Cass. Sez. III n. 36095 del 1 settembre 2016 (Ud. 30 giu 2016)
Presidente: Ramacci  Estensore: Mengoni Imputato: Ercoli
Urbanistica.Opere in conglomerato cementizio armato e mancanza del certificato di collaudo

Il reato di cui all'art. 75 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (utilizzazione di un'opera in cemento armato o a struttura metallica prima del rilascio del certificato di collaudo) ha natura di reato permanente a condotta mista in quanto comprende, da un lato, un aspetto commissivo costituito dall'utilizzazione dell'edificio e, dall'altro, un aspetto omissivo, costituito dalla mancata richiesta di collaudo all'autorità competente, con la conseguenza che il momento di cessazione della condotta antigiuridica, da cui far decorrere il termine di prescrizione, coincide con il momento di dismissione dell'utilizzo dell'immobile ovvero con il collaudo.

RITENUTO IN FATTO

    1. Con sentenza del 13/11/2014, il Tribunale di Velletri dichiarava E.Q. ed E.A. colpevoli delle contravvenzioni loro rispettivamente ascritte ai sensi del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 73, comma 2 e art. 75, irrogando loro la pena di cui al dispositivo; agli stessi era contestato di aver consentito, prima del rilascio del certificato di collaudo, l'utilizzo di unità immobiliari di un edificio realizzato con opere in conglomerato cementizio armato, nonchè (il solo E.Q.) di aver omesso, a lavori ultimati, la presentazione presso il competente ufficio della relazione di cui all'art. 65, comma 6, cit. decreto.

    2. Propongono congiunto appello i due E., poi convertito in ricorso per cassazione, deducendo - con unico motivo - l'erroneità e contraddittorietà della motivazione quanto all'intervenuta prescrizione. La fattispecie contestata ad entrambi - a differenza di quanto sostenuto dal Tribunale - costituirebbe reato istantaneo, non permanente, con la conseguenza che il dies a quo della prescrizione dovrebbe decorrere dal 2004, allorquando le omissioni di cui alla rubrica già erano state accertate, come da deposizione del teste P.; la contravvenzione medesima, pertanto, risulterebbe da tempo estinta per prescrizione.
    
    CONSIDERATO IN DIRITTO

    3. Preliminarmente, deve esser qui ribadito il costante indirizzo di legittimità in forza del quale, in tema di conversione dell'impugnazione ai sensi dell'art. 568 c.p.p., comma 5, l'appello erroneamente proposto avverso la sentenza di condanna a pena pecuniaria non si converte automaticamente in ricorso per cassazione, stante la necessità di avere riguardo - al di là dell'apparente nomen iuris - alle reali intenzioni dell'impugnante ed all'effettivo contenuto dell'atto di gravame, con la conseguenza che ove dall'esame di tale atto si tragga la conclusione che l'impugnante abbia effettivamente voluto ed esattamente denominato il mezzo di impugnazione non consentito dalla legge, l'appello deve essere dichiarato inammissibile (Sez. U, n. 16 del 26/11/1997, n. Nexhi, Rv. 209336; Sez. 2, n. 47051 del 25/9/2013, Ercolano, Rv. 257481; Sez. 5, n. 35442 del 3/7/2009, Mazzola, Rv. 245150).

    4. Ciò premesso, i ricorsi - pur ammissibili nei termini appena citati risultano comunque del tutto infondati con riguardo all'unica doglianza sollevata.

    Pacifica la responsabilità dei ricorrenti con riguardo ad entrambe le fattispecie rispettivamente ascritte, accertate fino al dicembre 2009, osserva infatti la Corte che - per consolidato indirizzo ermeneutico, qui da ribadire - l'art. 75 in oggetto costituisce un reato di natura permanente, nel quale la condotta e l'evento si presentano come un complesso unitario sostenuto dalla volontà di protrarre nel tempo la violazione, di tal chè le cause estintive del reato operano sullo stesso soltanto se la permanenza sia cessata (Sez. 3, n. 1411 del 3/11/2011, Iazzetta, Rv. 251880. In questa sentenza, peraltro, si è richiamata Sez. 3, n. 364 del 27 gennaio 1998, a mente della quale il reato di cui al R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 221 - in materia di leggi sanitarie e perfettamente assimilabile all'art. 75 in esame - costituisce un reato permanente a condotta mista: questa comprende un aspetto commissivo - utilizzazione dell'edificio - ed un aspetto omissivo - mancata richiesta dell'abitabilità -, con la conseguenza che il colpevole può far cessare l'offesa agli interessi igienici e urbanistici tutelati dalla norma penale con una condotta simmetricamente opposta a quella costitutiva del reato, e cioè dismettendo l'utilizzazione dell'immobile ovvero ottenendo il nulla osta di abitabilità).

    In forza di quanto precede, dunque, la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto il reato in esame non ancora prescritto alla data della pronuncia medesima (13/11/2014), sia pur soltanto per qualche giorno (5 anni ex artt. 157-161 c.p. - decorrenti dal 1 dicembre 2009).

    Prescrizione che, peraltro, viene invocata in questa sede con esclusivo riguardo ad un'emergenza istruttoria - la deposizione del teste P. - che la Corte di legittimità non può certo esaminare; al riguardo, infatti, occorre ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione delle vicende (tra le varie, Sez. 3, n. 46526 del 28/10/2015, Cargnello, Rv. 265402; Sez. 3, n. 26505 del 20/5/2015, Bruzzaniti ed altri, Rv. 264396).

    5. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p. ed a carico di ciascun ricorrente, l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata in Euro 1.500,00.

    Tale pronuncia, inoltre, impedisce di dichiarare la prescrizione delle fattispecie, nelle more maturata, attesa la mancata costituzione di un regolare rapporto processuale.
    
    P.Q.M.

    Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

    Così deciso in Roma, il 30 giugno 2016.

    Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2016