Cass. Sez. III n. 47039 del 27 novembre 2015 (Up 8 ott 2015)
Pres. Fiale Est. Ramacci Ric. PM in proc. De Rossi
Urbanistica. Particolare tenuità del fatto ex art. 131bis cod. pen. e reati urbanistici

Ai fini dell'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. con riferimento alle violazioni urbanistiche e paesaggistiche la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione. Assumono infatti rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento. Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è, inoltre, la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi ( ad es. norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali)

     RITENUTO IN FATTO

    1. Il Tribunale di Asti, con sentenza del 13/4/2015 ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Alan DEROSSI per essere il reato a lui ascritto non punibile per particolare tenuità.

    Il predetto era chiamato a rispondere del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett.c) per aver eseguito, in assenza del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, su terreno di proprietà comunale, una tettoia poggiante su un immobile di proprietà di L.P. ed oggetto di ordine di demolizione e su tre pilastri in legno di cm.

    20 X 20 imbullonati nella pavimentazione, con copertura di onduline, con occupazione di circa m. 5,15 per 6,00, con altezza di intradosso centrale di m. 3,50 circa e di intradosso laterale di m. 2,83 circa, nonchè di una tettoia poggiante sull'immobile e cinque pilastri in legno di cm. 10 X 10 imbullonati, con occupazione di m. 4,50 X 6,00 circa, altezza di intradosso interno m. 2,45, altezza di intradosso esterno m. 2,05 circa(in Carmagnola, nel febbraio 2013, accertamento in sede di sopralluogo il 25/7/2013).

    Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

    2. Con un unico motivo di ricorso lamenta l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione, rilevando, in primo luogo, che il giudice del merito avrebbe pronunciato sentenza ai sensi dell'art. 469 cod. proc. pen. nonostante la motivata opposizione del Pubblico Ministero, ritenendo erroneamente non riferibile al comma 1-bis della menzionata disposizione codicistica la previsione di cui al comma 1, che subordina la pronuncia della sentenza predibattimentale alla non opposizione delle parti.

    Per tali ragioni, rileva, emettendo sentenza predibattimentale nonostante l'opposizione di una delle parti, il Tribunale sarebbe incorso in una nullità di cui all'art. 178 cod. proc. pen. Rileva, poi, che la sentenza sarebbe caratterizzata da una non corretta valutazione dei presupposti di applicabilità dell'art. 131- bis cod. pen., che sarebbero mancanti in considerazione della natura e consistenza dell'opera realizzata e della abitualità del comportamento desumibile dalla permanenza della condotta posta in essere.

    Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
   
    CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.

    Occorre preliminarmente procedere alla qualificazione della sentenza impugnata.

    Invero, il provvedimento reca, nell'intestazione, un esplicito riferimento alla pubblica udienza del 13/4/2015, seguito, sempre nell'intestazione, da un richiamo all'art. 469 c.p.p., comma 1-bis, mentre nella motivazione si afferma che la decisione è stata assunta nel corso dell'udienza in camera di consiglio del 13/4/2015, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento....

    Nel verbale di udienza viene invece fatto riferimento alla trattazione in pubblica udienza e viene dato atto del controllo, da parte del giudice, della regolare costituzione delle parti (l'imputato è qualificato libero assente nell'intestazione della sentenza).

    A seguire, si specifica che preliminarmente il giudice invita le parti ad interloquire circa la punibilità del fatto alla luce della normativa sulla particolare tenuità e, successivamente, che esaurita la discussione il giudice dichiara chiuso il dibattimento.

    Ciò posto, deve ricordarsi come la giurisprudenza di questa Corte sia unanime nel ritenere che, indipendentemente dalla qualificazione datante dal giudice, la sentenza che, sia pure per una causa di improcedibilità dell'azione penale o di estinzione del reato, è pronunciata in pubblica udienza, dopo le formalità di verifica della costituzione delle parti, deve considerarsi come sentenza dibattimentale ed è, pertanto, soggetta all'appello (Sez. 2, n. 48340 del 17/11/2004, P.G. in proc. Carducci ed altro, Rv. 230535. Conf. Sez. 2, n. 51513 del 4/12/2013, P.G., P.C. in proc. Di Marco, Rv. 258075; Sez. 2, n. 18763 del 24/1/2013, Guarino, Rv. 255360).

    Il ricorso immediato in cassazione per violazione di legge costituisce, quindi, ricorso per saltum, con la conseguenza che, se il suo accoglimento comporti l'annullamento con rinvio, il giudice di rinvio è individuato in quello che sarebbe stato competente per l'appello (Sez. 4, n. 48310 del 28/11/2008, P.G. in proc. Pensalfini, Rv. 242394).

    Di ciò dovrà dunque tenersi conto in seguito.

    2. Ciò nonostante, va in ogni caso rilevato, con riferimento alla questione processuale prospettata nella prima parte del ricorso, che il Tribunale, nel ritenere possibile la pronuncia della sentenza predibattimentale ai sensi dell'art. 469 c.p.p., comma 1-bis pur in presenza di opposizione di una delle parti e, segnatamente, del Pubblico Ministero, procede ad una lettura della disposizione in esame all'esito della quale ha considerato il comma di recente introduzione come del tutto svincolato da quello che lo precede, rilevando che la congiunzione anche, utilizzata dal legislatore, sarebbe finalizzata esclusivamente a garantire la necessaria interlocuzione delle parti processuali, mancando ogni espresso riferimento al diritto di veto loro riconosciuto dal comma 1.

    Aggiunge che la diversa lettura proposta dal Pubblico Ministero avrebbe, quale conseguenza, quella di frustrare le finalità deflattive che hanno ispirato il legislatore.

    Richiamate le distinzioni tra la pronuncia ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen. e quella predibattimentale, disciplinata dall'art. 469 cod. proc. pen., il giudice del merito giunge infatti alla conclusione che il legislatore abbia voluto assicurare il contraddittorio tra le parti, cui però avrebbe sottratto ogni diritto di veto, lasciando al giudice piena autonomia dopo averne sentito le ragioni, rispondendo tale previsione normativa alle necessità deflattive e di contenimento dei costi poste alla base della scelta legislativa.

    Richiamando, infine, il contenuto dell'art. 411 cod. proc. pen., nell'attuale formulazione, osserva come, essendosi prevista la possibilità, per il Pubblico Ministero, di richiedere l'archiviazione del procedimento per la particolare tenuità del fatto, sia evidente che, una volta esercitata l'azione penale, questi non possa ritenersi di diverso avviso, con la conseguenza che, consentendogli di opporsi alla pronuncia dibattimentale, la concreta applicazione dell'art. 469 c.p.p., comma 1-bis sarebbe sempre sottoposta ad una condizione impossibile.

    3. Fatta tale premessa, pare opportuno richiamare preliminarmente il contenuto dell'art. 469 cod. proc. pen., il quale stabilisce, al comma 1, che salvo quanto previsto dall'art. 129, comma 2, se l'azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita ovvero se il reato è estinto e se per accertarlo non è necessario procedere al dibattimento, il giudice, in camera di consiglio, sentiti il pubblico ministero e l'imputato e se questi non si oppongono, pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere enunciandone la causa nel dispositivo.

    Il comma 1-bis, aggiunto dal D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, art. 3, comma 1, lett. a), così recita: la sentenza di non doversi procedere è pronunciata anche quando l'imputato non è punibile ai sensi dell'art. 131-bis c.p.p., previa audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare.

    4. Dalla mera lettura dell'articolo, così come attualmente formulato, non è dato rinvenire alcun intento, da parte del legislatore, di differenziare la procedura stabilita dal nuovo comma rispetto a quella originariamente prevista.

    Ciò sembra trovare conferma, in primo luogo, dall'uso della congiunzione anche, che pure il Pubblico Ministero ricorrente valorizza.

    Si tratta di una congiunzione avente pacificamente valore aggiuntivo, con finalità coordinative tra i due commi, che, evidentemente, salda tra loro, stabilendo, quindi, che la sentenza predibattimentale, oltre che nei casi originariamente previsti, è pure applicabile nell'ipotesi di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., con l'ulteriore, eventuale, interlocuzione della persona offesa.

    Proprio tale ultima previsione sembra costituire l'unico elemento di distinzione che giustifica l'introduzione di un comma distinto rispetto al mero inserimento, nell'art. 469 cod. proc. pen., comma 1 della causa di non punibilità ora prevista dall'art. 131-bis cod. pen. 5. Secondo la soluzione interpretativa prospettata dal Tribunale, inoltre, tutta la scansione procedimentale prevista dall'art. 469 c.p.p., comma 1 (camera di consiglio, audizione delle parti, pronuncia della sentenza inappellabile) sarebbe identica per ciò che concerne la causa di non punibilità di cui tratta il comma 1-bis, fatta eccezione per la possibilità di opposizione offerta alle parti, il che appare, quanto meno, singolare.

    Va anche rilevato che, se il legislatore avesse inteso differenziare in qualche modo la procedura da seguire durante la fase predibattimentale nell'applicazione della causa di non punibilità, lo avrebbe fatto espressamente o, comunque, di tale intento vi sarebbe traccia nei lavori preparatori, mentre la relazione allegata allo schema di decreto legislativo, ad esempio, nel richiamare la finalità di coordinamento processuale delle disposizioni contenute nell'art. 3, si limita a precisare che la modifica all'art. 469 cod. proc. pen. ha lo scopo di consentire alla persona offesa, sempre che compaia, di interloquire sul tema della tenuità, al pari del p.m. e dell'imputato, specificando che non è stata prevista analoga forma di interlocuzione nell'udienza preliminare ed in quella dibattimentale, poichè, in tali casi, il contraddittorio è già pienamente garantito.

    6. Il potere di opposizione alla definizione del procedimento con sentenza predibattimentale ai sensi dell'art. 469 c.p.p., comma 1-bis trova, peraltro, giustificazione nel possibile interesse delle parti ad un diverso esito del procedimento.

    L'imputato, in particolare, potrebbe mirare all'assoluzione nel merito o ad una diversa formula di proscioglimento, considerato anche che la dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto comporta, quale conseguenza, l'iscrizione del relativo provvedimento nel casellario giudiziale.

    Quanto al Pubblico Ministero, si osserva correttamente in ricorso che le finalità deflattive non sono le uniche che hanno ispirato l'emanazione delle disposizioni in esame, dovendosi considerare, evidentemente, anche quella di attuare il principio di proporzione e meritevolezza della sanzione penale, nel senso che le condotte ritenute in concreto non gravi non giustificano il dispendio di risorse e l'applicazione della pena, così evidenziando la intrinseca debolezza del ragionamento del giudice del merito.

    Inoltre, anche il discorso della scontata opposizione alla definizione del procedimento per il fatto che, avendo il Pubblico Ministero già esercitato l'azione penale e non avendo chiesto prima l'archiviazione "(...) è pressochè impossibile che cambi idea in sede di atti preliminari all'apertura del dibattimento", non sembra determinante, diversamente da quanto sostenuto in sentenza, perchè, da un lato, non pone l'organo della pubblica accusa in una posizione differente rispetto a quella in cui verrebbe a trovarsi in presenza di una delle altre situazioni che, nell'art. 469 cod. proc. pen., comma 1 giustificano la pronuncia della sentenza predibattimentale e, dall'altro, avrebbe quale ulteriore esito la sottrazione all'imputato dell'analogo diritto di opposizione.

    Va infine rilevato che la possibilità di opposizione alla definizione del procedimento con udienza predibattimentale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto è stata già ritenuta, seppure implicitamente, in una precedente decisione di questa Corte (v. Sez. 4^ n. 31920 del 14/7/2015, Marzola, non massimata).

    7. Va conseguentemente affermato il principio, secondo il quale, anche la sentenza di non doversi procedere, prevista dall'art. 469 c.p.p., comma 1-bis, perchè l'imputato non è punibile ai sensi dell'art. 131-bis c.p., presume che l'imputato medesimo ed il Pubblico Ministero consensualmente non si oppongano alla declaratoria di improcedibilità, rinunciando alla verifica dibattimentale.

    8. Ciò posto, resta da rilevare, essendosi più volte ricordata, in precedenza, la espressa previsione, da parte dell'art. 469 cod. proc. pen., comma 1 bis della necessaria interlocuzione della persona offesa, che la stessa, nella fattispecie in esame, è comunque mancata.

    Invero, la sentenza individua, a pag. 2, la persona offesa nel Comune di Carmagnola in persona del sindaco pro tempore.

    L'indicazione è, tuttavia, parziale.

    9. In tema di abusi edilizi l'amministrazione comunale è, infatti, pacificamente considerata, ormai da tempo, quale persona offesa dal reato (v. Sez. 3, n. 26121 del 12/4/2005, Rosato, Rv. 231952; Sez. 3, n. 29667 del 14/6/2002, Arrostuto S, Rv. 222116) e, nella fattispecie in esame, risulta essere anche proprietaria dell'area ove insistono le costruzioni abusive, come specificato nel capo di imputazione.

    Tra i reati contestati figura, tuttavia, anche la violazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 cosicchè si sarebbe dovuta individuare, quale persona offesa, anche l'ente preposto alla tutela del vincolo, il quale non risulta, tuttavia, menzionato.

    10. La persona offesa, che, diversamente dall'imputato e dal Pubblico Ministero, non ha alcun potere di veto (cfr. Sez. 4 n. 31920 del 14/7/2015, Marzola, cit), mancando una espressa previsione in tal senso, deve comunque essere messa in condizioni di scegliere se comparire ed interloquire sulla questione della tenuità e, concordandosi con quanto osservato in dottrina, deve ritenersi che debba ricevere avviso della fissazione dell'udienza in camera di consiglio, con l'espresso riferimento alla specifica procedura di cui all'art. 469 c.p.p., comma 1-bis, non potendovi sopperire la notifica del decreto di citazione a giudizio, effettuata quando tale particolare esito del procedimento non è neppure prevedibile.

    Tale affermazione, peraltro, non pare porsi in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte dopo la pronuncia della presente sentenza.

    Decidendo, infatti, in ordine all'analogo istituto previsto dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 riguardate i procedimenti penali innanzi al Giudice di pace, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 43264 del 16/7/2015, dep. 27/10/2015, Steger) hanno stabilito il principio di diritto secondo il quale "Nel procedimento davanti al giudice di pace, dopo l'esercizio dell'azione penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa, regolarmente citata o irreperibile, non è di per sè di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità dell'azione penale per la particolare tenuità del fatto in presenza dei presupposti di cui al D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 34, comma 1".

    Nel far ciò, le SS.UU. hanno, tra l'altro, affermato che in linea con la procedura prevista per i processi trattati dal Giudice di pace risulta anche "(...) disposto dell'art. 469 c.p.c., comma 1-bis, che, ai fini della pronuncia di sentenza predibattimentale per la particolare tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., richiede che la persona offesa sia citata, potendosi tuttavia prescindere dall'acquisizione della sua volontà se essa non compare.

    Sicchè, sia che la persona offesa abbia un potere di interdizione (D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34, comma 3) sia che essa debba solo essere messa in grado di interloquire (art. 469 c.p.p., comma 1-bis), nei vari casi in cui l'ordinamento prevede procedure intese ad accertare la particolare tenuità del fatto, la mancata comparizione della persona offesa non impedisce l'adozione della sentenza liberatoria".

    Sembra infatti evidente che, con tale affermazione, si è inteso disconoscere un valore concludente alla mancata comparizione della persona offesa ma non viene fatto alcun riferimento esplicito alla notifica alla stessa del decreto di citazione a giudizio.

    Del resto, l'art. 469 c.p.p., comma 1-bis stabilisce la previa audizione in camera di consiglio della persona offesa, se compare e deve ritenersi che di tale particolare evenienza essa debba preventivamente essere messa a parte, stante lo sviluppo, possibile ma non prevedibile, del procedimento penale, rispetto al quale la notifica del decreto di citazione produce la più limitata conseguenza di consentire la costituzione di parte civile e l'esercizio dei diritti e della altre facoltà riconosciute dagli artt. 90 e ss. codice di rito.

    Nella fattispecie in esame, in ogni caso, risulta dagli atti, cui questa Corte ha accesso in ragione della natura processuale della questione, che il decreto di citazione a giudizio è stato notificato esclusivamente all'amministrazione comunale in persona del sindaco pro tempore e non anche al rappresentante dell'ente preposto alla tutela del vincolo, cosicchè, anche a voler ritenere non necessaria la notifica o comunicazione alle parti offese con riferimento alla particolare procedura definitoria di cui si è appena detto, difetterebbe comunque la citazione di una tra le persone offese.

    11. La decisione del Tribunale di Asti merita censura anche per l'ulteriore aspetto esaminato in ricorso e concernente la concreta sussistenza dei presupposti per l'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen..

    Si è già avuto modo di precisare (Sez. 3, n. 15449 del 08/4/2015, Mazzarotto, Rv. 263308) che l'art. 131-bis c.p., comma 1 delinea preliminarmente il suo ambito di applicazione ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, fissando, al comma 4, i criteri di determinazione della pena.

    Si ulteriormente rilevato, nella richiamata decisione, che la rispondenza ai limiti di pena rappresenta, tuttavia, soltanto la prima delle condizioni per l'esclusione della punibilità, che infatti richiede (congiuntamente e non alternativamente, come si desume dal tenore letterale della disposizione) la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento.

    Si è osservato, poi, che il primo degli "indici-criteri" (così li definisce la relazione allegata allo schema di decreto legislativo) appena indicati (particolare tenuità dell'offesa) si articola, a sua volta, in due "indici-requisiti" (sempre secondo la definizione della relazione), che sono la modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall'art. 133 cod. pen., (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell'azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato intensità del dolo o grado della colpa).

    Si richiede pertanto al giudice di rilevare se, sulla base dei due "indici-requisiti" della modalità della condotta e dell'esiguità del danno e del pericolo, valutati secondo i criteri direttivi di cui all'art. 133 cod. pen., comma 1 sussista l'"indice-criterio" della particolare tenuità dell'offesa e, con questo, coesista quello della non abitualità del comportamento. Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.

    12. Le valutazioni richieste sono state effettuate dal Tribunale nel provvedimento impugnato, seppure seguendo schematicamente i contenuti dell'art. 131-bis cod. pen. Il Pubblico Ministero ricorrente pone tuttavia in discussione, come detto in premessa, la correttezza delle conclusioni cui è pervenuto il Tribunale con riferimento ad alcuni aspetti specifici.

    Una prima censura riguarda, infatti, il requisito della "non abitualità della condotta", che il Pubblico Ministero ricorrente indica come erroneamente ritenuto dal giudice, in quanto quella posta in essere dall'imputato nel caso in esame avrebbe avuto connotati di permanenza.

    13. Pare opportuno richiamare preliminarmente le considerazioni già espresse da questa Corte sull'argomento.

    Si è infatti ricordato, in una precedente decisione (Sez. 3, n. 29897 del 28/5/2015, Gau, Rv. 264034) che: "secondo la relazione illustrativa del D.Lgs. n. 28 del 2015, il ricorso all'espressione "non abitualità del comportamento" per definire tale indice-criterio è il risultato della scrupolosa osservanza della Legge Delega da parte del legislatore delegato e si pone su un piano diverso rispetto alla occasionalità utilizzata dal D.P.R. n. 448 del 1988 e dal D.Lgs. n. 274 del 2000, cosicchè, pur lasciando all'interprete il compito di meglio delinearne i contenuti, si è ipotizzato che esso faccia si "che la presenza di un precedente giudiziario non sia di per sè sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti.

    Il riferimento al comportamento che deve risultare non abituale va poi posto o in relazione con quanto poi indicato nell'art. 131-bis, comma 3 il quale prende in considerazione alcune situazioni, che indica, premettendo l'espressione "il comportamento è abituale nel caso in cui.....

    Sempre secondo la relazione, tale comma, aggiunto su sollecitazione espressa nel parere della Commissione giustizia della Camera dei deputati, descriverebbe soltanto alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto dì abitualità, entro il quale potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità.

    In effetti, nel parere della Commissione giustizia risulta chiaro l'intento di prevedere una sorta di "presunzione di non abitualità" laddove, escludendo un contrasto con la legge delega, auspica l'inserimento di una disposizione la quale specifichi che il comportamento è considerato non abituale nel caso in cui... e, successivamente, nell'esprimere parere favorevole, indica nelle condizioni il testo del comma da inserire, il quale inizia con la frase "il comportamento risulta abituale nel caso in cui....".

    Sempre con riferimento all'art. 131-bis, comma 3 va posto in evidenza che esso, per come è strutturato, sembra fare riferimento a tre distinte situazioni ("il comportamento è abituale nel caso in cui ... ovvero ... nonchè ...).

    Inoltre, il riferimento all'ipotesi del soggetto che sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, come chiaramente emerge dal tenore letterale della disposizione, si riferisce a condizioni specifiche di pericolosità criminale che presuppongono un accertamento da parte del giudice (come, del resto, in caso di recidiva - reiterata o specifica - anch'essa ostativa, diversamente da quella semplice, presupponendo la commissione di più reati o di altra reato della stessa indole), mentre altrettanto non può dirsi per ciò che concerne le ulteriori ipotesi, riferite al soggetto che abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonchè nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

    In tali ipotesi, infatti, non vi è, nel testo, alcun indizio che consenta di ritenere, considerati i termini utilizzati, che l'indicazione di abitualità presupponga un pregresso accertamento in sede giudiziaria ed, anzi, sembra proprio che possa pervenirsi alla soluzione diametralmente opposta, con la conseguenza che possono essere oggetto di valutazione anche condotte prese in considerazione nell'ambito del medesimo procedimento, il che amplia ulteriormente il numero di casi in cui il comportamento può ritenersi abituale, considerata anche la ridondanza dell'ulteriore richiamo alle "condotte plurime, abituali e reiterate".

    All'esito di tale disamina si considerava operante lo sbarramento del terzo comma anche nel caso di reati avvinti dal vincolo della continuazione.

    14. Alla luce di tali pregresse considerazioni, condivise dal Collegio, deve pertanto valutarsi la fondatezza della censura formulata in ricorso.

    L'assunto del Pubblico Ministero ricorrente risulta corretto per ciò che riguarda la natura di reato permanente della violazione urbanistica, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva (v. Sez. U, n. 17178 del 27/2/2002, Cavallaro, Rv. 221399), mentre non può condividersi per ciò che concerne la sostanziale collocazione della condotta permanente nella nozione di abitualità del comportamento ricavabile dal disposto dell'art. 131- bis cod. pen. Il reato permanente, invero, è caratterizzato non tanto dalla reiterazione della condotta, quanto, piuttosto, da una condotta persistente (cui consegue la protrazione nel tempo dei suoi effetti e, pertanto, dell'offesa al bene giuridico protetto) e non è, quindi, riconducibile nell'alveo del comportamento abituale come individuabile ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., sebbene possa essere certamente oggetto di valutazione con riferimento all'"indice- criterio" della particolare tenuità dell'offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto più tardi sia cessata la permanenza.

    Entro tale ambito avrebbe dovuto effettuarsi la valutazione criticata dal ricorrente e la permanenza della condotta avrebbe dovuto essere apprezzata, dunque, prendendo in esame le opere realizzate.

    15. Va peraltro rilevato che, nel caso di specie, come chiaramente si rileva dalla lettura dell'imputazione riportata in sentenza, la contestazione rivolta all'imputato riguardava due distinte fattispecie di reato, essendo chiaramente indicata la violazione della disciplina urbanistica e di quella paesaggistica.

    Tale evenienza non sembra essere stata considerata dal Tribunale, tanto è vero che, in sentenza, viene sempre fatto riferimento ad un "reato" al singolare (pur indicando con il plurale le "opere" realizzate). Si ha poi conferma della parziale considerazione dei fatti contestati nella parte della motivazione dedicata alla valutazione in concreto della tenuità dell'offesa, ove l'intervento edilizio viene unitariamente considerato, con apprezzamenti che esulano da qualsivoglia considerazione in merito agli aspetti concernenti la tutela del paesaggio.

    Anche sotto tale profilo, tuttavia, non possono condividersi le valutazioni critiche del ricorrente sulla verifica di non abitualità della condotta (sebbene la parziale considerazione del fatto contestato assuma rilievo rispetto al complessivo giudizio di speciale tenuità, come pure si dirà in seguito).

    16. Invero, posto che, da quanto è dato rilevare dal tenore del ricorso e del provvedimento impugnato, le due tettoie abusive risultano realizzate in un unico contesto, deve escludersi la sussistenza di elementi obiettivi ai quali il giudice avrebbe potuto desumere la reiterazione della condotta in tempi diversi.

    La violazione di due distinte disposizioni di legge, pacificamente tra loro concorrenti, stante la diversità del bene giuridico tutelato, è dunque conseguenza di una condotta unica, così sussistendo un concorso formale tra i reati.

    Essendo il concorso formale caratterizzato, come è noto, da una unicità di azione od omissione, risulta impossibile collocarlo tra le ipotesi di "condotte plurime, abituali e reiterate" menzionate dall'art. 131-bis cod. pen., comma 3 mentre, riguardo ai "reati della stessa indole", il fatto che la disposizione rivolga l'attenzione al soggetto che abbia "commesso più reati" consentirebbe di includere il concorso formale se si intendesse l'espressione come riferita al risultato della condotta ed, invece, di escluderlo se si intende riferito all'unica azione od omissione che ha poi comportato la violazione di diverse disposizioni di legge, ovvero la commissione di più violazioni della medesima disposizione.

    Tale ultima soluzione risulta maggiormente plausibile, considerando che la stessa conformazione dell'art. 81 cod. pen. mal si attaglia a situazioni, quali quelle considerate dall'art. 131-bis cod. pen., comma 3 che il legislatore considera comunque sintomatiche di quella "abitualità", seppure largamente intesa, impeditiva della declaratoria di particolare tenuità, difficilmente confrontabile con una condotta unica, seppure produttiva di plurime violazioni di legge.

    Ne consegue che il concorso formale di reati non consente di considerare operante lo sbarramento della abitualità del comportamento che impedisce l'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen..

    17. Altro punto della sentenza censurato in ricorso è quello concernente la concreta valutazione della condotta posta in essere dall'imputato.

    Afferma il Tribunale, richiamando il contenuto dell'imputazione, che le opere realizzate sarebbero di scarso rilievo, in quanto di ridotte dimensioni e non comportanti una significativa mutazione del territorio, trattandosi di due tettoie su pilastri imbullonati a terra, privi di fondamenta.

    Aggiunge che si tratterebbe di "opere strettamente funzionali alle esigenze primarie della vita quotidiana", in quanto realizzate in adiacenza ad altro immobile adibito ad abitazione, con la conseguenza che l'elemento psicologico andrebbe individuato "nella necessità di soddisfare bisogni primari, più che nella coscienza e volontà di costruire un'opera abusiva o in una grave imprudenza o imperizia".

    Sostiene, inoltre, che il danno al bene giuridico sarebbe minimo, trattandosi di "costruzioni evidentemente provvisorie", facilmente rimovibili, stante l'assenza di fondazioni e "armoniche" rispetto a tutte le altre presenti sul posto.

    A fronte di ciò, il ricorso, premesse alcune considerazioni sulle modalità di valutazione oggettiva della condotta ai fini dell'applicazione dell'art. 131-bis cod. pen., rileva, in particolare, che le dimensioni delle opere non sarebbero così ridotte da rientrare tra le ipotesi in cui l'entità oggettiva dell'intervento sia "prossima" alle situazioni in cui l'offesa del bene protetto è stata ritenuta dalla giurisprudenza totalmente mancante e, in quanto tali, apprezzabili ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità.

    Rileva inoltre il ricorrente, che, pur tenendo conto delle caratteristiche costruttive, le tettoie sono state comunque realizzate con destinazione abitativa ed in contrasto con le disposizioni urbanistiche.

    La consistenza delle stesse e la loro finalità avrebbero arrecato comunque un danno di rilievo all'assetto del territorio, avendo il Tribunale evidentemente confuso la ritenuta natura provvisoria delle opere con la precarietà delle stesse, palesemente insussistente, stante la destinazione dell'intervento abusivo a soddisfare esigenze permanenti e durature nel tempo.

    Le censure colgono nel segno.

    18. E' di tutta evidenza che l'art. 131-bis cod. pen. prende in considerazione reati rispetto ai quali non difetta alcun elemento costitutivo e ritenuti non punibili perchè irrilevanti in base ai principi di proporzione e di economia processuale ed è riferito non soltanto a reati di danno, ma anche a quelli di pericolo, senza alcuna distinzione tra ipotesi di pericolo astratto o concreto. Non si pone, pertanto, un problema di inoffensività del fatto, bensì di irrilevanza dello stesso.

    Dunque la esiguità del danno o del pericolo va valutata sulla base di elementi oggettivamente apprezzabili e non anche attraverso una stima meramente soggettiva, considerando, in particolare, che la norma si riferisce a comportamenti tali da poter essere ritenuti penalmente rilevanti e, quindi, certamente collocabili tra quelli non inoffensivi, ma che però devono aver prodotto conseguenze minime, non degne di essere ulteriormente apprezzate in sede penale.

    Il ricorrente rileva, poi, correttamente, che l'accertamento deve comunque essere effettuato sul fatto concreto e non sull'astratta fattispecie di reato, così implicitamente richiamando quanto già affermato da questa Corte con riferimento all'analogo istituto operante nel procedimento davanti al Giudice di pace (v. Sez. 5, n. 34227 del 7/5/2009 (dep. 4/9/2009), Scalzo, Rv. 244910; Sez. 4, n. 24387 del 28/4/2006 (dep. 14/7/2006), Ciampa, Rv. 234577).

    Per quanto riguarda, inoltre, le modalità della condotta, è evidente che il richiamo ai criteri di cui all'art. 133 c.p., comma 1, consente di prendere in considerazione, ai fini del giudizio di irrilevanza, anche l'elemento soggettivo del reato e, segnatamente, tenuto conto della natura contravvenzionale della quasi totalità dei reati ambientali, il grado della colpa.

    Nondimeno, anche gli altri parametri (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell'azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato) devono necessariamente essere apprezzati.

    19. Per ciò che concerne, in particolare, le violazioni urbanistiche e paesaggistiche, che qui interessano, deve ritenersi che la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione.

    Riguardo agli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.

    Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è, inoltre, come si è accennato in precedenza, la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali).

    20. Date tali premesse, deve rilevarsi come la valutazione operata dal giudice del merito nel riconoscere la particolare tenuità del fatto risulta limitata e parziale, in quanto si sofferma, come rilevato anche in ricorso, esclusivamente sulle caratteristiche costruttive e dimensionali delle opere e sulla loro destinazione.

    La verifica effettuata, inoltre, tralascia completamente di considerare alcuni dati fattuali individuabili dalla mera lettura dell'imputazione, la cui sussistenza non viene posta in discussione e rispetto ai quali la motivazione della sentenza impugnata si pone palesemente in contraddizione.

    21. Sebbene assuma aspetto decisivo, ai fini del giudizio di particolare tenuità della condotta, per le ragioni dianzi dette, la contestuale violazione della disciplina urbanistica e paesaggistica, per il fatto che la contestazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 sia stata del tutto ignorata, va anche rilevato che, a fronte della positiva valutazione sulla non particolare modificazione del territorio e sulla destinazione dell'intervento, nulla si dice sul fatto che, nell'imputazione, viene precisato che le opere sono state eseguite su area di proprietà comunale, nè si considera che l'imputazione medesima specifica che le tettoie sono state realizzate in adiacenza di immobile (di proprietà di altro soggetto) oggetto di ordine di demolizione e, pertanto, verosimilmente abusivo.

    Si tratta, anche in questo caso, di un dato non indifferente, che avrebbe dovuto essere oggetto di specifica valutazione, atteso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve, in generale, ritenersi preclusa ogni possibilità di intervento su immobili abusivi non condonati o sanati, perchè essi, anche quando siano riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente (Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014, Rossignoli e altri, Rv. 261330; Sez. 3, n. 26367 del 25/3/2014, Stewart e altro, Rv. 259665; Sez. 3, n. 1810 del 2/12/2008 (dep. 2009), P.M. in proc. Cardite Rv. 242269; Sez. 3, n. 33657 del 12/7/2006, Rossi, Rv.  235382; Sez. 3, n. 21490 del 19/4/2006, Pagano, Rv. 234472). Una simile condotta, pertanto, si risolverebbe in un ulteriore aggravamento di un abuso preesistente.

    22. In ricorso viene, infine, correttamente censurata anche la errata qualificazione delle opere realizzate come precarie, come evidenzia il riferimento del giudice del merito alla loro "provvisorietà", dedotta sulla base delle caratteristiche costruttive, essendo tali, invece, quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità (cfr. D.P.R. n. 380 del 2001, art. 6), ciò in quanto tale precarietà risulta esclusa dalla stabile destinazione alle esigenze abitative riconosciuta dal Tribunale e stigmatizzata dal ricorrente.

    23. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio, che va disposto, in ragione di quanto indicato in precedenza nel qualificare la decisione oggetto di censura, alla Corte di appello di Torino.
    
    P.Q.M.

    Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Torino.

    Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2015.