La scorretta attività di “intermediazione” di rifiuti rileva anche fiscalmente.
di Alberto Pierobon

 

In via generale (sia detto: fuori da ogni ipocrisia), va detto che (si badi: talvolta, non sempre) gli intermediari nella gestione dei rifiuti sembrano anche svolgere:

  1. il ruolo di “copertura” per talune evenienze in cui possono incorrere gli impianti, per esempio laddove questi vengano chiusi (sequestrati, ecc.) e si voglia perdere la clientela ,oppure nel caso in cui questi impianti vogliano occultare e/o diversificare le tariffe praticate, passando per soggetti diversi (di qui, spesso, nel mercato lo iato tra le tariffe praticate direttamente da taluni impianti che superiori a quelle praticate, sempre per il conferimento dei rifiuti ai medesimi impianti, da intermediari);
  2. il ruolo di freno/acceleratore di costi/ricavi e quindi quale snodo tramite il soggetto intermediatore che crea/ diminuisce lo impatto fiscale della gestione complessiva (affondando costi, creandone altri, aumentando i passaggi, eccetera);
  3. il ruolo nella produzione “di nero”.

In tal senso, pare sintomatica la recente sentenza del Tribunale di Brescia (sezione del riesame) del 22 dicembre 2009, n. 1198/2009, la quale risulta assai interessante sotto vari profili. In buona sostanza la ipotesi di indagine sarebbe in relazione al delitto di cui all’art.416 c.p. in quanto alcuni soggetti (promotore, collaboratore, prestanome, ulteriore collaboratore) avrebbero costituito alcune società nel campo dello smaltimento dei rottami ferrosi finalizzata alla commissione di numerosi reati (fine) in materia di rifiuti e fiscale.
La novità risiede soprattutto in questo ultimo aspetto, dove alcune società commerciali (prive di autorizzazioni ambientali) acquisivano i rottami ferrosi (qualificabili per l’impostazione accusatoria come rifiuti e per quella difensiva come MPS) da produttori o detentori che poi vendevano ad industrie siderurgiche che “avrebbero poi riutilizzato all’interno dei propri processi produttivi (verosimilmente fondendolo e ricavando materia prima da riutilizzare per la realizzazione di manufatti)”.
Mentre la cessione del materiale dalle commerciali alle suddette industrie era “regolare”, il medesimo materiale veniva però dalle società commerciali annotato in contabilità come proveniente da privati, in quanto ciò consentiva il pagamento in nero, senza fattura ai produttori/detentori.
Come diretta consumazione dei reati ambientali si sarebbe verificata una integrazione penal-tributaria “sul presupposto della indeducibilità, all’atto della determinazione dei redditi, dei costi e delle spese «riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato» (ex art. 14, comma 4-bis, legge n. 537/1993) (1)”.
Per il Tribunale deve riconoscersi la qualifica di rifiuti ai materiali (rottami) ferrosi commerciati, evidenziato anche la circostanza che le ditte commerciali “non si siano semplicemente rese cessionarie (e poi cedenti) di rottami ferrosi, avendo invece commerciato in rottami di cui altri soggetti si erano “disfatti” avviandoli, anche secondo l’ormai inattuale definizione di cui all’art. 14 del d.l. 138/2002, ad operazioni di recupero. A simile considerazione si deve pervenire innanzitutto in forza di un ragionamento logico deduttivo; ed infatti se i materiali ferrosi di cui si tratta fossero già stati “pronti” per il loro immediato riutilizzo presso le ditte siderurgiche destinatarie finali […] ingiustificata sarebbe stata la loro cessione (con conseguente lievitazione del costo del rottame) dal produ ttore/detentore” alle commerciali. Peraltro il materiale sarebbe stato avviato “ad operazioni di recupero consistenti nella selezione, nella messa in riserva e stoccaggio, nel conferimento a sistemi di raccolta e trasporto […] e – previa consegna ad industrie siderurgiche – al riutilizzo in altro ciclo produttivo (esterno a quello proprio delle ditte produttrici del rottame ferroso) mediante la trasformazione dei rottami (ormai privati delle porzioni non riciclabili e ripuliti) in prodotti finiti ovvero in metalli o leghe nelle forme usualmente commercializzate”.
Solo altre determinate circostanze avrebbero consentito di uscire dalla qualificazione dei rottami ferrosi come rifiuti , per esempio:

  1. l’indicazione della provenienza del rottame;
  2. l’indicazione delle sue caratteristiche specifiche, o;
  3. degli eventuali trattamenti effettuati, ovvero;
  4. la rispondenza del materiale a determinate specifiche.

“L’assenza di queste circostanze (ovvero, presupposti di applicazione di un regime giuridico in deroga), o meglio, la mancata dimostrazione della loro sussistenza da parte di colui che – in quanto unico soggetto a detenere l’informazione – commercia in rottami ferrosi, impedisce di ritenere applicabile la “normativa” in deroga (e tale da consentire che il “commercio” di rottami ferrosi, a questo punto non più qualificabili come “rifiuti”, avvenga in assenza di autorizzazione amministrativa)” (2).
Il Collegio nota “come indice della sussistenza tra tutti gli indagati di un accordo criminale volto a costitutire e rendere operativa una struttura organizzata al fine della consumazione di numerosi e indeterminati reati in materia di rifiuti e fiscale milita la complessità della struttura organizzativa composta da svariate società che si sono succedute nel tempo […], l’esteso arco temporarle lungo il quale […] si è snodato il meccanismo escogitato dagli indagati, la ripetitività delle procedure operative (finalizzate, in ultima analisi, a consentire acquisti “In nero” di rifiuto ferroso, con corrispondente abbattimento dei costi), il fatto che tutti gli indagati fossero in qualche modo legati alle suddette società per le quali svolgevano attività lavorativa così da essere vicendevolmente vincolati gli uni agli altri”.
Nella parte “le esigenze cautelari” viene, tra altro, osservato come “non irrilevanti, al fine di valutare la gravità del fatto e con questo la capacità criminale degli indagati, sono infatti anche i profili di distorsione del mercato e di sleale concorrenza nei riguardi delle imprese “sane” parimenti operanti nel settore del commercio dei rottami metallici)”.

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(1) Il comma 4-bis dell’art. 14 della legge 537/1993 (comma introdotto con legge finanziaria per l’anno 2003) prevede che “nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”.
(2 In proposito il  Consiglio cita le sentenze della C.G.C.E. nelle cause C-457/02 (riunita alla causa C-418/97) e C-419/97 “nelle quali si è sottolineata la necessità di estendere fino alla massima portata l’ambito di applicazione della normativa in materia di rifiuti. Quanto al Supremo Collegio e, in particolare, in tema di configurabilità della normativa sulle materie prime secondarie (e dei sottoprodotti) quale complesso di regole integrante un regime derogatorio (regime eccettuato») rispetto alle regole dettate in materia di rifiuti ed inoltre in tema di onere della prova circa la sussistenza dei presupposti di applicazione del detto regime in deroga, significativo è quanto complessivamente argomentato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 41836/2008” , la cui massima viene riportata in nota come segue “In materia di gestione dei rifiuti, ai fini della qualificazione come sottoprodotti di sostanze e materiali, incombe sull’interessato, anche successivamente alla modifica dell’art. 183, comma 1, lett. p), d.lgs. n. 152 del 2006 ad opera del d.lgs. n.4 del 2008; l’onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo”. Il Collegio continua evidenziando “come l’attribuire all’indagato/imputato l’onere di dimostrare la sussistenza di certi requisiti/presupposti legittimanti l’applicazione di un determinato regime giuridico non implichi affatto un inammissibile inversione dell’onere probatorio in materia penale; e infatti la Corte di Cassazione, affrontando un caso s imilare a quello per cui oggi si procede ha avuto modo di chiarire che poiché «la norma [art. 186, d.lgs. 152/2006] costituisce direttamente una deroga alla nozione di rifiuto definita dall’art.183, lett. a), e indirettamente configura una causa di esclusione della punibilità dei reati che hanno come oggetto o come presupposto i rifiuti (v. rispettivamente da una parte gli artt. 256, 259 e 260, e dall’altra art. 258, comma 4), grava sull’imputato l’onere di provare le condizioni positive per l’applicabilità della deroga (riutilizzazione delle terre e rocce da scavo secondo progetto ambientalmente compatibile), mentre resta compito del pubblico ministero la prova della circostanza di esclusione della deroga (concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti)» [Cass. pen. 37280/2008]”.