Cass. Sez. III n. 33419 del 9 settembre 2021 (UP 8 apr 2021)
Pres. Sarno Est. Reynaud Ric. Gavioli
Urbanistica.Abuso di ufficio e rilascio del titolo  abilitativo edilizio avvenuto senza il rispetto del piano regolatore generale o degli altri strumenti urbanistici

È ben vero che in tema di abuso d'ufficio, la modifica introdotta con l'art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 ha ristretto l'ambito applicativo dell'art. 323 cod. pen., determinando una parziale "abolitio criminis" in relazione alle condotte commesse prima dell'entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che lascino residuare margini di discrezionalità. Tuttavia, proprio con riguardo all’adozione di un permesso di costruire, va ribadito che, in tema di abuso di ufficio, il rilascio del titolo  abilitativo edilizio avvenuto senza il rispetto del piano regolatore generale o degli altri strumenti urbanistici integra la violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge, così come richiesto dalla nuova formulazione dell'art. 323 cod. pen. ad opera dell'art. 16 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella legge 11 settembre 2020, n. 120, atteso che l'art.12, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 prescrive espressamente che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi agli strumenti urbanistici ed il successivo art. 13 detta la specifica disciplina urbanistica che il direttore del settore è tenuto ad osservare.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 17 giugno 2019, la Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la decisione con cui Roberto Olivieri e Dino Gavioli – nei cui confronti era stato dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine alle contravvenzioni urbanistica e paesaggistica contestate al capo A) e ai delitti di falso in atto pubblico ed abuso d’ufficio contestati al capo B) – erano stati condannati alle pene di legge per il reato di abuso d’ufficio loro ascritto al capo C) e, quanto ad Olivieri, anche per il reato di falso ideologico di cui al medesimo capo. In particolare, gli addebiti si riferivano, quanto ad Olivieri, nella qualità di responsabile del procedimento amministrativo, per aver falsamente attestato la regolarità tecnica dei lavori di un progetto presentato in variante a precedente permesso di costruire (già illegittimamente rilasciato) e, quanto ad entrambi, nell’aver intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio alla società Gavioli Arti e Restauri Srl alla quale era stato conseguentemente rilasciato, in violazione del d.m. 1444/1968 e della norme tecniche di attuazione al P.R.G. del comune di Giulianova, il richiesto permesso di costruire in variante, a firma del dirigente comunale Flaviano Core, coimputato nel delitto di cui all’art. 323 cod. pen. ed assolto in primo grado perché il fatto non costituisce reato.

2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo dei difensori di fiducia, hanno proposto ricorso per cassazione i suddetti imputati, deducendo i motivi di seguito enunciati.

3. Con il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse di Roberto Olivieri, si deducono l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 9 d.m. 1444/1968, degli artt. 1.6.4 e 1.6.5 n.t.a. P.R.G. di Giulianova, dell’art. 5, comma 1, lett. b-bis) l. 14 giugno 2019, delle norme civilistiche relative alla determinazione della distanza tra edifici, la violazione del divieto di analogia in malam partem in tema di interpretazione di norme extrapenali integrative della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 44 d.P.R. 380/2001, nonché l’esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o amministrativi ed il vizio di motivazione.
    Si lamenta, in particolare, che l’affermazione di penale responsabilità poggi sull’erroneo rilievo, assunto in violazione della richiamata normativa, secondo cui la distanza tra l’edificando fabbricato e quelli antistanti fosse inferiore a quella prescritta di dieci metri perché la stessa doveva essere calcolata non già dalla parete del primo – che l’arch. Olivieri, nel parere di regolarità, aveva correttamente definito “cieca”, vale a dire, “non finestrata” – bensì dallo spigolo dei ballatoi aperti che sulla parete aggettano. La sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto che, poiché sui predetti ballatoi si aprivano le porte di accesso agli appartamenti, le pareti dovevano considerarsi “finestrate” (donde la falsa attestazione che il tecnico comunale avrebbe compiuto) e che, posto che da quei ballatoi ci si sarebbe potuti affacciare sul fondo finitimo, la distanza dall’edificando fabbricato si sarebbe dovuta computare dal limite esterno degli stessi (donde l’ulteriore falsa attestazione sulla regolarità edilizia del progetto in variante e la conseguente violazione di legge del relativo permesso di costruire). Così facendo, tuttavia, si erano violati sia l’art. 9 d.m. 1444/1968 (che prevede il calcolo delle distanze dalle pareti), sia la conforme disciplina urbanistica comunale di attuazione al P.R.G. (che precisa come soltanto nel caso in cui i ballatoi siano chiusi, e determinino volume, la distanza va calcolata dal loro limite esterno). Facendosi improprio riferimento alle norme civilistiche sulle vedute (artt. 900, 905 e 906 cod. civ.) - che non rilevano laddove, come nella specie, si tratti della disciplina sulle distanze tra i fabbricati ai fini igienico-sanitari - si era inoltre fatta interpretazione analogica in malam partem di norme extrapenali ritenute integratrici della contravvenzione prevista dall’art. 44 d.P.R. 380/2001, di cui era stata quindi erroneamente ritenuta la sussistenza per asserita macroscopica illegittimità del permesso di costruire, ciò che aveva costituito il fondamento dell’affermazione di penale responsabilità anche per i reati di cui al capo C) per i quali la pronuncia di condanna era stata confermata.
    L’art. 5, comma 1, lett. b-bis, della citata legge c.d. “sbocca cantieri”, aveva poi dettato una norma d’interpretazione autentica – quindi efficace ex tunc – in forza della quale la distanza minima assoluta di 10 metri lineari tra fabbricati di cui all’art. 9 d.m. 1444/1968 era applicabile soltanto alle costruzioni ricadenti in zona C del piano regolatore (zone di espansione) e non anche a quelle che, come nella specie, ricadono in zona B2. Non era pertanto applicabile neppure la norma sulle distanze tra costruzioni parametrata sull’altezza del fabbricato più alto, che già le n.t.a. al P.R.G. come modificate nel 2013 avevano peraltro limitato alle sole zone C e che, comunque, nella specie erano state rispettate, posto che i vicini fabbricati erano stati edificati prima dell’adozione del piano regolatore, ad una distanza inferiore alla metà della loro altezza, e che il nuovo fabbricato distava dai medesimi almeno sei metri.
    Del pari erronea era la ritenuta violazione delle norme tecniche di attuazione con riguardo alla distanza del fabbricato dal fronte strada, posto che – errando nella valutazione degli elementi di prova acquisiti e di atti pubblici fidefacienti – la sentenza aveva ritenuto che la strada su cui l’edificio si affaccia abbia larghezza superiore a 15 metri, piuttosto che inferiore, ciò che imponeva di individuare la fascia di rispetto in soli 7,5 metri, nella specie esistenti.
    3.1. Con il secondo motivo di ricorso, si deducono violazione delle norme giuridiche di cui sopra, dell’art. 323 cod. pen. e dell’art. 107 T.U.E.L., nonché vizio di motivazione, anche per travisamento della prova. Si lamenta, in particolare, che la sentenza impugnata, che non contiene una compiuta ed adeguata motivazione sulla presunta illegittimità dell’originario permesso di costruire e del relativo nulla-osta paesaggistico, a suo tempo rilasciati dal ricorrente, ne abbia affermato la responsabilità penale per il permesso di costruire in variante rilasciato dal dirigente ing. Core, assolto già in primo grado. Al più – si rileva – il ricorrente potrebbe essere chiamato a rispondere del solo reato di falso ascrittogli, da considerarsi assorbente rispetto all’abuso di ufficio.
    Oltre a richiamare la legittimità del permesso di costruire in variante per i rilievi operati nel primo motivo, il ricorrente lamenta l’insussistenza del dolo intenzionale richiesto dal delitto di cui all’art. 323 cod. pen. e l’illogicità della motivazione con riguardo ai presunti elementi indicatori dello stesso quali argomentati nella sentenza impugnata. Si sottolinea, in particolare, che: al Comune di Giulianova era prassi escludere i ballatoi aggettanti dal calcolo delle distanze; correttamente l’imputato aveva assunto il ruolo di responsabile del procedimento stante l’assenza, per aspettativa, del tecnico addetto a tale compito e aveva incaricato l’ing. Core di curare il rilascio del permesso in variante; al momento del rilascio dello stesso – che non era stato il ricorrente a consegnare brevi manu a Dino Gavioli – non era nota in Comune l’ordinanza del Tribunale civile di Teramo che aveva ordinato la sospensione dei lavori nel cantiere; egli ed il suo ufficio avevano sempre agito con trasparenza nel verificare gli esposti presentati in Comune dai proprietari confinanti; il coimputato Gavioli non era mai stato da lui favorito.
    3.2. Con il terzo motivo di ricorso si deducono violazione della legge penale con riguardo al ritenuto delitto di cui all’art. 479 cod. pen., sia per la già argomentata inesistenza di false attestazioni, sia perché il parere istruttorio, in quanto finalizzato al rilascio di un provvedimento che costituisce mera autorizzazione amministrativa e comunque non vincolante, non poteva costituire atto pubblico ed essere dunque ricondotto alla contestata fattispecie incriminatrice.
    3.3. Con l’ultimo motivo di ricorso ci si duole della conferma delle statuizioni in favore delle parti civili costituite pur in assenza di lesione di diritti soggettivi.


4. Con il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse di Dino Gavioli, si lamentano violazione dell’art. 178, lett. c), cod. proc. pen. e dei principi del giusto processo sanciti dall’art. 111, terzo comma, Cost., e 6, comma 3, lett. d), CEDU, in relazione alla mancata assunzione di una prova decisiva, vale a dire l’audizione del consulente tecnico della difesa arch. Roberto Evangelisti. Illegittimamente il tribunale, dopo aver ammesso la prova con riguardo al nominato c.t. arch. Emilio De Flaviis, il quale aveva successivamente rinunciato al mandato, aveva rifiutato di autorizzare la sua sostituzione con il nuovo c.t. nominato. Diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata – che aveva fatto improprio riferimento alla giurisprudenza relativa alla sostituzione dei testimoni, ispirata ad una diversa ratio, e addotto altre pretestuose argomentazioni – nel caso dei consulenti la sostituzione va ammessa con maggiore larghezza e nel processo ciò era peraltro avvenuto con riguardo al consulente tecnico di una delle difese di parte civile, con evidente disparità di trattamento. Stante la complessità delle questioni tecniche poste dall’imputazione, la prova era decisiva e la sua mancata assunzione aveva determinato la nullità del processo di primo grado e di tutti gli atti conseguenti.
4.1. Con il secondo motivo si deducono, con riferimento alle disposizioni evocate già dal coimputato, violazione della legge penale e vizio di motivazione per essere stata affermata l’illegittimità del permesso di costruire in variante e la conseguente sussistenza del reato di abuso di ufficio per effetto della pretesa violazione delle norme dettate in tema di distanze tra edifici. Oltre a svolgere argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle dell’altro ricorrente e di cui sopra si è dato conto, il ricorrente Gavioli sottolinea come la sentenza impugnata – piuttosto che fare riferimento all’ordinanza resa dal Tribunale civile di Teramo nel caso di specie, che aveva esaminato questioni civilistiche relative alle “vedute” – avrebbe dovuto applicare i principi formatisi in seno alla giurisprudenza amministrativa sull’irrilevanza dei ballatoi aperti per il calcolo delle distanze tra fabbricati. Già con l’atto di appello, peraltro, erano state al proposito formulate articolate argomentazioni e deduzioni alle quali la sentenza impugnata – sul punto viziata da omessa motivazione – non aveva dato risposta.
4.2. Con il terzo motivo di ricorso si svolgono analoghe censure di mancanza di motivazione – anche in questo caso conseguente alla mancata risposta alle puntuali deduzioni difensive rassegnate con il gravame di merito - e violazione di legge con riguardo all’ulteriore pretesa illegittimità del permesso di costruire in variante e, prima ancora, dell’originario permesso di costruire, per violazione delle norme tecniche di attuazione al P.R.G. dettate in tema di distanze dal fronte strada. Anche sul punto si svolgono doglianze sovrapponibili a quelle del coimputato di cui più sopra si è dato conto, aggiungendosi che era irrilevante la circostanza, evidenziata in sentenza, che, nell’istanza di sanatoria avanzata nel 2014 dalla società proprietaria, la larghezza del Lungomare Zara fosse indicata come superiore a 15 m., trattandosi di dato smentito dalle misure chiaramente indicate nel progetto allegato alla richiesta di sanatoria e comunque contrastante con i pacifici rilievi oggettivi.
4.3. Con il quarto motivo di ricorso, si lamentano violazione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. e delle norme incriminatrici relative ai reati contestati ai capi A) e B) della rubrica, per essere stato rigettato il motivo d’appello con cui si chiedeva un proscioglimento di merito. Benché i reati in questione fossero stati dichiarati prescritti, le argomentazioni svolte con riguardo ai profili di doglianza esposti per le imputazioni di cui al capo C) avrebbero dovuto condurre al più favorevole proscioglimento del merito anche degli altri reati originariamente contestati per insussistenza dei fatti.
4.4. Con il quinto motivo di ricorso di deducono violazione degli artt. 5, 47 e 323 cod. pen., anche in relazione agli artt. 117 Cost. e 7 CEDU, e vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di abuso d’ufficio e alla mancata considerazione dell’ipotesi di errore scusabile sul precetto o, comunque, sull’interpretazione della legge extrapenale. Essendo gli elementi addotti in sentenza insufficienti a dimostrare la collusione tra pubblico ufficiale e privato, la sentenza aveva ripiegato sul concetto di “macroscopica illegittimità” degli atti amministrativi adottati che, a tacer d’altro, nel caso di specie non era predicabile posto che la violazione della disciplina urbanistica era stata affermata in base ad una interpretazione delle norme che va ben oltre la lettera e la ratio delle stesse.
Si aggiunge che, al fine di enfatizzare i “buoni rapporti” che vi sarebbero stati tra Dino Gavioli e Roberto Olivieri, la sentenza aveva richiamato in modo superficiale e fuorviante la pronuncia con cui il T.A.R. dell’Abruzzo, in accoglimento del ricorso proposto dai proprietari del condominio Tritone, aveva annullato l’ordinanza comunale con cui si ingiungeva la demolizione di parti del fabbricato ritenute abusivamente realizzate rispetto alla licenza edilizia.
4.5. Con memoria datata 22 marzo 2021, contenente motivi aggiunti al secondo, al terzo e al quinto del ricorso, e allegati documenti, la difesa di Dino Gavioli ha peraltro segnalato come detta ordinanza, appellata al Consiglio di Stato dal controinteressato Gavioli Arte e Restauri S.r.l., è stata in secondo grado annullata, confermandosi la legittimità dell’ordinanza di demolizione del fabbricato, il cui procedimento di esecuzione è ora in corso.
Questo dato, oltre a rivelare l’illogicità del richiamato rilievo contenuto nella sentenza impugnata, priva di consistenza l’accusa di violazione delle distanze dal condominio Tritone, posto che le stesse non debbono essere osservate quando l’edificio, pur precedentemente edificato, sia abusivo.
Nella memoria si argomenta ancora, al proposito, che, anche alla luce della vicenda appena descritta, difettava la prova del dolo intenzionale di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale al privato e che comunque il concorso dell’extraneus non poteva risolversi nel mero dato di fatto dell’adozione del provvedimento richiesto. In relazione a questi profili, pertanto, nella memoria contenente motivi aggiunti si conclude quantomeno nel senso dell’annullamento della sentenza impugnata agli effetti penali per sopravvenuta prescrizione dei reati tuttora sub iudice, con eventuale rinvio al giudice civile competente in grado di appello in ordine alle pretese delle parti civili.
4.6. Con il secondo motivo della citata  memoria contenente motivi aggiunti, riferito al secondo motivo di ricorso, si chiede in via principale l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, anche in relazione al reato di cui all’art. 323 cod. pen. contestato al capo B), perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Richiamando anche recente giurisprudenza di questa Corte, si argomenta che le modifiche apportate alla fattispecie incriminatrice del reato di abuso d'ufficio dall'art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. dalla l. 11 settembre 2020, n. 120 (c.d. “decreto semplificazioni”), ne hanno ristretto l'ambito applicativo, determinando una parziale abolitio criminis con riguardo alle condotte realizzate mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che lascino residuare margini di discrezionalità. Nel caso di specie – si allega – le pretese illegittimità dei provvedimenti amministrativi richiamati nei capi B) e C) dell’imputazione, per un verso, attengono alla violazione di disposizioni di carattere secondario e, per altro verso, attengono all’esercizio di poteri discrezionali di carattere tecnico rispetto al quale, essendo semmai ravvisabile soltanto un eccesso di potere, la citata “novella” ha escluso che possano residuare profili di penale rilevanza.
4.7. Con l’ultimo motivo del ricorso e della citata memoria contenente motivi aggiunti, si deducono violazione degli artt. 335 bis cod. pen., 117 Cost., 7 CEDU e 1 del primo protocollo addizionale alla citata Convenzione, nonché vizio di motivazione, con riguardo al rigetto delle doglianze proposte con l’appello in relazione alla disposta confisca dell’immobile.
Si rileva, al riguardo, che, la sentenza impugnata non aveva specificato quale, tra le ipotesi previste dall’art. 240, primo comma, cod. pen. ricorrerebbe nel caso di specie, non potendosi parlare di profitto del reato per le ragioni dettagliatamente esposte nel gravame di merito, che non avevano trovato disamina da parte della Corte territoriale. Inoltre, la misura era all’evidenza sproporzionata rispetto alle limitate difformità urbanistiche ravvisate, circoscritte all’edificazione dei ballatori e che sarebbero semmai da ricondurre all’ipotesi di cui alla lett. a) dell’art. 44, comma 1, d.P.R. 380/2001 e questa sproporzione, in alcun modo considerata dalla sentenza impugnata, violava anche le citate norme convenzionali, come ritenuto dalla Corte EDU, sia pur per l’analoga ipotesi della confisca urbanistica per lottizzazione abusiva, nella nota sentenza resa nel caso GIEM. In ogni caso, come pure questa decisione aveva riconosciuto, la confisca era illegittima ricadendo essa in danno della società proprietaria, che non aveva partecipato al giudizio.
Quand’anche non si volesse accedere alla principale richiesta di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non è più  previsto dalla legge come reato, l’intervenuta prescrizione del delitto di cui all’art. 323 cod. pen. dovrebbe comunque condurre alla revoca della confisca, non essendo nella specie applicabile l’art. 578 bis cod. proc. pen.
 
5. Con memoria difensiva datata 23 marzo u.s., la parte civile Giselda Silveri ha svolto argomentazioni a sostegno del rigetto dei ricorsi e con successiva memoria ha replicato alla citata memoria contenente motivi aggiunti presentata dal ricorrente Gavioli, confutandone le argomentazioni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Cominciando dalla disamina delle questioni processuali, il primo motivo del ricorso proposto da Dino Gavioli non è fondato, benché non sia condivisibile la ragione per cui la sentenza impugnata ha ritenuto legittima la decisione con cui il giudice di primo grado aveva negato l’autorizzazione alla sostituzione del consulente.
1.1. Ed invero, laddove la prova sia stata ammessa con riguardo alle circostanze indicate nella lista di cui all’art. 468 cod. proc. pen., la sostituzione della persona del dichiarante deve ammettersi negli stessi termini tanto per il testimone, quanto per il consulente tecnico (cfr. Sez.  2, n. 7245 del 27/11/2019, dep. 2020, Jiang, Rv. 278508), non essendovi ragione di distinguere tra le due diverse vesti di dichiarante. Anzi, al contrario di quanto osserva la sentenza impugnata, nel caso del consulente tecnico la possibilità di sostituzione deve ammettersi in termini più ampi, poiché, non essendovi un obbligo di comparire e di rendere testimonianza, la rinuncia al mandato professionale intervenuta successivamente alla presentazione della lista ed all’ammissione della prova – rinuncia che potrebbe dipendere da moltissime ragioni, nessuna delle quali sindacabile da parte dell’autorità giudiziaria – conculcherebbe il diritto alla prova, che, con riguardo alla consulenza tecnica, lascia all’insindacabile decisione della parte la scelta fiduciaria dell’esperto.
1.2. Ciò nondimeno, le generiche allegazioni contenute in ricorso e la particolare natura della consulenza tecnica non consentono di ritenere che la prova non ammessa fosse decisiva, circostanza – questa – indispensabile per potersi in questa sede dolere della mancata assunzione. Benché il parametro normativo applicabile da parte del giudice d’appello non dovesse essere quello di cui al terzo comma dell’art. 603 cod. proc. pen., bensì – per quanto detto – quello, richiamato dal secondo comma della citata disposizione, di cui all’art. 495, comma 1, cod. proc. pen., alla luce della possibilità di sindacare in sede di legittimità soltanto l’omessa assunzione della prova decisiva ex art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., vale il rilievo della sentenza impugnata circa la non necessità dell’audizione del consulente tecnico arch. Roberto Evangelisti, anche alla luce del deposito da parte della difesa di una memoria che integralmente recepisce le valutazioni e conclusioni del medesimo. Il ricorrente non si confronta con questa attestazione, limitandosi alla generica affermazione sulla decisività della prova in rapporto alla natura tecnica delle questioni poste dai capi di imputazione. Al di là del fatto che nel caso di specie le questioni attengono principalmente all’interpretazione di norme giuridiche – sia pur di carattere urbanistico – vale il generale principio giusta il quale è decisiva quella prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, ove esperita avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez.  3, n. 9878 del 21/01/2020, R., Rv. 278670; Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323; Sez. 2, n. 21884 del 20/03/2013, Cabras, Rv. 255817). E con riguardo alle valutazioni di carattere tecnico, questa Corte nella sua più autorevole composizione, sia pur considerando la perizia, ha escluso che essa possano di regola presentare carattere di decisività (cfr. Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A, e a., Rv. 270936), sicché, in difetto di più specifica allegazione, nel caso di specie non può giungersi a diversa conclusione.
 
2. Passando all’esame delle doglianze contenute nei primi due motivi dei ricorso proposto da Roberto Oliveri e nei motivi secondo e terzo del ricorso proposto da Dino Gavioli – come detto, in larga parte comuni e obiettivamente connesse, tanto da meritare unitaria trattazione – il Collegio reputa innanzitutto inammissibili, per genericità e manifesta infondatezza e perché proposte per ragioni non consentite, quelle concernenti la ritenuta illegittimità del permesso di costruire in variante n. 25/2010 (come già dell’originario permesso n. 76/2008) per violazione della distanza minima prevista dalle N.T.A. dal fronte strada.
Ed invero, i due ricorrenti si limitano al proposito a riproporre le medesime doglianze già sottoposte al giudice d’appello e da questi disattese con argomentazioni non manifestamente illogiche che, attenendo ad una valutazione di fatto, non sono altrimenti censurabili in questa sede.
2.1. La sentenza impugnata (pagg. 21 ss.) ha infatti diffusamente e non illogicamente argomentato come la strada urbana a doppia carreggiata sulla quale il fabbricato si affaccia (denominata Lungomare Zara) sia da considerarsi un’unica strada benché le due carreggiate siano intervallate da una fascia di verde pubblico. La sentenza attesta – senza che sul punto siano state mosse specifiche contestazioni di travisamento della prova – che dall’accertamento tecnico eseguito in processo era risultato come il sedime stradale presentasse una complessiva larghezza decisamente superiore a 15 metri (vale a dire compresa tra m. 16,40 e m. 17,90), ciò che avrebbe imposto di arretrare il fabbricato, rispetto al filo della stessa, di almeno 10 metri, distacco nella specie pacificamente non rispettato. E’ stato del pari logicamente disatteso il rilievo giusta il quale si sarebbe dovuto prestare fede non già alla misurazione in concreto effettuata ma ad una delibera comunale di classificazione delle strade risalente al 1969 che indicava il Lungomare Zara, nel tratto qui d’interesse, come largo 15 metri (delibera che la sentenza non illogicamente reputa priva di efficacia costitutiva e non funzionale a fissarne l’esatta dimensione ai fini de quibus, con argomentazioni con i quali le ricorsi – sul punto generici – non si confrontano, e che a fortiori valgono con riguardo alla larghezza indicata da altro documento invocato dal ricorrente Olivieri, vale a dire lo stradario provinciale).
    All’evidenza inammissibile, poi, è la doglianza proposta dal ricorrente Gavioli circa la (pretesa) mancata considerazione dei rilievi contenuti nell’atto di appello a firma dell’avv. Manieri, rilievi del tutto genericamente richiamati con il rimando a quel gravame. Ed invero, va al proposito ribadito il principio secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a lamentare l'omessa valutazione, da parte del giudice dell'appello, delle censure articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad esse, senza indicarne il contenuto, al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, dep. 2015, B. e a., Rv. 264879; Sez.  3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853-02; Sez. 2, n. 13951 del 05/02/2014, Caruso, Rv. 259704; Sez. 2, n. 9029 del 05/11/2013, dep. 2014, Mirra, Rv. 258962).

3. Il Collegio reputa inoltre infondate le contestazioni concernenti la qualificazione come “finestrata” – piuttosto che “cieca” – delle pareti del nuovo fabbricato prospicienti il Condominio Tritone e il Palazzo Kursaal, ciò che, indipendentemente dalla rilevanza ai fini del computo delle distanze, ha determinato l’affermazione di penale responsabilità di Olivieri Roberto per il reato di falso ideologico a lui ascritto (cfr. sentenza di primo grado, pagg. 28 e 29).   I giudici di merito attestano – e i ricorrenti non contestano la circostanza – che su  tali pareti insistono quantomeno aperture che, dal ballatoio, consentono l’accesso agli appartamenti dell’erigendo edificio. In conformità all’orientamento del giudice amministrativo anche di recente ribadito (cfr. Cons. St., Sez. V, sent. 11/09/2019, n. 6136), tenendo conto della ratio pubblicistica che informa la previsione – di cui più oltre meglio si dirà – deve al proposito affermarsi che, ai sensi dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, per “pareti finestrate” devono intendersi non soltanto le pareti munite di “vedute” ma, più in generale, tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo. Del resto, contrariamente a quanto opinano i ricorrenti, dette aperture – addirittura finalizzate a consentire l’ingresso nell’edificio proprio da quel lato - non possono in alcun modo ritenersi quali mere “luci” le quali, secondo un orientamento della giurisprudenza civile che dà invece rilievo alla possibilità dell’affaccio, non sarebbero di per sé idonee a far ritenere la parete come “finestrata” (cfr. Cass. civ., Sez. 2, sent. n. 26383 del 20/12/2016, Rv. 642167; Cass. civ., Sez. 2, sent. n. 6604 del 30/04/2012, Rv. 622397). Essendo indiscutibile che le porte che si aprono su ballatoi consentono l’affaccio, neanche questo meno rigoroso orientamento interpretativo giova agli imputati, sicché la ritenuta sussistenza del delitto di cui all’art. 479 cod. pen. – per il resto non specificamente contestata, se non per il profilo, parimenti infondato, di cui si dirà più oltre sub §. 6.1. – non può essere censurata.

4. Parzialmente fondate sono invece le doglianze concernenti gli ulteriori profili di contestata illegittimità dei permessi di costruire – e di quello in variante in particolare – afferenti al mancato rispetto delle distanze tra il fabbricato di cui si discute ed i due al medesimo preesistenti, ciò che rileva ai fini del giudizio sulla sussistenza del delitto di abuso di ufficio e sulle conseguenti statuizioni in favore delle parti civili costituite ed in ordine alla conseguente confisca.
4.1. Il Collegio reputa in primo luogo fondate le doglianze proposte dai ricorrenti con riguardo al fatto che la distanza minima di dieci metri tra pareti dei fabbricati almeno una delle quali sia finestrata, a cui fa riferimento l’art. 9, primo comma, n. 2), d.m. 1444/1968, doveva nella specie essere computata «tra pareti», senza tenere conto degli aggetti che non creano volumi e che altrimenti non incidono sulla salubrità ed igiene pubblica.
4.1.1. La giurisprudenza amministrativa ha infatti al proposito condivisibilmente chiarito che «in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici…detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. n. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 5 gennaio 2015, nr. 11; id., sez. IV, 22 novembre 2013, nr. 5557; id., 7 luglio 2008, nr. 3381). Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche» (Cons. St., sez. IV, 3 novembre 2016, n. 5552).
La disciplina pianificatoria del comune di Giulianova – art. 1.3.3., comma 5, n.t.a. P.R.G. – contiene all’evidenza una normativa che si attaglia perfettamente alle indicazioni della giurisprudenza amministrativa, posto che, dettando norme sui “criteri di calcolo e di valutazione degli indici e dei parametri”, prevede che «le distanze si misurano a partire dal filo del fabbricato o, nel caso di volumi aggettanti (bow-windows o balconi chiusi), dalla proiezione orizzontale dei medesimi». Errata ed illogica, dunque, è la contraria valutazione contenuta a pag. 19 della sentenza impugnata, che – per quanto è dato arguire dalle osservazioni contenute nella pagina successiva – interpreta la citata disposizione pianificatoria, diversamente dal suo chiarissimo tenore letterale, come applicabile anche per gli aggetti che non costituiscono volumi (come, nella specie, i ballatoi aperti) sul presupposto, non condivisibile e smentito dalla maggioritaria e più recente giurisprudenza amministrativa citata, che si tratti dell’unica interpretazione compatibile con l’art. 9 d.m. 1444/1968.
Piuttosto, per quanto detto ed in conformità alla ratio della previsione, per affermare la violazione dell’art. 9, comma 1, d.m. 1444/1968 sarebbe stato necessario accertare se gli aggetti, pur non determinando volumi, creino intercapedini suscettibili d’incidere sulla salubrità o igiene pubblica, ciò che tuttavia i giudici di merito nel caso di specie non hanno fatto.
4.1.2. Alla luce della chiara disciplina sopra ricostruita appare peraltro irrilevante il riferimento – valorizzato invece dalla sentenza impugnata – alle norme civilistiche sulle vedute, che riguardano profili differenti da quelli, di salubrità ed igiene pubblica, considerati dall’art. 9 d.m. 1444/1968. In mancanza di più restrittive discipline locali (nella specie non richiamate né in sentenza, né dalle parti), le vedute sono soggette alle regole stabilite dal codice civile, che fissano distanze ben più contenute di quelle previste dal citato art. 9 e nella specie certamente rispettate. Anche al proposito, dunque, la sentenza impugnata non può essere condivisa e l’interpretazione finalistica della norma qui affermata è in linea con la preferibile giurisprudenza civilistica di questa Corte, che ha nitidamente posto in luce come l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 detti  disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute (Cass. civ. Sez. 2, sent. n. 5017 del 02/03/2018, Rv. 647646).
4.2. La sentenza merita inoltre censura nella parte in cui – senza motivazione e senza rispondere ai motivi di gravame pure in essa riepilogati, quali sul punto proposti nei due appelli depositati nell’interesse dell’imputato  Gavioli – ha confermato l’altro profilo d’illegittimità dei permessi di costruire nella specie contestato ed in primo grado ritenuto con riguardo alla violazione delle distanze tra il fabbricato in costruzione e i due adiacenti edifici Condominio Tritone e Palazzo Kursaal in relazione all’altezza dei medesimi. Ci si riferisce (pag. 17) alla previsione contenuta nell’art. 1.6.4 N.T.A., nel testo vigente all’epoca del rilascio dei permessi di costruire (originario e in variante), che prevedeva comunque l’osservanza di una distanza dagli stessi calcolata in base all’altezza dei fabbricati. Dalla scarna motivazione della sentenza non si capisce neppure quale delle ipotesi – se, in particolare, quella di cui al secondo comma della citata disposizione, invece chiaramente ritenuta nella sentenza di primo grado (pagg. 21 s.) – sia stata applicata e perché la stessa sia stata ritenuta operante anche nella zona B2 del piano regolatore, ove si trovano gli edifici in questione, piuttosto che soltanto nella zona di espansione C, come invece sostenuto dall’appellante Gavioli e da entrambi i ricorrenti in questa sede.
E’ mancata, in particolare, l’analisi della questione relativa al se la citata disposizione di cui all’art. 1.6.4. N.T.A. fosse o meno da ritenersi dettata in attuazione dell’art. 9, comma 3, d.m. n. 1444/1968 e – in caso affermativo - se quest’ultima dovesse (o potesse) essere interpretata, già all’epoca del rilascio dei permessi di costruire fatti oggetto di contestazione, come applicabile soltanto nelle zone C, sì che la conforme modifica della disciplina urbanistica comunale intervenuta nel 2013 avesse una portata meramente “interpretativa”. Sul punto, peraltro, successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata – trattandosi di diposizione inserita dalla legge di conversione – è intervenuta una modifica di cui si dovrà nel giudizio di rinvio tenersi conto quale ius superveniens. Il legislatore nazionale, infatti, con l’art. 5, comma 1, lett.b-bis), d.l. 18 aprile 2019, n. 32 (c.d. “sbocca cantieri”), conv., con modiff., dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, ha previsto che «le disposizioni di cui all’art. 9, commi secondo e terzo, del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, si interpretano nel senso  che  i  limiti  di  distanza  tra  i fabbricati ivi previsti si considerano riferiti  esclusivamente  alle zone di cui al primo comma, numero 3), dello stesso articolo 9», vale a dire alle zone di espansione C. Premesso che – contrariamente a quanto opina il ricorrente Olivieri – la citata disposizione non si riferisce alla distanza tra fabbricati di cui al primo comma dell’art. 9 d.m. 1444/1968 di cui più sopra si è detto, il Collegio condivide l’orientamento della giurisprudenza civile di questa Corte giusta il quale, trattandosi di norma interpretativa, la stessa deve trovare applicazione ex tunc. Si è infatti condivisibilmente affermato che il citato art. 5, comma 1, lett. b-bis), d.l. n. 32 del 2019 integra, alla stregua del senso letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore e di una lettura logico-sistematica della disciplina, gli estremi di una norma di interpretazione autentica che attribuisce alla stessa uno dei possibili significati consentiti dalla formulazione testuale e recepito da larga parte della giurisprudenza amministrativa, sicché la stessa è stata appunto ritenuta applicabile ai rapporti in corso, non già quale disciplina normativa favorevole sopravvenuta, ma perché corrispondente alla regolamentazione applicabile "ab origine" al rapporto, fermo restando il solo limite delle situazioni consolidate per essersi lo stesso definitivamente esaurito (così, Sez. 2 civ., ord. n. 7027 del 12/03/2021, Rv. 660749).

5. La parziale fondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata sul piano della ritenuta sussistenza degli oggettivi profili d’illegittimità del permesso di costruire in variante ha inevitabili ricadute sulla valutazione della sussistenza, in capo ad entrambi gli imputati, dell’elemento soggettivo del delitto di abuso d’ufficio sicché – per le ragioni di seguito indicate, assorbenti rispetto agli ulteriori rilievi svolti dai ricorrenti – risultano fondate anche le doglianze al proposito proposte nel secondo motivo del ricorso di Roberto Olivieri e nel quinto motivo del ricorso di Dino Gavioli e pure sul punto s’impone la rinnovazione del giudizio.
E’ la stessa sentenza impugnata, infatti (pagg. 23 ss.), che ravvisa la sussistenza del dolo – anche intenzionale, quanto al delitto di cui all’art. 323 cod. pen. – valorizzando la reiterazione e gravità delle violazioni che rivelerebbero la macroscopica illegittimità degli atti amministrativi adottati. Per quanto sopra osservato, tuttavia, allo stato può dirsi unicamente accertata la violazione della distanza del fabbricato dal fronte strada, mentre le contestate violazioni circa la distanza dai limitrofi edifici debbono essere oggetto di nuova valutazione nei termini più sopra indicati.
Sul piano dell’elemento soggettivo, poi, alla luce della documentazione prodotta dal ricorrente Gavioli circa l’esito favorevole del ricorso presentato dalla Gavioli Arte e Restauri S.r.l. al Consiglio di Stato avverso la sentenza con cui il T.A.R. dell’Abruzzo, in accoglimento del ricorso proposto dai condomini del Tritone, aveva annullato l’ordinanza comunale con cui si ingiungeva la demolizione di parti di quel fabbricato ritenute abusivamente realizzate rispetto alla licenza edilizia, si dovrà rivalutare la questione per verificare se, alla luce di tale elemento nuovo, possa ancora affermarsi, a sostegno del ravvisato dolo, che “Olivieri Roberto ha adottato un provvedimento favorevole a Gavioli Dino, poi annullato dal giudice amministrativo” (la questione, inoltre, potrebbe rilevare anche sul piano dell’elemento oggettivo, con riguardo alla contestata violazione dell’art. 6.4.1. N.T.A. nella parte in cui prevede che il rispetto delle distanze si riferisca ad edifici regolarmente costruiti, dovendosi peraltro al proposito considerare anche le argomentazioni svolte nella memoria di replica depositata dalla parte civile Giselda Silveri).

6. Le ulteriori doglianze svolte nei ricorsi sono in parte infondate e in parte inammissibili.
6.1. In particolare, il terzo motivo del ricorso proposto da Roberto Olivieri è infondato nella parte in cui si lamenta che il parere istruttorio che avrebbe integrato il reato di falso, in quanto finalizzato al rilascio di un provvedimento che costituisce mera autorizzazione amministrativa e comunque non vincolante, non poteva costituire atto pubblico ed essere dunque ricondotto alla contestata fattispecie incriminatrice.
Va al proposito in primo luogo osservato che, secondo un consolidato orientamento interpretativo di questa Corte, ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, costituiscono atti pubblici non solo quelli destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti cosiddetti interni, cioè, sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un complesso iter - conforme o meno allo schema tipico - ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi (Sez. 5, n. 38455 del 10/05/2019, Carta, Rv. 277092; Sez. 5, n. 4322 del 06/11/2012, dep. 2013, Camera, Rv. 254388; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e a., Rv. 249858). Né rileva il fatto che il provvedimento finale sia qualificabile – come nella specie – quale autorizzazione amministrativa la cui falsità ideologica sarebbe riconducibile al meno grave reato di cui all’art. 480 cod. pen., non potendo essere ricondotto a tale ultima fattispecie l’atto pubblico ideologicamente falso adottato nel corso del procedimento (per un’applicazione relativa ad atto propedeutico al rilascio del permesso di soggiorno, v. Sez. 5, n. 11914 del 15/11/2019, dep. 2020, Bardini, Rv. 278955).
6.2. Inammissibile, poi, è la doglianza contenuta nel secondo motivo del ricorso proposto da Roberto Olivieri circa l’assorbimento del reato di abuso di ufficio al medesimo contestato in quello di falso ideologico. Dal riepilogo dei motivi d’appello contenuto nella sentenza impugnata non risulta che l’appellante Oliveri avesse dedotto tale questione, sicché vale il principio giusta il quale, a norma dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca una violazione di legge verificatasi in primo grado se non si procede alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di gravame, contenuto nel provvedimento impugnato, che non menzioni la medesima violazione come doglianza già proposta in sede di impugnazione di merito, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione, e quindi tardivo (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Ciccarelli e a., Rv. 270627; Sez. 2, n. 9028/2014 del 05/11/2013, Carrieri, Rv. 259066).
In ogni caso la doglianza è anche manifestamente infondata, poiché in tema di rapporti tra abuso d'ufficio e falso in atto pubblico, sussiste concorso materiale, e non assorbimento dell'abuso d'ufficio nel più grave reato di falso, qualora la condotta di abuso non si esaurisca nel compimento dell'atto falso, essendo quest'ultimo strumentale alla realizzazione del reato di cui all'art. 323 cod. pen., costituendo una parte della più ampia condotta di abuso (Sez. 6, n. 3515 del 18/12/2019, dep. 2020, Pinto Vraca, Rv. 278324; Sez. 5, n. 45992 del 07/07/2017, Jelen, Rv. 271073). La sentenza impugnata (pagg. 23 ss.) attesta come il parere di regolarità tecnica ritenuto ideologicamente falso fosse uno soltanto degli elementi che consentivano di considerare la complessiva condotta tenuta dal pubblico ufficiale Oliveri come univocamente e costantemente diretta a favorire la società di Dino Gavioli era legale rappresentante.
6.3. Quanto al delitto di cui all’art. 323 cod. pen., è infondato il secondo motivo aggiunto proposto con la memoria di cui si è detto dal ricorrente Gavioli.
E ben vero che in tema di abuso d'ufficio, la modifica introdotta con l'art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 ha ristretto l'ambito applicativo dell'art. 323 cod. pen., determinando una parziale "abolitio criminis" in relazione alle condotte commesse prima dell'entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che lascino residuare margini di discrezionalità (Sez.  6, n. 442 del 09/12/2020, dep. 2021, Garau, Rv. 280296).
Tuttavia, proprio con riguardo all’adozione di un permesso di costruire, questa Corte ha ripetutamente osservato – e il principio va qui ribadito – che, in tema di abuso di ufficio, il rilascio del titolo  abilitativo edilizio avvenuto senza il rispetto del piano regolatore generale o degli altri strumenti urbanistici integra la violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge, così come richiesto dalla nuova formulazione dell'art. 323 cod. pen. ad opera dell'art. 16 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella legge 11 settembre 2020, n. 120, atteso che l'art.12, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 prescrive espressamente che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi agli strumenti urbanistici ed il successivo art. 13 detta la specifica disciplina urbanistica che il direttore del settore è tenuto ad osservare (Sez.  6, n. 31873 del 17/09/2020, Pieri, Rv. 279889; Sez. 3, n. 26834 del 08/09/2020, Barletta, Rv. 280266).

7. Per quanto appena detto in relazione alle modifiche normative intervenute in tema di delitto di abuso d’ufficio e per quanto sopra osservato sull’accertata sussistenza di almeno uno dei profili di illegittimità degli atti amministrativi e sulla necessità di rivalutare gli altri, per tale reato non vi è evidenza della sussistenza di una formula di proscioglimento di merito più favorevole.
Essendo i residui delitti medio tempore estintisi per prescrizione (il 27 novembre 2019, computandosi anche le sospensioni del corso della prescrizione verificatesi in corso di processo) e dovendosi per entrambi ritenere validamente costituito il rapporto processuale per quanto più sopra osservato, in accoglimento delle conclusioni rassegnate sul punto dal Procuratore generale, ai fini penali la sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio per tale causa.
Va soltanto aggiunto che le medesime ragioni depongono nel senso della correttezza della già dichiarata prescrizione degli altri reati originariamente contestati, con conseguente infondatezza del quarto motivo del ricorso proposto dall’imputato Gavioli.

8. La sentenza deve pertanto essere annullata con rinvio alla competente Corte di appello di Perugia limitatamente alle statuizioni civili ed alla disposta confisca, dovendosi nel resto rigettare i ricorsi con riguardo alle questioni qui esaminate, restando le residue assorbite (ciò che vale anche per l’ultimo motivo del ricorso proposto da Roberto Olivieri).
Quanto alle statuizioni civili, in applicazione dei principi sopra esposti, si dovrà procedere a nuovo giudizio sulla sussistenza del delitto di abuso di ufficio rivalutandosi, sul piano oggettivo, i profili di illegittimità degli atti amministrativi concernenti la distanza del costruendo fabbricato dai due limitrofi, sia quanto al rispetto della distanza di dieci metri da calcolarsi da parete a parete salvo che gli aggetti determinino problemi di salubrità ed igiene (supra, sub  §. 4.1.1), sia quanto alla distanza da eventualmente computarsi in relazione all’altezza degli edifici (supra, sub  §. 4.2.) e tenendo poi conto di tali valutazioni anche ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato come più sopra specificato (supra, sub  §. 5).
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese sostenute dalle parti civili del presente giudizio.

9. Con riguardo alla disposta confisca dell’edificio, va in primo luogo precisato che, accogliendo l’eccezione al proposito sollevata dalla difesa del ricorrente Gavioli ed alla quale il Procuratore generale si è associato, all’udienza di discussione il Collegio ha invitato il difensore di parte civile avv. Lettieri a soprassedere al manifestato intento di concludere anche in relazione a tale statuizione.
La decisione processuale assunta poggia sul consolidato orientamento di questa Corte secondo cui non è consentito l'intervento della parte civile nel giudizio di cassazione avente per oggetto la confisca dei beni degli imputati (o di terzi estranei), trattandosi di questione che ha alcuna incidenza sugli interessi civili (Sez. 1, n. 51166 del 11/06/2018, Gatto, Rv. 274935; Sez. 5, n. 47876 del 12/11/2012, Adamo e aa., Rv. 254525).
9.1. Nel merito, reputa il Collegio che, diversamente da quanto argomentato dal ricorrente Gavioli, l’intervenuta declaratoria di prescrizione del delitto di abuso d’ufficio nel caso di specie non travolga la statuizione sulla confisca per i motivi di seguito esposti, dovendosi peraltro ritenere assorbite le ulteriori doglianze sul punto dal medesimo proposte, essendo le stesse peraltro inammissibili per difetto d’interesse, posto che l’edificio confiscato appartiene a società nei cui confronti la sentenza non fa stato e che potrebbe far valere le proprie ragioni davanti al giudice dell’esecuzione, sia quanto al dedotto mancato rispetto del principio di proporzionalità, sia quanto al concreto esercizio del diritto di difesa (cfr. Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni,  Rv. 278870-04; Sez. 3, n. 372 del 09/10/2019, dep. 2020, Acampora, Rv. 278274;  Sez. 3, n. 17399 del 20/03/2019, Unicredit Leasing Spa, Rv. 278763). La pendenza di tali questioni – ovviamente – non preclude alla competente autorità amministrativa l’esercizio del potere-dovere, sancito dall’art. 27, comma 2, d.P.R. 380/2001, di provvedere alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi con riguardo a ravvisate difformità dalle norme urbanistiche e dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici, non potendo l’autorità giudiziaria penale disporre al proposito a seguito dell’intervenuta prescrizione dei reati originariamente contestati al capo A).
9.2. Come chiaramente attesta la sentenza impugnata (pagg. 31 s.) – essendo sul punto anche destituita di fondamento la censura svolta dal ricorrente – la confisca è stata adottata, ex art. 335 bis cod. pen., in relazione all’art. 240, primo comma, cod. pen., per sottrarre l’ingiusto profitto derivante dalla condotta illecita, essendosi richiamato il corretto e condivisibile principio giusta il quale l’ablazione, in quanto obbligatoria, opera anche nei confronti degli aventi diritto estranei al reato, che non possono trarre vantaggio dall'ingiusto profitto conseguente ad una condotta illecita, sempre che, come nella specie, sussista un nesso strutturale tra il bene da confiscare ed il reato (Sez. 4, n. 41890 del 22/06/2018, Palloro, Rv. 274365). Trattandosi, appunto, di confisca obbligatoria del profitto del reato, vale il principio – già affermato da questa Corte nella sua più autorevole composizione – secondo cui il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporla a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l'accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264434). Com’è noto, l’orientamento è stato poi sostanzialmente recepito dall’art. 578 bis  cod. proc. pen., che ne ha peraltro affermato l’applicabilità anche alla confisca per equivalente ex art. 322-ter cod. pen., in quanto tale forma di ablazione, pur avendo un prevalente carattere afflittivo e sanzionatorio, persegue anche l'esigenza di privare l'autore del reato di un valore equivalente a quanto illecitamente conseguito dalla commissione del reato, sicché non presuppone necessariamente una pronuncia di condanna (Sez.  6, n. 14041 del 09/01/2020, Malvaso, Rv. 279262, nella cui motivazione si precisa che, alla luce della sentenza della Corte EDU GIEM/Italia, le confische-sanzione, fondate su accertamenti sostanziali di responsabilità contenuti in una sentenza che dichiari la prescrizione, sono compatibili con l'art.7 della CEDU).
E’ stato del pari affermato che la richiamata norma processuale postula che la confisca possa essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato determinata dalla prescrizione, purché la sussistenza del fatto sia stata già accertata, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell'ambito di un giudizio che abbia assicurato il pieno contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati (Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870-01). Quando, come nella specie, la declaratoria di prescrizione del reato intervenga all'esito del giudizio di impugnazione, anche la Corte di cassazione è tenuta, in applicazione dell'art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere sull'impugnazione agli effetti della confisca (Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870-02) e laddove la sentenza impugnata sia affetta da vizio di motivazione in relazione a taluno degli elementi costitutivi del reato, la stessa va annullata con rinvio affinché sia colmato tale deficit argomentativo nel decidere (Sez. 3, n. 31182 del 16/09/2020, Galli, Rv. 280773).
Previo nuovo giudizio sui punti più sopra indicati, il giudice del rinvio valuterà quindi se sussistano o meno i presupposti che legittimano la disposta confisca dell’edificio.

P.Q.M.
 
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio per essere i reati estinti per prescrizione e con rinvio alla Corte di appello di Perugia limitatamente alla confisca ed alle statuizioni civili.
Rigetta i ricorsi  nel resto.
Così deciso l’8 aprile 2021.