta, ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. d), 10, comma 1, lett. c) e 22, comma 1. lett. c) del D.P.R. n.380/2001, la sola SCIA.
4. Si è costituita anche nel presente grado l’Amministrazione comunale, contrastando diffusamente l’appello.
5. Sulle difese e conclusioni rassegnate negli atti inseriti nel fascicolo telematico, la controversia è stata trattenuta in decisione all’esito dell’udienza pubblica del 16 gennaio 2024.
DIRITTO
6. L’appello è infondato alla stregua delle osservazioni che seguono.
6.1. Preliminarmente deve ricordarsi che, ai sensi dell'art. 101 c.p.a., nel processo innanzi al Consiglio di Stato il ricorrente è tenuto ad indicare in modo chiaro nell'atto di appello le critiche che egli rivolge contro i capi della sentenza gravata e le ragioni per le quali le conclusioni, cui il primo Giudice è pervenuto, non sono condivisibili, così che è inammissibile il mero richiamo delle censure sollevate con il ricorso di primo grado o la pedissequa riproposizione delle questioni e delle eccezioni articolate in quel grado laddove essere non siano accompagnate dalle necessarie puntuali critiche alla decisione del giudice.
6.2. Volgendo pertanto l’esame alle sole questioni oggetto di specifica contestazione e argomentazione nell’atto di appello, deve sottolinearsi che dette deuzioni non scalfiscono le ragionevoli conclusioni raggiunte dal TAR.
Infatti tutta l’articolata ricostruzione, offerta dagli appellanti, circa il contenuto dei plurimi interventi edilizi realizzati sull’immobile di causa (quelli di cui alla SCIA n.3/2015 e ad una serie concatenata di C.I.L., nn. 64/2016, 66/2016, 78/2016 e 82/2016), ma in tutt’altra parte dell’edificio rispetto alle tre abitazioni di causa, non contrasta in alcun modo il ragionamento svolto dal primo giudice, ancorato ad una pluralità di elementi che risultano correttamente desunti e condivisibili.
7.1. Deve in primo luogo condividersi il richiamo del TAR al consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le tante, Cons. Stato, II, 5 febbraio 2021, n. 1109 e 8 maggio 2020, n. 2906), secondo cui è a carico esclusivamente del privato l’onere della prova in ordine alla data della realizzazione dell’opera edilizia al fine di poter escludere al riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio; tale onere discende attualmente dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità. Detto onere, prima ancora che di carattere processuale, vale nei rapporti tra l’interessato e l’Amministrazione, la quale in termini generali, in presenza di un manufatto non assistito da un titolo abilitativo che lo legittimi, ha solo il potere dovere di sanzionarlo ai sensi di legge (si vedano, al proposito, Cons. Stato, sez. VI, sentenze 2 luglio 2020, n. 4267, 7 gennaio 2020, n. 106, 18 ottobre 2019, n. 7072, e 6 febbraio 2019, n. 903).
7.2. Quanto poi alla correttezza del procedimento amministrativo di secondo grado avviato dal Comune e alla adeguatezza delle comunicazioni di avvio del procedimento di autotutela (contenente, in realtà, non solo il rilievo dell’ampliamento del perimetro dell’immobile, ma la ben più ampia contestazione dell’incongruenza tra le planimetrie in atti), deve considerarsi che l’ente locale, dopo aver individuato le oggettive discordanze tra la planimetria della SCIA n. 3/2015 (nella quale non figurano i soppalchi, i wc e altre opere interne degli appartamenti al piano terra), quella del PdC n. 61/2016 e quanto rappresentato nelle planimetrie catastali del 1939, aveva invitato i ricorrenti a fornire elementi probatori certi sulla dichiarata realizzazione ante 1942 delle opere non rappresentate nel catastale del 1939 e nella SCIA del 2015. In particolare aveva: a) comunicato al signor Cataldi Luigi l’avvio del procedimento di verifica della legittimità del PdC n. 61/2016 con nota n. 2004 del 13 novembre 2017; b) inviato una seconda comunicazione di avvio del procedimento con nota del 26 luglio 2018, prot. n. 37337; c) invitato il signor Cataldi, ancora con nota del 17 ottobre 2018, prot. n. 54634, a chiarire le predette incongruenze; d) reiterato ulteriormente, con nota del 14 febbraio 2019, n. 8834, l’invito al predetto signor Cataldi a dimostrare la effettiva consistenza e l’appartenenza degli ambienti che costituivano incongruenza tra gli elaborati allegati alla SCIA n. 3/2015 e il PdC n. 61/2016.
Non può pertanto fondatamente negarsi che l’Amministrazione si sia comportata correttamente, nel rispetto del principio di buona fede e di leale collaborazione, mettendo in modo più che ragionevole il privato in condizione di comprendere i profili sui quali verteva il procedimento di secondo grado; a fronte di tale attività vi è stata per contro la totale assenza di collaborazione e riscontri da parte del signor Cataldi.
E’ pertanto corretto e legittimo l’operato dell’ente locale, che ha proceduto all’annullamento di un permesso di costruire che si basava essenzialmente sulla circostanza (rimasta, appunto, indimostrata e, per giunta, contraddetta dalle richiamate dissonanti planimetrie) che la databilità delle strutture assentite nel 2016 risaliva a un periodo anteriore al 1942 (così da escludere la necessità del previo titolo edilizio legittimante).
7.3. Né le allegazioni probatorie introdotte dai ricorrenti in causa hanno potuto sanare il detto deficit dimostrativo, atteso che i riferimenti alla preesistente “porticina” rappresentata nelle foto in atti e le dichiarazioni testimoniali rese dal sig. Giovanni Caridi in data 9 febbraio 2021 dinanzi al Tribunale di Lecce (in una diversa controversia), anche ammesso che possano essere considerate “non implausibili” (come dedotto dagli appellanti), non offrono tuttavia alcun obiettivo, adeguato ed inequivoco elemento dimostrativo circa l’esatta risalenza temporale e la precisa natura e consistenza planivolumetrica degli ambienti ove (ora) risultano ubicati i soppalchi, i bagni e le ulteriori modifiche alle strutture originarie di cui al PdC di causa; del tutto generico e indimostrato è anche il riferimento difensivo alla pretesa vaghezza e approssimazione dell’elaborato grafico associato alla SCIA n.3/2015.
7.4. Ugualmente non superata, nonostante il tentativo di ridurre la vicenda di causa a lite di dimensione più familiare e privatistica che pubblica, risulta l’oggettiva incongruenza tra le rappresentazioni dei luoghi contenute negli incarti funzionali alla presentazione della SCIA n. 3/2015 e all’ottenimento del PdC n. 61/2016; incongruenza che integra quanto meno una erronea rappresentazione dei luoghi (cioè falsa rappresentazioni di fatti non imputabile all'Amministrazione), ascrivibile esclusivamente al signor Cataldi con riferimento alla propria istanza di PdC;, e costituisce, sotto altro concorrente profilo, un fatto idoneo, pacificamente, a esonerare l’Amministrazione dalla necessità di ravvisare uno specifico interesse pubblico all’annullamento del titolo edilizio, peraltro ravvisabile nell’interesse della collettività, rilevante ex art. 21-nonies l. n. 241/90, al rispetto della disciplina urbanistica.
Invero, la falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, che comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio, si configura quando l'erroneità dei presupposti del provvedimento non è imputabile (neppure a titolo di colpa concorrente) all'Amministrazione, ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave) del privato, dato che anche sul cittadino incombe pur sempre un obbligo di comportamento corretto ed in buona fede in adempimento dei doveri di solidarietà imposti dall' art. 2 Cost. (cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 6 luglio 2023, n. 6615\2023).
7.5. Neppure meritano favorevole apprezzamento le censure relative al provvedimento demolitorio e alla pretesa applicabilità, rispetto alla realizzazione dei servizi wc e dei soppalchi, del regime proprio della c.d. “ristrutturazione edilizia leggera” per la quale è oggi richiesta, ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. d), 10, comma 1, lett. c), e 22, comma 1, lett. c), del D.P.R. n.380/2001, la sola SCIA.
Invero una simile lettura riduttiva dell’intervento edilizio de quo tende a parcellizzare le opere abusive e non considera che l’oggetto dell’annullamento d’ufficio è stato il PdC n. 61/2016 nel suo complesso, relativo alla “presa d’atto” di 3 intere abitazioni nell’attuale consistenza planivolumetrica; comunque le superfici aggiuntive a cui fanno riferimento gli appellanti costituiscono porzioni immobiliari per natura e destinazione fruibili dalle persone e tali da ampliare la superficie utile degli appartamenti, con conseguente aggravio del carico urbanistico e necessità di un permesso di costruire, così da legittimare la sanzione demolitoria irrogata.
9. In definitiva l’appello deve essere respinto.
10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano al dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna gli appellanti in solido alla rifusione in favore del Comune appellato delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi € 5.000,00 (cinquemila), oltre accessori di legge, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati:
Carlo Saltelli, Presidente
Francesco Frigida, Consigliere
Carmelina Addesso, Consigliere
Alessandro Enrico Basilico, Consigliere
Stefano Filippini, Consigliere, Estensore