Cass. Sez. III n. 38479 del 17 settembre 2019 (UP 13 giu 2019)
Pres. Ramacci Est. Reynaud Ric. Candido ed altri
Urbanistica.Oneri del direttore dei lavori

Certamente negligente è la condotta del direttore dei lavori che si disinteressi del cantiere ove riveste tale formale qualità: in tema di reati edilizi, l'assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l'onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all'incarico

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 22 ottobre 2018, la Corte d’appello di Lecce ha confermato la pronuncia con cui gli odierni ricorrenti erano stati condannati alle pene di legge per i reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (d’ora in avanti, T.U.E.) e 181, comma 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione a lavori in zona paesaggistica vincolata, contestati come eseguiti in assenza di permesso di costruire e  di autorizzazione paesaggistica. I titoli rilasciati, in particolare, dovevano ritenersi illegittimi perché in contrasto con gli strumenti urbanistici e con i vincoli insistenti in zona, essendo stati realizzati immobili da destinare a civile abitazione, e, anche a seguito di lavori eseguiti in difformità, si era determinato il mutamento della destinazione d’uso degli originari edifici, aventi natura non residenziale, ed il conseguente aumento del carico urbanistico.

2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dei cinque imputati, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

3. Nel comune ricorso proposto nell’interesse di Alessandro Candido e Oronzo Candido, proprietari e committenti delle opere, con il primo motivo si deduce vizio di motivazione con riguardo al rigetto dell’istanza volta ad ottenere la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
3.1. Con il secondo motivo, si lamentano violazione dell’art. 44, comma 1, lett. c) T.U.E. e 181 d.lgs. 42/2004 per essere stato riconosciuto il  reato paesaggistico benché l’immobile ristrutturato avesse carattere rurale e non paesaggistico, sicché si sarebbe dovuto ritenere soltanto il reato urbanistico, peraltro con riguardo alla mera ipotesi della difformità parziale.
3.2. Con il terzo motivo si lamenta violazione delle stesse disposizioni di legge, in relazione agli artt. 5 cod. pen. e 20, comma 1, T.U.E. Si osserva, in particolare, come i ricorrenti avevano acquistato i due manufatti da Mario Pantaleo Greco, ottenendo la voltura del permesso di costruire n. 67/2010 dal medesimo conseguito per la ristrutturazione del deposito/rifugio, con realizzazione di servizi igienici  e l’esecuzione di alcune opere esterne. Essi avevano confidato nella legittimità del provvedimento, non avendo peraltro alcun obbligo di far asseverare la conformità del progetto agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla normativa vigente, essendo tale obbligo stato previsto - con la modifica dell’art. 20, comma 1, T.U.E. operata dal d.l. 70/2011, conv. in l. 106/2001 – soltanto in epoca successiva a quella della voltura in loro favore del permesso di costruire e della comunicazione di inizio dei lavori, rispettivamente avvenute il 6 e l’11 aprile 2011. Nei loro confronti si sarebbe dunque dovuta applicare la previsione di ignoranza inevitabile della legge penale sancita dall’art. 5 cod. pen.

5. Col ricorso proposto nell’interesse di Pietro Millefiori, direttore dei lavori, si deducono la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. – in relazione agli artt. 110 e 81 cod. pen., 44, comma 1, lett. c), T.U.E. e 181 d.lgs. 42/2004 – ed il vizio di motivazione, anche con travisamento della prova, con riguardo all’affermazione della sua responsabilità penale per entrambi i reati. Si allega che egli – non avendo in alcun modo partecipato al rilascio dei titoli abilitativi – si era limitato a svolgere il ruolo di direttore dei lavori (peraltro non sulla pajara) su incarico dei fratelli Candido, dopo che costoro avevano ottenuto la voltura del permesso di costruire. Confidando nella legittimità dei titoli, egli aveva svolto il suo incarico senza che i lavori fossero stati svolti in modo difforme dal progetto - come riferito dal teste Stomeo, la cui deposizione era stata travisata - sino al 13 giugno 2012, allorquando era intervenuta ordinanza di sospensione dei lavori con conseguente astensione del direttore da qualsiasi ulteriore attività.
5.1. Si lamenta, in secondo luogo, il difetto assoluto di motivazione della sentenza di primo grado sul mancato riconoscimento – pur invocato - della non punibilità per particolare tenuità del fatto, ciò che avrebbe dovuto indurre il giudice d’appello a pronunciare la nullità della prima sentenza per violazione di legge.
5.2. Da ultimo, si eccepisce la prescrizione dei reati sul rilievo che la condotta del ricorrente si sarebbe svolta sino alla data di emissione dell’ordinanza di sospensione dei lavori, vale a dire sino al 13 giugno 2012, data che segnerebbe il dies a quo per il decorso del termine di prescrizione.

6. Con il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse di Cosimo Bisanti, esecutore dei lavori, si lamenta violazione dell’art. 158 cod. pen. per ragioni analoghe a quelle da ultimo illustrate: anche per lui il dies a quo per il decorso della prescrizione dovrebbe coincidere con la notifica dell’ordinanza di sospensione dei lavori (nei suoi confronti avvenuta il 2 luglio 2012), non essendo peraltro al medesimo stato contestato anche il reato cui al capo b) dell’imputazione, vale a dire la violazione dell’ordine di sospensione dei lavori, contestata ai soli proprietari/committenti.
6.1. Con il secondo motivo si eccepisce la nullità della sentenza di primo grado, ex art. 522 cod. proc. pen., per difetto di correlazione tra accusa e sentenza, posto che, nell’incipit motivazionale di tale pronuncia, sub punto 2), anche lui viene indicato come responsabile pure del reato di cui al capo b) dell’imputazione, benché al medesimo non contestato, ciò che trova ulteriore conferma nel fatto che anche nei suoi riguardi è stato riconosciuto il medesimo trattamento sanzionatorio riservato ai coimputati fratelli Candido. La Corte d’appello, pur investita dell’eccezione di nullità, nel rigettarla sul rilievo che le responsabilità dei diversi imputati erano poi state scandite nell’ulteriore corso della motivazione, non avrebbe fugato tutti i dubbi.
6.2. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta il vizio di motivazione con riguardo alla dedotta insussistenza dell’elemento soggettivo del reato ed all’attribuibilità del fatto all’imputato. Da un lato – si allega – il ricorrente non aveva alcuna facoltà di sindacare la legittimità del permesso di costruire (sicché avrebbe versato quantomeno in incolpevole ignoranza della legge penale); d’altro lato, la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria nel riconoscere che le difformità tra quanto realizzato ed il permesso di costruire si erano verificate successivamente all’ordine di sospensione dei lavori, senza trarne le conseguenze in relazione alla posizione del ricorrente, cui la condotta di prosecuzione di lavori sospesi non era stata addebitata, ed osservando invece come, non essendovi prova che altra impresa avrebbe completato le opere dopo la primavera del 2012, doveva ragionevolmente ritenersi che ciò fosse avvenuto da parte dell’impresa del Bisanti.
Si lamenta, ancora, la contraddittorietà della motivazione – anche nella parte in cui viene per relationem richiamata la sentenza di primo grado – con riguardo al ritenuto mutamento di destinazione d’uso dell’immobile, da deposito/rifugio ad abitazione, essendo ciò avvenuto soltanto con il richiamo alle contraddittorie valutazioni del consulente tecnico del pubblico ministero ing. Vernaleone, il quale aveva ritenuto che anche un provvisorio insediamento umano potesse giustificare la realizzazione di servizi igienici e vasche di raccolta dei liquami.

7. Con i primi due, connessi, motivi del ricorso proposto nell’interesse di Salvatore Serracca, responsabile dell’ufficio tecnico comunale che ebbe a rilasciare il permesso di costruire n. 67/2010, ritenuto illegittimo, si deducono violazione degli artt. 27, 29 e 44 T.U.E. e 110 e 40 cpv. cod. pen., nonché il vizio di motivazione, anche per travisamento della prova. Richiamando e condividendo la conclusione raggiunta in primo grado circa la corresponsabilità del ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe risposto alle doglianze sollevate con il gravame, vale a dire che, per consolidata giurisprudenza che in ricorso viene citata, non la si sarebbe potuta ravvisare, ai sensi dell’art. 40 cpv. cod. pen., per il solo fatto del rilascio di un permesso di costruire illegittimo. Nessuna ulteriore condotta di concorso o cooperazione viene indicata in sentenza e non potrebbe neppure parlarsi di omissione dell’obbligo di vigilanza, poiché fu proprio il geom. Serracca, in esito al sopralluogo del 9 maggio 2012 ed al riscontro delle difformità, ad emettere l’ordinanza di sospensione dei lavori ed effettuare la comunicazione notizia di reato.
7.1. Con gli ulteriori, pure connessi, motivi terzo e quarto si deducono violazione delle disposizioni penali incriminatrici e vizio di motivazione, anche per travisamento della prova, innanzitutto per non aver escluso la responsabilità del ricorrente rispetto all’esecuzione delle opere in difformità dal permesso, non avendo egli avuto più alcun rapporto con gli altri imputati successivamente al rilascio del permesso di costruire e prima che lui stesso, ravvisando le difformità, assumesse le già ricordate iniziative repressive dell’abuso, né essendo a maggior ragione ravvisabile un suo concorso con riguardo alla prosecuzione dei lavori dopo l’ordinanza di sospensione.
Con riguardo, invece, al mero rilascio del permesso di costruire, ci si duole che sia stato trascurato come il provvedimento fosse stato emesso all’esito di pareri favorevoli della commissione ambientale, della Sovrintendenza e dell’Ente Parco Regionale di Costa d’Otranto. Sulla base degli elaborati grafici dei progetti, inoltre, gli interventi di nuova costruzione e di straordinaria manutenzione del deposito non determinavano la trasformazione della destinazione degli immobili ad uso abitativo, ciò che lo stesso consulente tecnico del pubblico ministero aveva riconosciuto, salvo poi erroneamente concludere che le opere costituivano un aumento del carico urbanistico dell’area. Le opere autorizzate con il permesso di costruire – un piccolo servizio igienico nel deposito con relativi impianti, un pozzo nero completamene interrato, una rampa di accesso al fondo, un pergolato con riferimento a preesistente immobile - non determinavano alcun mutamento di destinazione d’uso del deposito/rifugio né aumento del carico urbanistico ed erano compatibili con le previsioni dello strumento urbanistico, che in zona E3 non vietava peraltro in assoluto attività edificatorie. Non v’era dubbio, del resto, che i due piccoli e vetusti fabbricati necessitassero di lavori di ristrutturazione, consolidamento statico e risanamento igienico. I giudici di merito avevano travisato le dichiarazioni rese dai due consulenti tecnici degli imputati e dallo stesso consulente tecnico del pubblico ministero il quale pure aveva osservato che nel progetto allegato il fabbricato denominato “1” manteneva la destinazione a deposito/rifugio già indicata negli elaborati allegati all’istanza di condono edilizio. Con riguardo al piccolo deposito di 7 mq. indicato come fabbricato “2”, i giudici di merito aveva poi erroneamente enfatizzato il fatto che, trattandosi di immobile abusivo, non sarebbero state consentite opere di manutenzione, trascurando che nel rogito notarile di compravendita quel manufatto veniva indicato come costruito anteriormente al 1° settembre 1967. Da ultimo, si era trascurato di valutare – ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico – la condotta tenuta dall’imputato in esito al sopralluogo del  9 maggio 2012.
7.2. Con i successivi due motivi si deducono violazione dell’art. 181 d.lgs. 42/2004 e vizio di motivazione per mancata risposta alle doglianze rassegnate nel gravame circa l’attribuibilità all’indagato dell’illecito paesaggistico, non avendo egli effettuato alcun intervento sull’area vincolata.
7.3. Con gli ulteriori due motivi di ricorso, il settimo e l’ottavo, si deducono violazione di legge e vizio di motivazione per il mancato riconoscimento della prescrizione dei reati, verificatasi per il ricorrente già prima della sentenza di resa in primo grado, posto che, con l’ordine di immediata sospensione dei lavori del 13 giugno 2012, egli si sarebbe dissociato dall’eventuale condotta criminosa e, in ogni caso, era estraneo alle condotte edificatorie successivamente compiute.
7.4. Con gli ultimi due motivi di ricorso si lamentano violazione degli artt. 81 e 133 cod. pen. e vizio di motivazione per non essere stata esaminata la richiesta avanzata con il gravame di riduzione della pena, sul rilievo che la già descritta condotta da lui tenuta all’esito del sopralluogo avrebbe dovuto indurre a differenziare la sua posizione da quella d egli altri coimputati e a ridurre quantomeno l’aumento praticato a titolo di continuazione.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Osserva innanzitutto il Collegio come la sentenza impugnata – pur genericamente confermando anche la responsabilità degli imputati con riguardo al profilo di addebito di aver eseguito opere in forza di permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica illegittimamente rilasciati – ha in sostanza reso una motivazione nella quale si evidenzia che l’abuso era ravvisabile perché l’intervento aveva «condotto ad un organismo edilizio destinato a civile abitazione, ciò in palese contrasto con la tipologia di immobile preesistente nonché con la destinazione urbanistica dell’area di sedime, il tutto con conseguente danno anche paesaggistico». Richiamando anche la conforme sentenza di primo grado (pagg. 6-8), la Corte territoriale ha ritenuto che erano state realizzate opere «in totale difformità con quanto…assentito…al posto della semplice ristrutturazione, consolidamento e risanamento igienico di piccoli fabbricati esistenti, e segnatamente di due depositi, si è creato un fabbricato di tipo residenziale…munito di plurime ed ampie finestre e vedute precedentemente inesistenti e non riportate nei dati progettuali». Sotto altro profilo – richiamando l’accertamento tecnico effettuato dall’ing. Vernaleone, consulente del p.m. - la sentenza impugnata ha attestato ulteriori difformità: «un terrazzamento sui lati nord ed est del fabbricato che non era previsto negli elaborati progettuali autorizzati, anche la rampa aveva una lunghezza e delle quote differenti da quelle che erano state autorizzate». In sostanza, con riguardo al permesso di costruire n. 67/2010, «l’intervento edilizio realizzato dagli imputati» era «in evidente contrasto con gli strumenti urbanistici nonché in palese difformità rispetto a quanto con esso assentito, essendosi creato un organismo edilizio che, soprattutto con la prosecuzione delle opere (in spregio a quanto imposto con l’ordinanza di sospensione lavori), successivamente alla primavera 2012 e sino al dicembre 2013, ha determinato un significativo implemento della costruzione, edificandosi una villetta residenziale di ben diversa e di superiore consistenza rispetto al semplice risanamento di un deposito, come inizialmente autorizzato».
La sentenza impugnata, dunque, attesta l’illiceità dell’intervento tenendo soprattutto conto di quel che di fatto è stato realizzato in difformità dal permesso di costruire, limitandosi a rilievi che consentono di ritenere, al più, la dubbia legittimità iniziale del titolo, ciò che si comprende sia in base alla stessa ricostruzione del consulente tecnico riprodotta a pag. 10 della sentenza, sia con riguardo al commento (in parte sopra riportato) che la sentenza impugnata rende alle pagg. 11 e 12, sia in relazione all’analisi della posizione del direttore dei lavori fatta a pag. 14, ove si pone in luce come la modifica della destinazione d’uso degli immobili abbia preso corpo gradualmente, mano a mano che l’esecuzione delle opere rivelava come le stesse «prendevano la consistenza di una villetta residenziale anziché dar luogo ad un semplice risanamento di un vano deposito».

2. Ciò premesso, il Collegio non può non rilevare la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo al profilo dell’originaria illegittimità del citato permesso di costruire, vale a dire dell’unico addebito che ha fondato la conferma della responsabilità penale del tecnico comunale Salvatore Serracca, il quale ebbe a rilasciare il provvedimento, ordinando peraltro successivamente la sospensione dei lavori allorquando, appunto, la polizia municipale accertò come gli stessi si erano svolti in difformità rispetto al progetto autorizzato. Il profilo di originaria illegittimità del titolo – specificamente contestato nel gravame di merito proposto dall’imputato Serracca – non trova dunque logica e convincente motivazione nella sentenza impugnata, neppure se la motivazione di questa viene integrata con quella di primo grado. A quest’ultimo proposito va osservato come il più evidente profilo che secondo il primo giudice avrebbe rivelato la palese illegittimità del titolo – vale a dire l’aver autorizzato opere di manutenzione straordinaria su un deposito di 7 mq. che era totalmente abusivo – non chiarisce come il tecnico comunale potesse essere consapevole di tale abusività, posto che la stessa emerse nell’accertamento tecnico eseguito in corso di processo dal confronto tra i rilievi aerofotogrammetrici eseguiti nel 2006 (quando il manufatto non c’era) e nel 2010 (quando lo stesso era invece presente) e che nel rogito notarile di acquisto dell’area allegato alla pratica di richiesta del permesso di costruire il notaio avrebbe dato per esistente quel deposito in data anteriore al 1° settembre 1967: su questa specifica, e rilevante, doglianza effettuata nel gravame di merito, la sentenza impugnata non reca alcuna risposta.  Per contro, anche la sentenza di primo grado (pag. 13) conclude osservando che le opere «eseguite in assenza di titolo si spiegano proprio perché sin dall’origine il progetto sottoposto all’UTC era volto alla realizzazione di immobili di tipo abitativo», con ciò ulteriormente confermando come il risultato edificatorio finale che ha integrato gli estremi dell’abuso era dipeso dalle opere eseguite in difformità (o assenza) del permesso di costruire.
I motivi terzo e quarto proposti dal ricorrente Serracca sono pertanto fondati – e assorbenti rispetto agli altri dedotti - sì che, in conformità alle richieste avanzate dal procuratore generale, essendosi le contravvenzioni medio tempore certamente prescritte, la sentenza impugnata va nei suoi riguardi annullata senza rinvio per intervenuta prescrizione. La sentenza, di fatti, rileva che il dies a quo per il computo della prescrizione va individuato nel dicembre 2013, al momento del sequestro delle opere, e risulta un’unica causa di sospensione del corso della prescrizione per complessivi mesi due e giorni 24, conseguente al rinvio del processo di primo grado richiesto dalle difese dall’udienza del 7 luglio 2017 a quella del successivo 29 settembre. Posto che la fondatezza dei suddetti motivi di ricorso imporrebbe l’annullamento della sentenza con rinvio per nuovo esame sul punto, non risultano evidenti cause di proscioglimento più favorevole qui dichiarabili ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen.

3. La medesima pronuncia deve adottarsi – anche qui in conformità alle richieste del procuratore generale - nei riguardi del ricorrente Cosimo Bisanti, imputato in qualità di legale rappresentante della società esecutrice dei lavori per conto dei proprietari e committenti fratelli Candido.
Come si è rilevato più sopra citando un passo della sentenza impugnata, la sentenza ha attestato che le più significative opere in difformità furono eseguite con la prosecuzione dell’intervento (in spregio a quanto imposto con l’ordinanza di sospensione lavori), successivamente alla primavera 2012 e sino al dicembre 2013. Benché all’imputato Bisanti non fosse stato addebitato il reato di prosecuzione di opere abusive di cui al capo b) – imputato ai soli proprietari fratelli Candido – e benché il medesimo avesse specificamente contestato con il gravame di non aver svolto ulteriori lavori dopo aver ricevuto la notifica dell’ordinanza di sospensione (sì che i reati, nei suoi confronti, sarebbero stati prescritti già al momento del giudizio d’appello), la sentenza impugnata si limita a respingere le doglianze sul rilievo che «non vi è alcuna prova che, successivamente alla primavera del 2012, fosse stata un’altra impresa a completare quelle opere, dovendosi invece ragionevolmente ritenere che sia stato sempre lui ad eseguirle». La natura all’evidenza assertiva ed apodittica di tale affermazione, che non poggia su alcun concreto elemento di fatto, rende la motivazione censurabile (cfr. Sez.  5, n. 9677 del 14/07/2014, dep. 2015, Vassallo,  Rv. 263100; Sez.  5, n. 24862 del 19/05/2010, Mastrogiovanni, Rv. 247682) e, di conseguenza, il ricorso proposto dall’imputato Bisanti, con riferimento al primo ed al terzo motivo, certamente ammissibile, donde il rilievo della prescrizione medio tempore intervenuta non essendo evidente la sussistenza di una causa di proscioglimento più favorevole.

4. Il cumulativo ricorso proposto nell’interesse dei fratelli Candido è invece inammissibile.
In particolare, il secondo ed il terzo motivo – che appaiono pregiudiziali – sono generici e manifestamente infondati.
4.1. Quanto al fatto che è stato riconosciuto il reato di cui all’art. 181 d.lgs. 42 del 2004 benché l’immobile ristrutturato avesse carattere rurale, la doglianza è ictu oculi priva di giuridica consistenza, posto che l’autorizzazione la cui mancanza o inosservanza è punita ai sensi della richiamata disposizione incriminatrice riguarda l’esecuzione di «lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici» e nel caso di specie – come contestato in imputazione e ritenuto dai giudici di merito, senza che il ricorrente muova sul punto contestazione – i lavori in questione furono eseguiti su terreni paesaggisticamente vincolati perché ricadenti all’interno del Parco Regionale Naturale “Costa d’Otranto”. Non rileva, dunque – e non è stata neppure contestata – la natura di bene paesaggistico degli edifici (rurali) oggetto d’intervento. Che l’autorizzazione paesaggistica fosse necessaria, poi, è ulteriormente provato dal fatto che gli stessi ricorrenti la richiesero e che l’autorità competente la rilasciò e il reato è stato giustamente ritenuto – come pure si rileva in ricorso - per essere stati i lavori eseguiti in difformità da quel titolo. Diversamente da quel che opinano i ricorrenti, e come poco sopra si è ricordato, peraltro, la disposizione incriminatrice punisce l’esecuzione dei lavori in assenza dell’autorizzazione paesaggistica «o in difformità di essa», senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica (cfr. Sez.  3, n. 3655 del 17/12/2013, dep. 2014, Alimonti, Rv. 258491; Sez.  6, n. 19733 del 03/04/2006, Petrucelli, Rv. 234730).
Quanto al fatto – rilevante ai soli fini del reato urbanistico - che si sarebbe trattato di difformità parziale piuttosto che totale, il rilievo è del tutto generico ed in alcun modo argomentato a fronte della motivazione resa dai giudici di merito sulla modifica di destinazione d’uso dei manufatti, da rurale a residenziale, ciò che certamente integra l’ipotesi di difformità totale c.d. qualitativa che, per l’art. 31, comma 1, prima parte, T.U.E. ricorre quando gli interventi «comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso». Sia per quanto riguarda le caratteristiche tipologiche degli organismi edilizi oggetto d’intervento (secondo l’accertamento compiuto dai giudici di merito, trasformati da depositi rurali ad edifici di civile abitazione) sia quanto al conseguente diverso utilizzo – peraltro vietato dallo strumento urbanistico – è indiscutibile che nel caso di specie si sia realizzato quell’aliud pro alio che integra gli estremi della contravvenzione urbanistica ritenuta e non possa parlarsi soltanto di parziale difformità (sulla differenza tra i due concetti cfr. Sez.  3, n. 40541 del 18/06/2014, Cinelli e aa., Rv. 260652).
4.2. Per le medesime ragioni è generica l’ulteriore doglianza concernente la responsabilità in ordine al reato urbanistico, che non si confronta con la motivazione resa dalla sentenza impugnata (e dalla conforme sentenza di primo grado) circa la rilevata difformità delle opere eseguite rispetto al progetto assentito, con riguardo a tutti i profili dettagliatamente indicati in imputazione. Assolutamente irrilevante, infatti, è il rilievo circa l’inesistenza dell’obbligo di far asseverare la conformità del progetto agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla normativa vigente ai sensi dell’art. 20, comma 1, T.U.E. – così come modificato, successivamente all’inizio dei lavori, d.l. 70/2011, conv. in l. 106/2001 – con conseguente ignoranza inevitabile della legge penale sancita dall’art. 5 cod. pen.: si tratta di obbligo non contestato in imputazione e mai affermato dalle sentenze di merito.
Per queste ragioni il terzo motivo di ricorso è viziato da palese genericità, causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi del ricorso per cassazione  si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicché è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto d'impugnazione, atteso che quest'ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
4.3. Quanto al primo motivo di ricorso, la doglianza sull’assenza di motivazione circa la mancata declaratoria della non punibilità per particolare tenuità del fatto è inammissibile per manifesta infondatezza.
E’ ben vero che al proposito il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l'entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile (Sez.  6, n. 18180 del 20/12/2018, dep. 2019, Venezia, Rv. 275940), ma nel caso di specie la Corte territoriale ha dato effettiva e non illogica motivazione circa il diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., osservando che il fatto non poteva essere ritenuto di particolare gravità – con evidente riferimento ad entrambe le contravvenzioni - «alla luce della significativa consistenza delle opere illegittimamente realizzate, tali da aver dato luogo ad una villetta ad uso residenziale con conseguente aggravio del carico urbanistico ed impatto ambientale oltremodo negativo in un’area dalla spiccata vocazione paesaggistica». Quanto alla mancata disamina di altri aspetti della fattispecie, vale il principio secondo cui, ai fini dell'esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez.  3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta e a., Rv. 273678; Sez.  6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone, Rv. 274647).

5. Parimenti inammissibile è il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato Millefiori, il quale è stato ritenuto responsabile nella qualità di direttore dei lavori per conto della committenza.
5.1. Quanto al secondo motivo, fondato sull’immotivata esclusione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, vale quanto osservato supra, sub § 4.3.
5.2. Quanto al primo motivo, sono innanzitutto generiche le doglianze relative al fatto che il tecnico avesse confidato nella legittimità dei titoli, poiché, come più volte ribadito, l’affermazione di responsabilità è avvenuta anche  in relazione all’esecuzione delle opere difformi che avevano dato luogo ad un vero e proprio aliud pro alio e si tratta di un aspetto sufficiente a fondare la condanna.
Il ricorrente si confronta, correttamente, anche con tale parte della motivazione, ma le censure al proposito mosse sono generiche e manifestamente infondate.
E’ in primo luogo generico il dedotto travisamento della prova con riguardo alla ricostruzione della condotta tenuta dal tecnico Stomeo, che la sentenza impugnata attesta essere consistita in plurimi sopralluoghi effettuati sul cantiere su incarico dell’ing. Millefiori al fine di monitorare l’esecuzione dei lavori senza che questi nulla avesse fatto benché le opere stessero gradualmente prendendo la consistenza di una villetta residenziale anziché dar luogo ad un semplice risanamento di un vano deposito. Il ricorrente non riproduce in ricorso – né allega – quali elementi di prova sarebbero stati dal giudice d’appello travisati nell’effettuare tale ricostruzione.
5.3. In ogni caso – e il rilievo è assorbente – la sentenza impugnata fonda la responsabilità del direttore dei lavori sull’omessa (diligente) vigilanza sull’esecuzione dei medesimi, quale imposta dall’art. 29 T.U.E., senza che il direttore dei lavori abbia segnalato all’autorità comunale le difformità (anche ulteriori rispetto accertate nel corso del primo sopralluogo)  ovvero rinunciato all’incarico.
E’ noto, al proposito che, all’evidente fine di realizzare una tutela più forte dei beni oggetto di protezione penale, il legislatore ha da tempo configurato in capo al direttore dei lavori una posizione di garanzia per il rispetto della normativa urbanistica ed edilizia (Sez. 3, 24/02/2004, Soldà) e lo ha fatto non soltanto addebitandogli le conseguenze penali dell’omesso controllo sulla corretta esecuzione delle opere rispetto al permesso di costruire (art. 29, comma 1, d.P.R. 380 del 2001), ma imponendogli altresì di “dissociarsi” dalla condotta illecita da altri commessa, anche se trattisi del suo stesso committente. In particolare, «il direttore dei lavori non è responsabile qualora abbia contestato agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione delle varianti in corso d’opera, fornendo al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di totale difformità o di variazione essenziale rispetto al permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre rinunciare all’incarico contestualmente alla comunicazione resa al dirigente» (art. 29, comma 2, T.U.E.). Se quest’ultima disposizione prevede una causa personale di non punibilità che vale esclusivamente per il reato nella forma omissiva e che consente al professionista di sfuggire all’applicazione delle sanzioni qualora adempia alle prescrizioni previste nel tassativo modello legale, essa – letta unitamente alla norma contenuta nel primo comma - individua invece una vera e propria posizione di garanzia che fonda la penale responsabilità del direttore dei lavori nel caso di condotta da altri commessa. Non si tratta, tuttavia, di una responsabilità oggettiva, essendo sempre necessario che il tecnico, volutamente o per negligenza, non ponga in essere quanto gli si impone (Sez. 3, 04/02/1994, Romagnolo). Certamente negligente – secondo il consolidato orientamento di questa Corte - è la condotta del direttore dei lavori che si disinteressi del cantiere ove riveste tale formale qualità: in tema di reati edilizi, l'assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l'onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all'incarico (Sez.  3, n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi, Rv. 262423; Sez.  3, n. 34602 del 17/06/2010, Ponzio, Rv. 248328).
    5.3.1. Il ricorrente ha negato di essere stato consapevole dell’illecita esecuzione dei lavori – affermando che sino alla data della sospensione degli stessi le opere erano conformi al progetto – e ha dichiarato di non essersi successivamente più occupato del cantiere proprio perché i lavori erano stati sospesi.
    Entrambi i rilievi, tuttavia, sono manifestamente destituiti di fondamento, l’uno in fatto e l’altro in diritto.
     Quanto al primo, già si è detto della contraria ricostruzione del fatto compiuta nella sentenza impugnata e lo stesso risulta poi ictu oculi inverosimile se si pone mente alla circostanza che l’ordinanza di sospensione dei lavori del 13 giugno 2012 fu adottata, dal tecnico comunale Serracca, perché a seguito di sopralluogo effettuato un mese prima dalla comandante della polizia municipale erano state accertate plurime difformità dal progetto (cfr. sentenza di primo grado, pagg. 5 e 6).
    5.3.2. Quanto al fatto che anche successivamente furono eseguite ulteriori opere difformi, sino al sequestro del cantiere avvenuto nel dicembre 2013 e che proprio queste – secondo il già riportato giudizio della Corte d’appello (cfr. § 1) – avevano concretizzato la modifica della destinazione d’uso dei manufatti, la giustificazione addotta dal ricorrente è inconsistente.
    Ed invero, per almeno due, distinte, ragioni va affermato il principio secondo cui l’obbligo di vigilanza che l’art. 29 T.U.E. pone in capo al direttore dei lavori circa la conformità delle opere al permesso di costruire, con la conseguente responsabilità penale nel caso di reati da altri commessi senza che intervenga quella forma di dissociazione prevista dal secondo comma della disposizione, permane sino a che non venga comunicata la formale conclusione dell’intervento ovvero sino a che il tecnico non rinunci all’incarico, e non viene meno in caso di adozione dell’ordinanza di sospensione dei lavori di cui all’art. 27, comma 3, T.U.E. salvo che – e fintanto che – il cantiere sia sottoposto a sequestro.
    Innanzitutto, proprio perché il provvedimento sospensivo viene adottato per accertata inosservanza alle previsioni normative, urbanistiche o alle modalità esecutive stabilite nel titolo edilizio, l’obbligo di diligente vigilanza in capo al direttore dei lavori che, ciò nondimeno, non intenda dismettere il mandato assume un contenuto ancor più pregnante, posto che la posizione di garanzia già prima rivestita non si è rivelata idonea ad evitare la lesione del bene giuridico penalmente protetto per l’inaffidabilità dei committenti e/o degli esecutori dei lavori. Se costoro non hanno rispetto l’obbligo, penalmente sanzionato, di eseguire i lavori in conformità al permesso di costruire, di fatti, è ben possibile che altrettanto facciano con riguardo all’obbligo di sospendere i lavori. Soltanto se il cantiere sia materialmente sottratto alla loro disponibilità per essere stato sottoposto a sequestro può ritenersi temporaneamente escluso il dovere di vigilanza del direttore dei lavori.
    In secondo luogo – ed il rilievo è comunque assorbente – è noto che l’ordinanza di sospensione dei lavori ha effetto «fino all’adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori» (art. 27, comma 3, T.U.E.). Nel caso interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazione essenziali, il provvedimento richiamato dalla norma è quello dell’ingiunzione a demolire di cui all’art. 31, comma 3, T.U.E. Decorso il suddetto termine di quarantacinque giorni dall’ordinanza di sospensione dei lavori, sia che venga emanata l’ingiunzione a demolire (o altro provvedimento previsto in caso di differente inosservanza), sia che il comune non adotti invece alcun provvedimento, la sospensione dei lavori perde efficacia (cfr. Sez.  3, n. 28132 del 12/02/2013, Cinque, Rv. 257136; Sez.  3, n. 41884 del 09/10/2008, Civita, Rv. 241496), trattandosi di provvedimento cautelare che il legislatore ha appunto costruito come funzionale all’adozione, in tempi contenuti e predeterminati, dei provvedimenti sanzionatori definitivi di competenza dell’autorità amministrativa.
Gravemente negligente, dunque, è stata la condotta tenuta dal ricorrente Millefiori – quale da lui stesso dichiarata – per essersi egli completamente disinteressato per oltre un anno del cantiere ove continuava a rivestire l’incarico di direttore dei lavori e ove già si erano verificate condotte abusive. In forza della posizione di garanzia di cui all’art. 29 T.U.E., egli certamente risponde, dunque, anche dei successivi abusi commessi e definitivamente accertati nel novembre 2013, con conseguente spostamento in avanti, pure nei suoi confronti, della permanenza del reato e del dies a quo del computo della prescrizione, certamente non maturato alla data della pronuncia della sentenza qui impugnata.
    5.4. Essendo inammissibili i motivi di ricorso sopra esaminati, non può pertanto essere accolta nemmeno la richiesta di annullamento senza rinvio della sentenza per intervenuta prescrizione avanzata con l’ultimo motivo di ricorso, giusta il consolidato principio secondo cui l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, Sentenza n. 32 del 22/11/2000 Cc., D.L., Rv. 217266), ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità (Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, Ciaffoni, Rv. 256463).

6. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi proposti da Alessandro Candido, Oronzo Candido e Pietro Millefiori, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,  consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00 per ciascun ricorrente.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Bisanti Cosimo e Serracca  Salvatore perché i reati sono estinti per prescrizione.
Dichiara inammissibili i ricorsi di Candido Alessandro, Candido Oronzo e Millefiori Pietro, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 13 giugno 2019.