La normativa sui rifiuti: analisi dei profili interpretativi più controversi. I concetti di rifiuto e sottoprodotto.
di Pasquale FIMIANI
Relazione tenuta all\' Incontro di studi del CSM sul tema: “ I crimini ambientali ” Roma, 2 luglio 2008

 

1. Il rifiuto ed il riutilizzo di un bene in un ciclo di produzione o di consumo dopo l’entrata in vigore del Decreto Ronchi.

 

L’art. 183, lett. a), del T.U. definisce il rifiuto come “ qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell\'allegato A alla parte quarta e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l\'obbligo di disfarsi”.

La definizione riproduce fedelmente quella di matrice comunitaria vigente all’epoca di entrata in vigore del T.U. (art. 1 lett a) della Dir. 75/442/CEE del 15 luglio 1975) e sostanzialmente confermata dalla direttiva 2006/12/Ce del 5 aprile 2006 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti, entrata in vigore il 17 maggio 2006 e che sostituisce ed abroga la Dir. 75/442/CEE). E’ vero che quest’ultima, all’art. 1, definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell\'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l\'intenzione o l\'obbligo di disfarsi”, ma, nonostante alcuni ritengano la direttiva fonte di possibili ulteriori contrasti tra norma nazionale e comunitaria[1], la sostituzione dell’inciso “abbia deciso” con “abbia l’intenzione”, non sembra recare sostanziali modifiche alla precedente definizione, atteso che l\'accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto, deve comunque essere fatto in base ad un criterio oggettivo [2] e “ non può farsi dipendere dall’intima, insondabile volontà del soggetto di riutilizzare o meno il materiale, ma è necessario che la destinazione alla riutilizzazione emerga da elementi oggettivi [3]”.

Viene peraltro escluso che si sia in presenza di un rifiuto quando il distacco del bene dal proprietario/detentore avvenga a causa di fenomeni naturali[4].

La questione se un bene sia o meno rifiuto, nell’ipotesi di riutilizzo dei materiali risultanti da un’attività di produzione o di consumo, ha costituito e costituisce uno dei punti più dibattuti della materia ambientale.

Fin dall’entrata in vigore del Decreto Ronchi, la Corte di Giustizia [5], aveva affermato che la nozione di rifiuto non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, ritenendo che “ il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva 75/442[6] deve attivarsi nel senso di addivenire alla prevenzione dei rischi per l’ambiente derivanti da qualunque sostanza pericolosa che ecceda dal ciclo produttivo e diversa da sostanze prime secondarie, senza esclusione per quegli oggetti suscettibili di utilizzazione economica, e neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini e mercuriali, pubblici o privati. In particolare, il processo di inertizzazione dei rifiuti, finalizzato alla loro semplice innocuizzazione, l’attività di discarica dei rifiuti in depressione costituiscono operazioni di smaltimento o di recupero che rientrano nella sfera d’applicazione delle precitate norme comunitarie”. Né assume rilevanza “ il fatto che una sostanza sia classificata e la sua destinazione sia precisata”[7].

Veniva evidenziata [8] la necessità di definire prioritariamente il concetto di disfarsi, con la precisazione che il mero fatto che una sostanza fosse inserita, direttamente o indirettamente in un processo di produzione, non la esclude dalla nozione di rifiuto[9], affermazione però subito temperata da quella per cui " tale conclusione non pregiudica la distinzione, che occorre effettuare, tra il ricupero dei rifiuti ……….e il normale trattamento industriale di prodotti che non costituiscono rifiuti, a prescindere peraltro dalla difficoltà di siffatta distinzione".

Inoltre, sia pure in modo sintetico[10], si affermava che il concetto di disfarsi si collega alle nozioni di smaltimento e di recupero di una sostanza o di un oggetto[11]. Il rischio era quindi quello di innescare un irreversibile circolo vizioso: si può parlare di smaltimento o recupero se si è in presenza di rifiuti, ma, per converso, la verifica della natura di una sostanza come rifiuto dipende dall\'esistenza di una operazione di smaltimento o di recupero.

Di qui l’ulteriore approfondimento del concetto di " disfarsi" da parte della Corte di Giustizia nella nota sentenza Arco del 2000 [12]:

” gli allegati II A e II B sono volti a ricapitolare le operazioni di smaltimento e di ricupero così come esse sono effettuate in pratica. Tuttavia dal fatto che nei detti allegati vengano descritti metodi di smaltimento o di ricupero dei rifiuti non consegue necessariamente che qualunque sostanza trattata con uno di tali metodi debba essere considerata un rifiuto. Infatti, benché le descrizioni di taluni dei metodi facciano riferimento esplicito a rifiuti, altre sono invece formulate in termini più astratti, potendo quindi essere applicate a materie prime che non sono rifiuti. Pertanto la categoria R 9 dell\'allegato II B, dal titolo “Utilizzazione principale come combustibile o altro mezzo per produrre energia”, può essere applicata alla nafta, al gas o al cherosene, mentre la categoria R 10, denominata “Spandimento sul suolo a beneficio dell\'agricoltura o dell\'ecologia”, può essere applicata ai fertilizzanti sintetici". Ed ancora che " il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto. Infatti la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non ha incidenza sulla natura di rifiuto definita, conformemente all\'art. 1, lett. a), della direttiva, con riferimento al fatto che il detentore dell\'oggetto o della sostanza se ne disfi o abbia deciso o abbia l\'obbligo di disfarsene".

In sostanza l\'esecuzione di un\'operazione di cui all\'allegato II B della direttiva non comportava automaticamente che la stessa equivalesse a disfarsi della sostanza cui l\'operazione si riferiva e, quindi, che questa si dovesse considerare come rifiuto. Veniva pertanto sottolineata la necessità di verificare l\'effettiva esistenza di un rifiuto alla luce del complesso delle circostanze del caso, tenendo conto della finalità della direttiva ed in modo da non pregiudicarne l\'efficacia. In particolare " in mancanza di disposizioni comunitarie specifiche relative alla prova dell\'esistenza di un rifiuto, spetta al giudice nazionale applicare le norme in materia del proprio ordinamento giuridico in modo da non pregiudicare la finalità e l\'efficacia della direttiva ".

Per compiere tale operazione – affermava la Corte di Giustizia - possono prendersi alcuni parametri di riferimento (da valere quali indizi e non come elementi da cui ricavare con certezza che una determinata sostanza ha natura di rifiuto):

-         il modo in cui un rifiuto viene comunemente considerato;

-         il fatto che un metodo di trattamento di una sostanza possa costituire una modalità corrente di recupero dei rifiuti[13];

-         il fatto che una determinata sostanza utilizzata come combustibile sia il residuo di un processo di produzione di un\'altra sostanza, che non sia ipotizzabile nessun altro uso di tale sostanza se non lo smaltimento, che la composizione della sostanza non sia idonea per l\'uso che ne viene fatto o tale uso debba avvenire in particolari condizioni di precauzione per l\'ambiente.

In ogni caso “l\'effettiva esistenza di un rifiuto ai sensi della direttiva va accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l\'efficacia[14]”.

La sentenza Palin Granit Oy del 2002 [15] sviluppava le considerazioni della sentenza Arco, con riferimento al riutilizzo, affermando (punti 32-36) che:

- per comune esperienza, un rifiuto è ciò che viene prodotto accidentalmente nel corso della lavorazione di un materiale o di un oggetto e che non è il risultato cui il processo di fabbricazione mira direttamente;

- risulta quindi evidente che detriti provenienti dall\'attività estrattiva, che non si configurano come produzione principale derivante dallo sfruttamento di una cava di granito, rientrano, in via di principio, nella categoria dei «[r]esidui provenienti dall\'estrazione e dalla preparazione delle materie prime» di cui al punto Q 11 dell\'allegato I della direttiva 75/442;

- in linea teorica non contrasta con le finalità della direttiva 75/442 che un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione, non è principalmente destinato a produrlo, può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l\'impresa non ha intenzione di «disfarsi» ai sensi dell\'art. 1, lett. a), comma 1, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari;

- tuttavia, tenuto conto dell\'obbligo (punto 23 sentenza Arco), di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione[16].

Parallelamente al percorso giurisprudenziale comunitario, la S.C., fin da prima del d.l. 8 luglio 2002, n. 138 sulla interpretazione autentica della definizione di "rifiuto" (infra), si era prevalentemente mostrata a favore dell’esclusione dalla disciplina dei rifiuti nell\' ipotesi di riutilizzo di un bene nello stesso ciclo produttivo, nell\'originaria composizione e consistenza [17]. Al contrario aveva generalmente affermato la natura di rifiuto nei casi di bene o sostanza oggetto di un’attività di trattamento funzionale alla successiva commercializzazione e/o riutilizzo in cicli diversi[18].

 

2. L’art. 14 del d.l. 8 luglio 2002, n. 138 sulla interpretazione autentica della definizione di "rifiuto". La successiva evoluzione giurisprudenziale.

 

Il legislatore cercò di rispondere alle difficoltà di individuare i confini della nozione di rifiuto con l’art. 14 del d.l. 8 luglio 2002, n. 138 [19] poi abrogato dall\'art. 264, comma 1 lett. l), del T.U.[20].

Per la verità, la norma ebbe un impatto negativo sia in dottrina [21], che nella giurisprudenza. In particolare la seconda, preso progressivamente atto della novità normativa [22], pur concorde nel ritenerla in contrasto con la disciplina comunitaria[23], non trovò un punto di incontro sulla efficacia della nuova definizione.

In una prima prospettiva si affermava [24] che “ ……la nuova definizione di rifiuto contenuta nell\'art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002 n. 138, convertito con legge 8 agosto 2002 n. 178, quale interpretazione autentica della nozione dettata dall\'art. 6 lett. a) del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, pur modificando la nozione di rifiuto dettata dall\'art. 1 della Direttiva 91/156/CEE, é vincolante per il giudice nazionale, atteso che la citata direttiva non é autoapplicativa (cd self executing) e non potendosi in tal caso fare ricorso all\'art. 234 del Trattato dell\'Unione Europea, onde richiedere alla Corte di Giustizia una interpretazione pregiudiziale, che può solo riferirsi al Trattato o agli atti delle istituzioni della Comunità e non agli atti del legislatore nazionale”.

Sotto altro profilo osservava [25] che “ deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi, o abbia deciso o abbia l\'obbligo di disfarsi, senza che assuma rilievo la circostanza che ciò avvenga attraverso lo smaltimento del prodotto o tramite il suo recupero. E ciò sia per l\'interpretazione della nozione legislativa nazionale, di cui al decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, sia per le affermazioni della Corte di Giustizia della Comunità Europea, le cui decisioni sono immediatamente e direttamente applicabili in ambito nazionale, secondo cui la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, atteso che la protezione della salute umana e dell\'ambiente verrebbe ad essere compromessa qualora l\'applicazione delle direttive comunitarie in materia fosse fatta dipendere dall\'intenzione del detentore di escludere o meno una riutilizzazione economica da parte di altri delle sostanza o degli oggetti di cui ci si disfa (o si sia deciso o si abbia l\'obbligo di disfarsi)”. In sostanza “ al fine di delineare la nozione di rifiuto sussiste la necessità dell\'applicazione immediata, diretta e prevalente, nell\'ordinamento nazionale dei principi fissati dai Regolamenti comunitari e dalle sentenze della Corte europea di giustizia, atteso che le decisioni della Corte di Giustizia, allorchè l\'esegesi del diritto comunitario sia incontrovertibile e la normativa nazionale ne appaia in contrasto, sono immediatamente e direttamente applicabili in sede nazionale sussistendo l\'obbligo di non applicazione delle disposizioni nazionali in contrasto con quelle comunitarie provenienti da tali fonti[26].

In tale contesto interveniva la sentenza Niselli del 2004[27], che sulla questione pregiudiziale sollevata dal giudice nazionale [28] affermò: “la nozione di rifiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350, non dev\'essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l’insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B di tale direttiva”[29].

A seguito della sentenza Niselli [30], si pose la questione della sua efficacia nell’ordinamento interno[31].

La S.C. pervenne a tre distinte soluzioni:

- efficacia meramente endo-procedimentale, nel senso la sentenza che vincola solo il Giudice al caso concreto oggetto del giudizio, ma non comporta l’automatico annullamento di una legge dello Stato italiano[32];

- necessità di interpretazione comunitariamente” orientata della nozione di rifiuto, con disapplicazione (meglio non applicazione) della norma nazionale in contrasto[33];

- natura vincolante per il Giudice della norma definitoria e rimozione dall’ordinamento solo attraverso il ricorso alla Corte Costituzionale.

In questa terza opzione, premesso che l’art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito con legge 8 agosto 2002 n. 178, sottraendo alla qualifica di rifiuto i residui di produzione o di consumo, sulla base di una attuale o potenziale riutilizzazione, opera una controqualificazione rispetto alla definizione di rifiuto stabilita dalle disposizioni comunitarie, si affermava che la norma aveva natura vincolante per il Giudice, il quale non poteva disapplicarla, atteso che le direttive in materia di rifiuti non sono self executing, avendo necessità di essere (fedelmente) recepite dagli ordinamenti nazionali per diventare efficaci verso questi ultimi, con la conseguenza che l’unica strada per il Giudice stesso era quella di sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna configgente. Tale norma infatti si poneva in contrasto: a) con l’art. 11 Cost. laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea; b) nonché, ancor più esplicitamente con il novellato art. 117 Cost. che, nel suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento [34].

Riguardo alla previsione nel regolamento comunitario n. 259/1993 si affermava che detto provvedimento “ recepisce la nozione di rifiuto solo ai fini della ristretta materia disciplinata dal regolamento, ovverosia limitatamente alla spedizione di rifiuti ... e la [nozione] stessa non è direttamente applicabile per tutte le altre materie. Non può quindi parlarsi di una novazione della fonte del diritto comunitario  (da direttiva a regolamento) in senso generale e illimitato”. A conferma di tale assunto si richiamava Corte di Giustizia, Sez. VI sent. 25 giugno 1997, che aveva  limitato la nozione regolamentare alle spedizioni di rifiuti all’interno della Comunità e si sottolineava come l’argomento non fosse stato affatto ripreso dalla stessa  sentenza 11 novembre 2004, che aveva focalizzato il suo intervento solo sulla direttiva 75/442, come sostituita dalla  direttiva 91/156.

Per quanto riguarda il secondo argomento a sostegno della disapplicazione, fondato sulla esegesi della nozione di rifiuto contenuta nelle decisioni della Corte di Giustizia e contrastante in modo incontrovertibile con la normativa nazionale interpretativa, si affermava che “la pronuncia della Corte che precisa od integra il significato di una norma comunitaria ha la stessa efficacia di quest’ultima, sicchè la pronuncia è direttamente ed immediatamente efficace se ed in quanto lo sia anche la norma interpretata. Si richiamava sul punto Corte cost., sent. n. 389 del 1989: “ Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente "effetti diretti" - vale a dire a una norma dalla quale i soggetti operanti all\'interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio - non v\'è dubbio che la precisazione o l\'integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate”.

Si aggiungeva, poi, che la diretta applicazione della definizione comunitaria di rifiuto, trovava un ostacolo nel principio consolidato per cui “una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati”[35].

 

 

Questo argomento appare decisivo, essendo indubbio che l’applicazione automatica della nozione comunitaria di rifiuto a situazioni diversamente disciplinate dalla norma interpretativa, avrebbe avuto l’effetto di aggravare l’area della responsabilità penale di chi, operando secondo la più ristretta nozione prevista dal diritto interno, non sarebbe stato penalmente responsabile per le attività rientranti nell’ambito dell’art. 14 cit. Né può sostenersi che l’applicazione diretta della nozione comunitaria di rifiuto potesse farsi sulla base di una applicazione generalizzata della sentenza Niselli, atteso che “le decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità europee sono vincolanti solo in ordine alla controversia per la cui risoluzione il giudice nazionale ha ravvisato l\'opportunità (o la necessita) di deferire alla detta corte la risoluzione di questione pregiudiziale relativa all\'interpretazione di norma comunitaria. Per quanto attiene, invece, a diverse controversie il giudice, rispettivamente competente, può promuovere nuovamente l\'interpretazione della norma comunitaria con riferimento ai temi della specifica controversia della cui decisione e investita[36]”.

In sostanza:

-         il giudice nazionale, in caso di conflitto tra norma comunitaria e norma interna, in forza del principio di prevalenza del diritto comunitario, deve disapplicare (rectius non applicare) la norma interna, ma solo quando la norma comunitaria si sostituisce automaticamente alla norma interna;

-         quando invece la norma comunitaria non è direttamente efficace perché è condizionata all’emanazione di un provvedimento formale da parte dello Stato membro e questo Stato abbia a emanato una norma configgente con quella comunitaria, il giudice italiano non ha altra strada che quella di sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna configgente.

In effetti diversi Giudici di merito e la stessa S.C. [37] ritennero non manifestamente infondata  e rilevante la questione di legittimità costituzionale dell\'art. 14 del d.l. n. 8 luglio 2002 n. 138, per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., essendo incontestabile, perché riconosciuto da giurisprudenza e dottrina pressoché unanimi, che la norma modifica in senso restrittivo la nozione di rifiuto di cui all’articolo 6 d.lgs. n. 22/1997 ed è incompatibile con la nozione di rifiuto stabilita dalla normativa comunitaria[38].

 

 

3. Il sottoprodotto nel T.U. del 2006

 

3.1. La prima versione del T.U. La risposta della Cassazione.

 

In questo quadro intervenne il T.U. che, abrogando (art. 264, lett. l) l’art. 14 cit. ed introducendo all’art. 183, lett. n) [39] il concetto di sottoprodotto, modificò i termini di riferimento del dibattito (nel rapporto tra la vecchia e la nuova disciplina si è affermato che rispetto alla definizione di sottoprodotto, l\'art. 14 cit., è norma più favorevole per l\'imputato, con la conseguente applicabilità di quest\'ultima ai sensi dell\'art. 2, comma 3, c.p.[40]). Ed infatti la Corte costituzionale restituì gli atti ai Giudici che  avevano sollevato la questione, perché la riesaminassero alla luce del nuovo quadro normativo nel frattempo sopravvenuto[41].

La questione dell’inquadramento sistematico del riutilizzo all’interno del binomio rifiuto-non rifiuto [42] è passata, quindi, attraverso la verifica se si possa qualificare una sostanza come sottoprodotto, concetto già presente nelle decisioni della S.C. [43] e della Corte di Giustizia nelle sentenze Arco del 2000, Palin Granit Oy del 2002 e Niselli del 2004, peraltro circoscritto al riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso dello stesso processo di produzione[44]. In verità, al momento della “codificazione” del sottoprodotto, si erano registrate  alcune aperture della stessa Corte di Giustizia, a favore della sua compatibilità con la commercializzazione presso terzi e su queste decisioni si fondava una parte della dottrina nello spingere per il superamento dell’affermazione secondo cui il concetto di sottoprodotto era da limitare al solo  riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima nel corso dello stesso processo di produzione [45].

Tuttavia la giurisprudenza della S.C., sia prima [46], che dopo l’entrata in vigore del T.U., non ha aperto al sottoprodotto nel caso di riutilizzo in cicli produttivi diversi da quello di produzione, affermando, anzi, che la definizione normativa di sottoprodotto era in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto, sottraendo alla disciplina sui rifiuti il sottoprodotto riutilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello di origine [47].

All’esclusione del sottoprodotto, peraltro, si è pervenuto anche per altra via, e cioè attraverso l’applicazione rigorosa del principio di interpretazione non estensiva della nozione di rifiuto, e la valorizzazione della regola per cui l’onere di provare la sussistenza delle condizioni perché sussista il regime differenziato, incombe su chi invoca l’applicazione dello stesso[48]; nella stessa prospettiva, si affermava che spetta a chi sostiene di gestire un sottoprodotto provare la sussistenza dell’elemento della non nocività dell’utilizzo dello stesso per l’ambiente [49].

In applicazione di tali parametri, è stata esclusa la natura di “sottoprodotto” nelle seguenti ipotesi:

-         residui della produzione industriale che siano fin dall’origine classificati da chi li produce come rifiuti, in quanto ciò esprime quella volontà di dismissione che la lett. a) dell\' art. 183, comma l, d.lgs. n. 152 del 2006 considera elemento necessario e sufficiente perché possa parlarsi di rifiuto[50];

-         fanghi provenienti dalla lavorazione di materiali lapidei allorquando manchi la certezza del requisito del riutilizzo del materiale che non può essere dimostrata dalle sole dichiarazioni testimoniali di dipendenti della società se non suffragate da riscontri oggettivi, quali l’annotazione nei registri di carico e scarico, la documentazione del trasporto presso i cantieri ove sarebbe avvenuto il riutilizzo ed in presenza di rilevi diretti della PG che documentino, in relazione all’altezza ed al grado di essiccazione dei cumuli una prolungata giacenza degli stessi sul luogo di deposito[51];

-         acquisizione e primo assemblaggio di scarti di legno e sughero da cedere ad altri in vista di successive trasformazioni che ne consentano l’utilizzo[52];

-         stessa attività per materiale residuato dall\'attività di distilleria[53];

-         attività di lavaggio di betoniere e successiva essiccazione naturale del conglomerato cementizio, che costituisce, quantomeno, operazione di “trattamento preventivo” recante un rilevante pregiudizio connesso al deflusso in corpi idrici delle residue acque inquinanti [54];

-         recupero di forni per la panificazione in disuso che, una volta smontati, vengano tenuti in deposito in un’area in vista del riutilizzo delle parti recuperabili [55];

-         nel caso in cui un soggetto abbia prima depositato nel cortile esterno adiacente al capannone della propria ditta cascami di fibre tessili e ovatta, resti di imballaggi e imballaggi leggeri in plastica e poi li abbia venduti a terzi che avevano dichiarato che tale materiale erano destinato a essere rivenduto “tal quale” ad allevatori di animali (che lo utilizzavano come lettiere), a produttori di filtri per l’olio e a produttori di compostaggio[56];

-         riutilizzo della sansa di oliva disoleata[57];

-         materiale proveniente da località estera dove, prima dell’esportazione, era stato sottoposto a procedimento di stabilizzazione e frantumazione[58].

 

 

3.2. Il decreto correttivo del 2008: gli elementi di continuità.

 

Con il decreto correttivo del 2008, il sottoprodotti sono definiti dall’art. 183 lett. p) del T.U..

La norma stabilisce che, per essere esclusi dalla disciplina sui rifiuti, i sottoprodotti devono soddisfare le seguenti condizioni [59]:

1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione;

2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito;

3) soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati;

4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione;

5) abbiano un valore economico di mercato.

Nessuna modifica si ha rispetto al passato per quanto concerne il fatto che il sottoprodotto:

-         viene definito quale concetto residuale rispetto a quello di rifiuto, nel senso che ricorre purchè di esso il produttore non si disfi od intenda disfarsi;

-         rappresenta il prodotto di un’attività d’impresa non direttamente destinato alla sua produzione, pur scaturendo in via continuativa dall’attività stessa.

Resta parimenti enunciato, il requisito della certezza e non eventualità dell’utilizzo del sottoprodotto. Nella versione originaria la norma richiedeva che l\'utilizzazione del sottoprodotto doveva “essere certa e non eventuale” e che “ al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell\'impianto dove avviene l\'effettivo utilizzo”.

La nuova versione non ripropone tale previsione.

Del resto, anche in precedenza, dichiarazioni scritte sulla gestione del sottoprodotto non potevano essere ritenute in sé sufficienti a provare l’effettività e certezza del riutilizzo, potendo al più fondare una presunzione dell’esistenza di tali condizioni, peraltro superabile dagli organi di controllo, per cui la richiesta dichiarazione scritta non rappresentava un elemento di sicuro affidamento per il rispetto dei requisiti richiesti dalla norma. Ciò non toglie che l’onere di provare il rispetto delle condizioni stesse, incombe su chi invoca il regime differenziato, per cui dichiarazioni scritte, o riscontri documentali in genere, se coerenti con i requisiti complessivi richiesti dalla norma, possono essere idonei a supportare il predetto onere probatorio e ne è, quindi, opportuna la formazione.

La norma, poi, individua il momento della produzione come quello in cui deve sussistere la certezza del riutilizzo. E’ solo questa, infatti, la fase in cui, a seconda del comportamento o delle intenzioni del produttore, si può stabilire se egli si disfi od abbia intenzione di disfarsi del bene (nel qual caso si è in presenza di un rifiuto), ovvero intenda conservarlo all’interno del circuito produttivo (nel qual caso, ricorrendo le altre condizioni, si è in presenza di un sottoprodotto); ed infatti, si è ritenuto erroneo il riferimento alla nozione di sottoprodotto nel caso di accumulo per un lasso di tempo particolarmente rilevante di materiali di risulta della  lavorazione [60].

Va peraltro precisato che altro è il momento in cui deve risultare la certezza del riutilizzo ed altro è quello in cui lo stesso si attua. In altri termini, non è richiesto che il riutilizzo avvenga, senza soluzione di continuità, subito dopo che la sostanza sia stata prodotta; quello che conta è che lo stesso sia programmato e suscettibile di prova fin dal momento della produzione [61].

 

3.3. Segue: i persistenti elementi di ambiguità. Il rapporto tra le definizioni di sottoprodotto del 2006 e del 2008: individuazione della norma più favorevole.

 

Più complessa, invece, è la verifica se sussistano elementi di discontinuità rispetto al passato, per quanto attiene all’ambito dell’impiego del sottoprodotto.

Nella versione originaria i sottoprodotti erano individuati nei materiali “impiegati direttamente dall\'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l\'impresa stessa direttamente per il consumo o per l\'impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest\'ultimo fine, per trasformazione preliminare s\'intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo”.

La S.C., come si è accennato, ha ritenuto tale definizione normativa in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto, in quanto sottraeva alla disciplina sui rifiuti il sottoprodotto riutilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello di origine [62].

Nella nuova versione si richiede che l’impiego (certo, sin dalla fase della produzione, ed integrale) “avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito”.

Anche se è stata eliminato il riferimento all’impiego direttamente nel consumo[63], la norma non indica se il ciclo nel quale il sottoporodotto può essere impiegato sia lo stesso nel quale viene prodotto. Non è infatti espressamente previsto che l’impiego del sottoprodotto avvenga nello stesso contesto aziendale da cui origina il sottoprodotto, in quanto l’articolo usato per le parole processo di produzione o di utilizzazione è indeterminativo. Un’interpretazione letterale, quindi, potrebbe portare alla conclusione che l’intenzione del legislatore del 2008 è stata quella di non riferirsi allo specifico processo di formazione del sottoprodotto stesso; coerentemente con tale soluzione si potrebbe poi ritenere che la mancata precisazione che l’utilizzo può avvenire solo nel medesimo ambito aziendale da cui origina il sottoprodotto, non esclude (ed anzi di regola presuppone, ove la stessa avvenga in un ciclo diverso) la sua commercializzazione.

Il tenore letterale della norma, in definitiva, non consente di superare i dubbi espressi dalla giurisprudenza sulla compatibilità della definizione di sottoprodotto con la nozione comunitaria di rifiuto, per il fatto che la stessa sottraeva alla disciplina sui rifiuti il sottoprodotto riutilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello di origine, atteso che, anche a seguito della modifica, tale eventualità non può escludersi (anche se l’inciso “nel corso del processo “ e non “di un processo”, lascia pensare che il legislatore intendesse riferirsi allo stesso ciclo produttivo o di consumo).

Ed infatti, fin dalle prime decisioni successive al correttivo del 2008, è emerso il contrasto tra un’approccio più rigoroso, che continua a valorizzare la linea comunitaria di interpretazione estensiva della nozione di rifiuto [64], ed un orientamento [65] che valorizza il dato testuale, affermando che alla luce della nuova definizione, “ non è necessario che l\'utilizzazione del materiale, da qualificarsi sottoprodotto, avvenga nello stesso processo produttivo da cui ha avuto origine, essendo, invece, sufficiente che il processo di utilizzazione, peraltro integrale, del sottoprodotto sia stato preventivamente individuato e definito “.

Del resto aperture verso la possibilità di comprendere nella nozione di sottoprodotto anche il riutilizzo presso terzi sono emerse in successive decisioni della Corte di Giustizia.

E così le due sentenze di condanna dell’Italia per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE del 18 dicembre 2007 [66] hanno affermato entrambe: che “un bene, un materiale o una materia prima risultante da un processo di fabbricazione che non è destinato a produrlo può essere considerato come un sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi solo se il suo riutilizzo, incluso quello per i bisogni di operatori economici diversi da colui che l’ha prodotto, è non semplicemente eventuale, ma certo, non necessita di trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione”.  Nella stessa prospettiva la Grande Sezione, 24 giugno 2008, causa C‑188/07 (punti 42-47), rispondendo alla questione pregiudiziale “se l’olio pesante, prodotto derivato da un processo di raffinazione, rispondente alle specifiche dell’utilizzatore, destinato dal produttore a essere venduto come combustibile ………… possa essere considerato un rifiuto …” , dopo aver ripercorso la giurisprudenza sulla nozione di sottoprodotto, rilevato che” la sostanza di cui trattasi è ottenuta in esito al processo di raffinazione del petrolio e che “ tale sostanza residua può essere sfruttata commercialmente a condizioni economicamente vantaggiose, come confermato dal fatto che essa è stata l’oggetto di un’operazione commerciale e che risponde alle specifiche dell’acquirente” ha concluso che una sostanza non costituisce un rifiuto nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione”.

Deve quindi ritenersi possibile il riutilizzo in cicli produttivi diversi da quelli dai quali origina il sottoprodotto[67].

In questa prospettiva, la mancata riproposizione, nella versione del 2008, del riferimento alla commercializzazione dei sottoprodotti, va letta congiuntamente alla disciplina della loro destinazione, che vede consentito l’impiego, ma non il consumo. Ne deriva che, ammessa la possibilità di riutilizzo presso cicli diversi da quelli di produzione, la commercializzazione è da ammettere se finalizzata a tale destinazione, mentre è esclusa dal regime di favore, se funzionale al mero consumo [68].

Non è poi agevole individuare i confini del requisito della natura integrale del riutilizzo.

Va peraltro considerato che lo stesso residuo di produzione non può essere considerato (e trattato) in parte come sottoprodotto ed in parte come rifiuto. Il termine integrale va quindi inteso in senso oggettivo, e non temporale: il riutilizzo, può quindi essere anche differito nel tempo, purché sia certo. 

La nuova norma, poi, conferma i margini di ambiguità per quanto riguarda il rispetto, in sede di utilizzo del sottoprodotto, degli standards merceologici e di tutela ambientale. In passato, si  chiedeva la “rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore” e che “l\'utilizzo del sottoprodotto non [dovesse] comportare per l\'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive”. Nella nuova versione, si richiede che i sottoprodotti “ soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati”. Continua, quindi, a non essere escluso che l’utilizzo del sottoprodotto possa di fatto aggravare il carico ambientale, purchè sia rispettato il limite massimo di emissione consentito.

Viene, poi richiesto che i sottoprodotti non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità, ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione.

In passato si chiedeva che l’utilizzo del sottoprodotto avvenisse “senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo” e per trasformazione preliminare s\'intendeva “ qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo”.

Pertanto:

-         le trasformazioni preliminari non sono più definite;

-         viene introdotto il divieto di trattamenti preventivi.

In entrambi i casi non si ha una preclusione assoluta, ma l’incompatibilità di tali operazioni se finalizzate a “soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3)”. L’incompatibilità, almeno sotto il profilo letterale, non sussiste per gli interventi che non attuano tale finalità. Il riferimento è alla cernita e selezione, che nella versione originaria del T.U.  rientravano tra le operazioni di recupero, tanto da essere ritenute operazioni sintomatiche di attività di gestione di rifiuti [69]. La mancata conferma, a seguito del decreto correttivo[70], dell’inclusione delle operazioni di cernita o selezione tra quelle di recupero, sembra rendere compatibili tali attività con la gestione del sottoprodotto (al pari della pulizia), purchè esse non siano finalizzate a “soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3)”[71].

Ultima condizione è quella relativa al valore economico di mercato.

In precedenza la stessa veniva in evidenza per la sola ipotesi di commercializzazione, che doveva avvenire “ a condizioni economicamente favorevoli per l\'impresa”, mentre nulla si diceva per l’ipotesi di impiego direttamente dall\'impresa. In realtà anche in questo caso l’impresa aveva (ed ha) un vantaggio nell’utilizzare il sottoprodotto, atteso che in tal modo poteva (e può) evitare di acquistare materia (prima) per la produzione od il consumo.

L’aver esteso in modo generalizzato la condizione che il sottoprodotto abbia valore economico di mercato, sembra quindi valorizzare l’idoneità al riutilizzo e la sua oggettiva utilità per il produttore, verificabili sulla base di dati oggettivi e riscontrabili, quali elementi sintomatici del valore di mercato del sottoprodotto. Quest’ultimo, quindi, è condizione che non va riferita all’operazione nel suo complesso (anche uno smaltimento abusivo è economicamente conveniente), ma al sottoprodotto in sé considerato (come del resto si evince dalla sostituzione delle parole “ a condizioni economicamente favorevoli per l\'impresa”, con l’esplicito riferimento al valore di mercato del  sottoprodotto stesso, cioè del bene in quanto tale [72]).

Va infine esaminata la questione del rapporto tra le due definizioni di sottoprodotto ed in particolare quale sia la norma più favorevole.

In tema di successione di leggi penali, “ai fini dell\'individuazione della normativa di favore per il reo, non si può procedere a una combinazione delle disposizioni più favorevoli della nuova legge con quelle più favorevoli della vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa al reo [73]

La nuova versione sembra essere nel complesso più favorevole rispetto alla prima in quanto:

-         è venuta meno la previsione per cui doveva essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell\'impianto dove avviene l\'effettivo utilizzo”;

-          mentre prima si  chiedeva che “l\'utilizzo del sottoprodotto non [dovesse] comportare per l\'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive, ora si richiede che i sottoprodotti “ soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati”. Con la nuova versione non è quindi escluso che l’utilizzo del sottoprodotto possa di fatto aggravare il carico ambientale, purché sia rispettato il limite massimo di emissione consentito.

 

 

 



[1] BUTTI, Dalla nuova direttiva sui rifiuti, nuovi possibili attriti con la disciplina nazionale, in Ambiente e Sicurezza, 2006, XIV,  75.

[2] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 14762 del 09-04-2002 (ud. 05-03-2002), Amadori C. ed altro (rv. 221575), in cui si precisa che detto accertamento costituisce una "questio facti" demandata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione esente da vizi logici o giuridici".

[3] Cass. Sez. III n. 16613 del 4-05-2005 (ud. 5-04-2005), Coppetta. La nozione " oggettiva" di rifiuto è sottolineata da Sez. III, sent. n. 7466 del 19-02-2008 (ud. 15-01-2008), Pagliaroli, nel senso che la stessa “è legata, da un lato, all\' obiettiva possibilità di ricondurre determinate sostanze entro le categorie predeterminate a livello comunitario e, dall\' altro, all\' obiettiva condotta del detentore o ad un obbligo cui lo stesso è tenuto. Disfarsi di un rifiuto significa avviarlo alla sua normale destinazione costituita dal recupero o dallo smaltimento. Pertanto, se la destinazione data dal detentore ad una determinata sostanza è costituita dal recupero o dallo smaltimento, non v\'è dubbio sulla natura di rifiuto della sostanza stessa. In altri termini la natura di rifiuto di una determinata sostanza sussiste, non solo quando il detentore abbia deciso di disfarsene, ma anche quando ha l\'obbligo di disfarsene avviando la sostanza stessa al recupero o allo smaltimento”.

[4] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 22245 del 4-06-2008 (c.c. 23-04-2008), P.M. in proc. Rapino, secondo cui non possono farsi rientrare nella nozione di rifiuto le particelle di amianto che si sono staccate dalle lastre di copertura di un capannone per effetto del dilavamento dovuto alle acque piovane, trattandosi di un fenomeno estraneo alla volontà del detentore.  

 

[5]  Sez. VI, sent. 25-06-1997, cause riunite C-304-94, C-330-94, C-342-94 e C-224-95, Tombesi, punti 47 e 48), in Guida al diritto, 1998, XXVIII,  99, con nota di FICCO, nonché in Riv. giur. dell\'ambiente, 1998, I,  47,

[6] In forza della quale gli Stati membri devono predisporre un sistema di sorveglianza e di gestione che si riferisca. “ a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero e di riutilizzo”.

[7] Il principio era già stato affermato dalla Corte di Giustizia ( sentenza 28-03-1990 - cause riunite 206-88 e 207-88 - Vessoso ed altro, sentenza 28-03-1990 - causa 359-88 -, Zanetti).

[8] Corte di Giustizia, sent. 18-12-1997, causa C-129-96, Inter-Environnement Wallonie ASBL e Région Wallonne, in Riv. giur. dell\'ambiente, 1998, III-IV,  496, Sulla centralità della questione v. anche ONIDA, Definizione di rifiuto: qual è il vero problema?, in Ambiente, 1999, I,  27.

[9] Sulla base delle seguenti affermazioni: "Dal tenore dell\'art. 1, lett. a), della direttiva 75-442, come modificata, discende in primo luogo che l\'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine “disfarsi”.

Risulta inoltre dalle disposizioni della direttiva 75-442, come modificata, e in particolare dagli artt. 4 e 8-12, nonché dagli allegati II A e II B, che detto termine include al contempo lo smaltimento e il ricupero di una sostanza o di un oggetto.

Come ha rilevato l\'avvocato generale ai paragrafi 58-61 delle sue conclusioni, l\'elenco delle categorie di rifiuti di cui all\'allegato I della direttiva 75-442, come modificata, e le operazioni di smaltimento e di ricupero enumerate agli allegati II A e II B della stessa direttiva indicano che la nozione di rifiuto non esclude in via di principio alcun tipo di residui, di prodotti di scarto e di altri materiali derivanti da processi industriali. Tale considerazione trova anche conferma nell\'elenco dei rifiuti istituito dalla Commissione con la decisione 94-3.

A questo proposito, si deve precisare in primo luogo che, come risulta in particolare dagli artt. 9-11 della direttiva 75-442, come modificata, la stessa direttiva si applica non solo allo smaltimento e al ricupero dei rifiuti da parte delle imprese specializzate nel settore, ma del pari allo smaltimento e al ricupero di rifiuti ad opera dell\'impresa che li ha prodotti, nei luoghi di produzione.

In secondo luogo, anche se, ai sensi dell\'art. 4 della direttiva 75-442, come modificata, i rifiuti devono essere ricuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell\'uomo e senza che vengano utilizzati procedimenti o metodi atti ad arrecare pregiudizio all\'ambiente, nulla nella direttiva indica che essa non sia applicabile alle operazioni di smaltimento o di ricupero che fanno parte di un processo industriale, qualora esse non sembrino costituire un pericolo per la salute dell\'uomo o per l\'ambiente.

Si deve infine ricordare che la Corte ha già considerato che la nozione di rifiuto, ai sensi dell\'art. 1 della direttiva 75-442, nella sua versione modificata, non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (sentenze 28-03-1990, causa C-359-88, Zanetti, punti 12 e 13; 10-05-1995, causa C-422-92, Commissione-Germania, punti 22 e 23 e 25-06-1997, cause riunite C-304-94, C-330-94, C-342-94 e C-224-95, Tombesi, punti 47 e 48)".

[10] Giustamente P. GIAMPIETRO, Italia, " versus" Unione Europea: i non rifiuti per legge, in Ambiente, 1999, XI, p. 821, faceva riferimento alla necessità di " decriptare i messaggi della Corte di Giustizia".

[11] Queste considerazioni furono riprese da Corte di Giustizia, Sez. V, sent. 27-02-2002, causa C-6-00: "né il regolamento né la direttiva contengono una definizione generale delle nozioni di smaltimento e di ricupero dei rifiuti, ma che essi si limitano a rinviare agli allegati II A e II B della detta direttiva, nei quali sono elencate diverse operazioni che rientrano nell\'una o nell\'altra di tali nozioni. Come si precisa nella nota introduttiva contenuta negli allegati II A e II B della direttiva, ciascuno di questi allegati è diretto a ricapitolare le operazioni di smaltimento e di recupero come esse sono effettuate nella pratica. Risulta peraltro dalla formulazione delle operazioni presente nei detti allegati che alcune di tali operazioni sono descritte in termini molto generici e corrispondono in realtà a categorie di operazioni, e che alcuni esempi di operazioni precise sono talvolta forniti per illustrare la categoria di operazioni di cui trattasi".

[12] Sez. V, sent. 15-06-2000, procedimenti riuniti C-418-97 e C-419-97, in Ambiente e Sicurezza, 2000, XVIII,  114, con nota di PAONE ed in Rifiuti, 2000, VIII-IX,  32, con nota di MEDUGNO.

[13] Si afferma (punto 69) che : "Se infatti l\'uso di una sostanza come combustibile costituisce una modalità corrente di ricupero dei rifiuti tale utilizzo può costituire un elemento che consente di accertare che il detentore della sostanza se ne disfa ovvero ha l\'intenzione o l\'obbligo di disfarsene".

[14] Non assume, invece, rilevanza alcuna l\'impatto ambientale della trasformazione della sostanza. Si afferma, infatti, nella sentenza (punto n. 66) che "Un combustibile ordinario può essere bruciato in spregio delle norme di tutela ambientale senza divenire un rifiuto per tal motivo, mentre sostanze di cui ci si disfa possono essere ricuperate come combustibile in modo compatibile con le esigenze di tutela ambientale e senza trasformazioni radicali pur continuando ad essere qualificate come rifiuti".

[15] Corte di Giustizia, Sez. VI, sent. 18-04-2002, causa C-9-00, Palin Granit Oy e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus. Conforme Sez. VI, sent. 11-09-2003, causa C-114-01, AvestaPolarit Chrome Oy e Korkein hallinto-oikeus (Finlandia), che fissa chiaramente la distinzione tra i residui che sono utilizzati senza trasformazione preliminare nel processo di produzione (nella specie per assicurare un necessario riempimento delle gallerie) e gli altri residui. Accertato che i primi venivano utilizzati come materia nel processo industriale minerario propriamente detto, la conseguenza era che “non possono essere considerati come sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di disfarsi, poiché, invece, esso ne ha bisogno per la sua attività principale. Ciò fatta salva l’ipotesi in cui tale utilizzo dei detti residui sia vietato, in particolare per ragioni di sicurezza o di tutela dell\'ambiente, e le gallerie debbano essere chiuse e sostenute in modo diverso; in tal caso il detentore ha l\'obbligo di disfarsi degli stessi che, dunque, costituiscono rifiuti”. Al di fuori di quest\'ipotesi, si afferma il principio per cui “se un gestore di una miniera può identificare fisicamente i residui che saranno effettivamente utilizzati nelle gallerie e fornisce all\'autorità competente garanzie sufficienti di tale utilizzo, questi residui non devono essere considerati come rifiuti. A questo riguardo, spetta all\'autorità competente valutare se la durata di ammasso dei residui prima della loro reintroduzione nella miniera non sia così lunga che le dette garanzie non possono essere realmente fornite”.

[16] Nella valutazione se un’operazione di riutilizzo vada ascritta alla gestione dei rifiuti, altro elemento indicato dalla Corte di Giustizia è quello della necessità di operazioni di deposito e delle relative modalità, in particolare per quanto attiene al requisito temporale. E così Sez. III, sent. 18 dicembre 2007 nella causa C‑263/05, avente ad oggetto un ricorso per inadempimento nei confronti della Repubblica italiana per aver adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, al punto 39 ha affermato “Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto (v., in tal senso, sentenze citate Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39)”. La stessa sezione, nello stesso giorno, nella causa C‑194/05 avente ad oggetto un ricorso per inadempimento nei confronti della Repubblica italiana per aver escluso dall’ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti le terre e le rocce da scavo (art. 10 della legge 23 marzo 2001, n. 93 ed art. 1, commi 17 e 19, della legge 21 dicembre 2001, n. 443), al punto 40 riproduce esattamente il punto 39 della sentenza che precede (causa C‑263/05) ed al punto 48 afferma:” Inoltre non si può escludere, contrariamente a quanto suggerito, in sostanza, dalla Repubblica italiana, che l’«effettivo riutilizzo» previsto dalle disposizioni controverse avvenga solo dopo un periodo di tempo considerevole, se non addirittura indeterminato, rendendo quindi necessario il deposito a tempo indeterminato dei materiali in questione. Orbene, come risulta dal punto 40 della presente sentenza, operazioni del genere sono atte a configurare un onere per il detentore e sono potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare”.

[17] Si vedano: Cass. pen., Sez. III, sent. n. 31011 del 18-09-2002 (c.c. 18-06-2002), Zatti (rv. 222390): “ Per rifiuto, ai sensi della normativa comunitaria e nazionale, deve intendersi qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi, restando irrilevante se ciò avvenga attraverso lo smaltimento del prodotto ovvero tramite il suo recupero e, inoltre, prescindendosi da ogni indagine sull\'intenzione del detentore che abbia escluso ogni riutilizzazione economica della sostanza o dell\'oggetto da parte di altre persone (nella specie, la Corte ha negato che potessero rientrare nella nozione di rifiuto due opifici industriali dismessi e abbandonati, che peraltro non presentavano cedimenti o dispersioni nel suolo delle strutture o dei materiali che li componevano); Cass.pen., Sez. III, sent. n. 08755 del 24-02-2003 (c.c. 13-12-2002), Pittini (rv. 224163): “ In tema di gestione dei rifiuti, allorchè non vi è necessità di trattamento dei residui, ma possibilità di riutilizzo immediato nel ciclo produttivo, non può più parlarsi di rifiuto, atteso che la sostanza può essere trattata allo stesso modo di una materia prima. (fattispecie nella quale la Corte ha affermato la non applicabilità della disciplina sui rifiuti, di cui al decreto legislativo 5-02-1997 n. 22, e successive modificazioni, ai rottami ferrosi riutilizzati senza alcuna operazione di trattamento preliminare)”; Sez. III, sent. n. 47904 del 16-12-2003 (c.c. 29-10-2003), P.M. in proc. Martinengo (rv. 226894): “ In tema di gestione dei rifiuti, le operazioni di macinazione di sottoprodotti di risulta del processo produttivo, utilizzati parzialmente, unitamente ad altra materia prima, in un ulteriore ciclo produttivo, e per altra parte immessi sul mercato, non configurano attività di recupero dei rifiuti, come tale sottoposta alla disciplina del d.lgs. 5-02-1997 n. 22, ai sensi dell\'Allegato C del citato decreto n. 22, attesa la finalità della normativa nazionale e comunitaria in tema, ovvero l\'esigenza di evitare l\'accumulo o la dispersione nell\'ambiente delle sostanze derivanti dalle attività produttive favorendo il riutilizzo sul luogo di produzione”; Sez. III, sent. n. 3978 del 03-02-2004 (c.c. 14-11-2003), Balistreri (rv. 227393) : “ In tema di rifiuti, la parte inorganica di petrolio grezzo che si concentra a seguito della diminuzione della componente organica per la sua trasformazione in combustibili pregiati (cosiddetti filter-cake), non ha natura di rifiuto, atteso che dallo stesso si estraggono il vanadio ed il nichelio, e rappresenta il prodotto di un razionale processo industriale”.

[18] V. Cass. pen., Sez. III, sent. n. 6222 del 26-06-1997 (ud. 22-05-1997), Gulpen e altro (rv. 208686): " In tema di smaltimento di rifiuti, la definizione di rifiuto deve essere improntata al criterio oggettivo della "destinazione naturale all\'abbandono", non rilevando l\'eventuale riutilizzazione nè la volontà di disfarsi della sostanza o dell\'oggetto, sicchè, quando il residuo abbia il suddetto carattere, ogni successiva fase di smaltimento rientra nella disciplina del d.P.R. 10-09-1982, n. 915 e, dopo la sua abrogazione, in quella del d.lgs. 5-02-1997, n. 22" (nella specie la s.c. ha ritenuto doversi considerare rifiuti le sostanze tossico-nocive prodotte dall\'errata miscelazione di paste polimeriche e depositate, dopo la distribuzione in 113 fusti del peso complessivo di 20 tonnellate, in un magazzino esterno all\'azienda, trattandosi di scarti di lavorazione la cui unica ed obiettiva destinazione non poteva essere che l\'abbandono, per l\'inidoneità sia a soddisfare i bisogni cui erano destinati, considerata l\'espulsione dal ciclo produttivo del materiale, stoccato in un sito estraneo allo stabilimento di lavorazione, sia al reimpiego); Sez. III, sent. n. 19125 del 11-05-2001 (ud. 09-04-2001), Porcu (rv. 218936): "In tema di smaltimento di rifiuti, la definizione di rifiuto deve essere improntata al criterio oggettivo della destinazione naturale all\'abbandono non rilevando l\'eventuale riutilizzazione né la volontà di disfarsi della sostanza o dell\'oggetto, sicché quando il residuo abbia il suddetto carattere, ogni successiva fase di smaltimento rientra nella disciplina del d.P.R. 10-09-1982, n.915 e, dopo la sua abrogazione, in quella del d.lgs. 5-02-1997, n. 22. Costituiscono, pertanto, rifiuti e non materia prima secondaria i fanghi compressi provenienti dall\'esaurimento del ciclo produttivo e destinati al parziale riutilizzo mediante processi chimici da eseguire presso altro stabilimento industriale"; Sez. III, sent. n. 3213 del 20-12-2001, in Ambiente e Sicurezza, 2001, XII,  104: " La provvisorietà dello stoccaggio dei rifiuti in attesa del loro trasferimento, da attuare in tempi prevedibilmente lunghi, non esclude la sussistenza del reato. La definizione di rifiuto deve essere improntata al criterio oggettivo della destinazione naturale all\'abbandono, non rilevando l\'eventuale riutilizzazione né la volontà di disfarsi della sostanza e dell\'oggetto, siccè, quando il residuo abbia il suddetto carattere, ogni successiva fase rientra nella suddetta disciplina"; Sez. III, sent. n. 7466 del 26-02-2002, (ud. 22-01-2002), Abate (rv. 221167): " Le traversine in legno impregnate con preservante a base di creosoto, non più utilizzabili nelle strutture ferroviarie di provenienza, vanno qualificate come rifiuti ai sensi dell\'art. 6 del D. Lgs 22-02-1997 n. 22, pur potendo essere destinate al reimpiego nelle strutture per scopi diversi da quello originario ai sensi del Decreto del Ministro dell\'Ambiente 5-02-1998, ciò anche in considerazione della loro inclusione tra i materiali per i quali è possibile accedere alle procedure semplificate di recupero per i rifiuti non pericolosi di cui agli artt. 31 e 33 del citato d.lgs. n. 22"; Sez. III, sent. n. 14762 del 09-04-2002 (ud. 05-03-2002), Amadori C. ed altro (rv. 221573): " costituisce rifiuto qualsiasi sostanza di cui il produttore o il detentore si disfi, o abbia deciso o abbia l\'obbligo di disfarsi, non assumendo rilievo la intenzione, di escluderne ogni riutilizzazione economica da parte di altre persone"; Sez. III, sent. n. 36498 del 31-10-2002 (ud. 22-05-2002), Bianchi ed altro (rv. 222916): ” Il riutilizzo di pneumatici usati costituisce attività di recupero di rifiuti speciali non pericolosi, per la quale, in mancanza della prescritta comunicazione di inizio attività, é configurabile la contravvenzione di cui all\'art. 51 comma 1 lett. a) del decreto legislativo 5-02-1997, n. 22”; Sez. III, sent. n. 43946 del 11-11-2004, Muzzupappa (rv. 230478) :  In tema di gestione dei rifiuti, la riutilizzazione come concime agricolo del cosiddetto "pastazzo" di agrumi, composto da buccia e polpa di agrumi residuati dalla loro lavorazione, non esclude lo stesso dal regime dei rifiuti, atteso che sotto il profilo oggettivo rientra tra i residui di produzione e sotto il profilo soggettivo la destinazione ad operazioni di smaltimento e di recupero rientra nell\'ipotesi nella quale il detentore del rifiuto abbia deciso di disfarsi dello stesso, in quanto tra le operazioni di recupero indicate nell\'Allegato C del d.lgs. 5-02-1997 n. 22 è compresa quella di spandimento sul suolo a beneficio dell\'agricoltura (R10) “.

[19] Per il quale: “1. Le parole: "si disfi", "abbia deciso" o "abbia l\'obbligo di disfarsi" di cui all\'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto  legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, di seguito denominato: "decreto legislativo n. 22", si interpretano come segue:

a) "si disfi": qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22;

b) "abbia deciso": la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22, sostanze, materiali o beni;

c) "abbia l\'obbligo di disfarsi": l\'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell\'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all\'allegato D) del decreto legislativo n. 22.

2. Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:

a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all\'ambiente;

b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell\'allegato C del decreto legislativo n. 22".

[20] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 6435 del 15-02-2007 (ud. 17-01-2007), Agazzini, ha precisato che ai sensi dell\'art. 184, comma 3 lett. b) del T.U. i materiali provenienti da attività di demolizione rientrano nella categoria dei rifiuti speciali, senza che risulti riprodotta dal nuovo codice in materia ambientale l\'eccezione alla applicabilità della normativa sui rifiuti di cui all\'abrogato articolo 14 della L. n. 178-2002, con la conseguenza che tale norma, più favorevole rispetto a quella successiva, continua ad applicarsi alle fattispecie verificatesi sotto la sua vigenza (nella specie la sentenza ha escluso l’applicabilità, in concreto, dell’esclusione dalla disciplina sui rifiuti).

[21] Si rinvia a FIMIANI, Sull\'interpretazione della nozione di rifiuto l\'ultima parola all\'art. 14 del d.l. n. 138-2002, in Ambiente e Sicurezza, 2002, XV,  95; PAONE, Anche dopo la conversione del d.l. n. 138-2002 restano perplessità sulla nozione di rifiuto, in Ambiente e Sicurezza, n. 17-2002,  89; FICCO e SANTOLOCI, Una legge inutile che crea solo confusione, in Rifiuti, 2002, VIII-IX, 14.

[22] Anche al fine di escludere la sussistenza delle condizioni della sua applicabilità. Si veda Cass. pen., Sez. III, sent. n. 23988 del 26-05-2004 (c.c. 14-04-2004) Pesce (rv. 228688): “ Le traversine in legno impregnate di olio di creosoto dismesse dall\'ente ferroviario vanno qualificate quali rifiuto ai sensi dell\'art. 6 del d.lgs. 5-02-1997 n. 22 anche dopo l\'entrata in vigore del decreto legge 8-07-2002 n. 138, convertito con legge 8-08-2002 n. 178, non sussistendo in ogni caso la fondamentale condizione dell\'assenza di pregiudizio per l\'ambiente”.

[23] Una posizione minoritaria, di sostanziale accettazione del nuovo parametro normativo, è quella espressa da:  Sez. III, sent. n. 37508 del 02-10-2003 (ud. 25-06-2003), Papa (rv. 225929), in cui si afferma che « I materiali inerti derivanti dalla demolizione di un manufatto e reimpiegati nell\'ambito dello stesso cantiere non assumono la natura di rifiuto, stante la interpretazione autentica della nozione di "rifiuto" contenuta nel decreto legge 8-07-2002 n. 138, convertito con legge 8-08-2002 n. 178, atteso che sono conseguenza di un processo di produzione, comprendente la demolizione del manufatto ed il reimpiego integrale sul posto, e l\'assenza di prova di un reale pericolo per l\'ambiente”; Sez. III, sent. n. 32235 del 31-07-2003 (c.c. 6-06-2003), Agogliati, per esteso in RivistAmbiente, 2003, X,  1095: “In una visione economica integrata, salvo sempre l’esigenza di protezione ambientale, la valutazione può essere operata caso per caso, sia perché le categorie di cui all’art. 6 d.lgs. 22-1997 hanno valore puramente indicativo, ed il legislatore ha già dato un’interpretazione chiarificatrice con l’art. 14 d.l. n. 138-2002, sia perché la volontà di disfarsi deve essere esaminata in concreto. Deve trattarsi di una valutazione prudente, in attesa della auspicabile adozione in sede comunitaria e nazionale di specifiche tecniche comuni (uniformi standard e indici di qualità; omogenei parametri tecnici di valutazione e validazione) per ciascuna tipologia di sottoprodotto o residuo, valutazione che ricomprende nella nozione di residuo e non di rifiuto anche quelle materie che abbiano subito un trattamento preliminare, sempre che sussista la prova dell’effettivo ed univoco riutilizzo”.

[24] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 4052 del 29-01-2003 (c.c. 13-11-2002), Passerotti (rv. 223532), per esteso in RivistAmbiente, 2003, VI,  692.

[25] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 2125 del 17-01-2003 (ud. 27-11-2002), Ferretti (rv. 223291), per esteso in RivistAmbiente, 2003, VII-VIII, 806.

[26] Cass.pen., Sez. III, sent. n. 17656 del 15-04-2003 (c.c. 15-01-2003), Gonzales e Rivoli (rv. 224716) per esteso in RivistAmbiente, 2003, IX,  957.

[27] Corte di Giustizia, Sez. II, sent. 11 novembre 2004, causa C-457/02.

[28] Il Tribunale di Terni, con ord. 20-11-2002, proc. pen. n. 565/02, aveva chiesto alla Corte di Giustizia:

- se è possibile che la nozione di rifiuto dipenda tassativamente dalla seguente condizione: che le parole: "si disfi", "abbia deciso" o "abbia l\'obbligo di disfarsi" recepite in Italia dall\'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5-02-1997, n. 22, siano interpretate come segue:

a) "si disfi": qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22;

b) "abbia deciso": la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22, sostanze, materiali o beni;

c) "abbia l\'obbligo di disfarsi": l\'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell\'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all\'allegato D del decreto legislativo n. 22;

- se è possibile che tassativamente non ricorre la nozione di rifiuto per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:

a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all\'ambiente;

b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell\'allegato C del decreto legislativo n. 22-97 vigente in Italia (che ha trasposto pedissequamente l\'allegato II B alla direttiva 91-156-Cee).

[29] Queste le argomentazioni della Corte:

44. Può ……. ammettersi un’analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di «disfarsi», ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75-442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Un’analisi del genere non contrasta infatti con le finalità della direttiva 75-442 in quanto non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti (v. sentenza Palin Granit, cit., punti 34 e 35).

45. Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuti, per limitare gli inconvenienti o i danni inerenti alla loro natura, il ricorso a tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, dev\'essere circoscritto alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa trasformazione, e avvenga nel corso del processo di produzione (sentenza Palin Granit, cit., punto 36).

46. Oltre al criterio derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce quindi un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75-442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (sentenza Palin Granit, cit, punto 37).

47. Risulta da quanto precede che è ammesso, alla luce degli obiettivi della direttiva 75-442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, di tale direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione (v. sentenza 11-09-2003, causa C‑114-01, AvestaPolarit Chrome, Racc I‑8725).

48. Tuttavia, quest’ultima analisi non è valida per quanto riguarda i residui di consumo, che non possono essere considerati «sottoprodotti» di un processo di fabbricazione o di estrazione idonei ad essere riutilizzati nel corso del processo produttivo.

49. Un’analisi simile non può essere accolta nemmeno per quanto riguarda rifiuti del genere che non possono essere qualificati come beni d’occasione riutilizzati in maniera certa e comparabile, senza previa trasformazione.

50. Orbene, secondo l’interpretazione risultante da una disposizione quale l’art. 14 del decreto legge n. 138-02, affinché un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica come rifiuto sarebbe sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B della direttiva 75-442.

51. Un’interpretazione del genere si risolve manifestamente nel sottrarre alla qualifica come rifiuto residui di produzione o di consumo che invece corrispondono alla definizione sancita dall’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75-442.

52. In proposito, materiali come quelli oggetto del procedimento principale non sono riutilizzati in maniera certa e senza previa trasformazione nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione, ma sono sostanze o materiali di cui i detentori si sono disfatti. Stando alle spiegazioni del sig. Niselli, i materiali in discussione sono stati successivamente sottoposti a cernita ed eventualmente a taluni trattamenti, e costituiscono una materia prima secondaria destinata alla siderurgia. In un tale contesto essi devono tuttavia conservare la qualifica di rifiuti finché non siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici, finché cioè non costituiscano i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati. Nelle fasi precedenti, essi non possono ancora, infatti, essere considerati riciclati, poiché il detto processo di trasformazione non è terminato. Viceversa, fatto salvo il caso in cui i prodotti ottenuti siano a loro volta abbandonati, il momento in cui i materiali in questione perdono la qualifica di rifiuto non può essere fissato ad uno stadio industriale o commerciale successivo alla loro trasformazione in prodotti siderurgici poiché, a partire da tale momento, essi non possono più essere distinti da altri prodotti siderurgici scaturiti da materie prime primarie (v., per il caso particolare dei rifiuti di imballaggio riciclati, sentenza 19-06-2003, causa C‑444-00, Mayer Parry Recycling, Racc I‑6163, punti 61‑75)”.

[30] Per commenti alla sentenza si rinvia a: P GIAMPIETRO, in Ambiente e Sicurezza, 2004, XXIII, 16; FICCO e SANTOLOCI, in Rifiuti, 2004, XII,  15, MEDUGNO e PALLOTTA, in Ambiente e lavoro, 2005, I,  24,

[31] Per un quadro generale, anche sulla vicenda normativa dei rottami ferrosi, si rinvia a P. GIAMPIETRO, Quale riferimento per i materiali ferrosi: sovranità nazionale o giudice comunitario? in Ambiente e Sicurezza, n. 2005,  XVI, 87, e 2005, IXX,  87.

[32] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 16351 del 2-5-2005 (c.c. 15-03-2005), Dalena : “ La sentenza della Corte Europea di Giustizia, Sez. II, 11-11-2004 (causa n. C-457-02, Niselli) vincola certamente il Giudice al caso concreto oggetto del giudizio, ma non comporta l’automatico annullamento di una legge dello Stato italiano e neppure esclude che a livello giurisprudenziale in sede comunitaria e nei singoli Paesi membri continui una elaborazione paziente e necessaria in ordine alla concezione del rifiuto; che non è di tipo ideologico e che deve saper contemperare le giuste esigenze di tutela della salute e dell’ambiente con quelle legate all’evoluzione tecnica, economica e sociale del settore, a distanza di 30 anno dalla prima Direttiva comunitaria”.

[33] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 20499 del 14-04-2005, Colli ed altri (rv. 231528): “Tenuto conto della giurisprudenza comunitaria, anche per la normativa nazionale deve accedersi, quanto all\'ipotesi dei residui di produzione, ad una interpretazione della fattispecie derogatoria di cui al secondo comma dell\'articolo 14 d.l. 138-2002, orientata dall\'esigenza di conformità alla normativa comunitaria, disattendendosi all\'opposto una (pur plausibile) interpretazione estensiva di "beni o sostanze e materiali residuali di produzione" quale rifiuto solo eventualmente riutilizzabile previa trasformazione, perché una tale lettura della norma comporterebbe un contrasto con la normativa comunitaria, chiaramente evidenziato dalla più recente pronuncia della Corte di Giustizia. Di conseguenza un residuo di produzione può essere escluso dalla disciplina dei rifiuti solo se consiste in un “sottoprodotto”, cioè si sia in presenza di situazioni in cui il riutilizzo del residuo stesso sia certo, senza trasformazione preliminare e nel corso dello stesso processo di produzione, e non crei pregiudizio per l’ambiente. Ed invero” ciò che non nuoce all\'ambiente e può essere inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria in un processo produttivo si sottrae alla disciplina dei rifiuti, che non avrebbe ragione d\'essere; la quale invece trova applicazione in tutti i casi di materiale di risulta che possa essere sì utilizzabile, ma solo eventualmente ovvero “previa trasformazione”; ciò che, proprio in ragione del principio di precauzione e prevenzione richiamato dalla Corte di giustizia, comporta l\'applicazione della disciplina di controllo dei rifiuti”. Di interpretazione comunitariamente” orientata parla anche Sez. III, sent. n. 47269 del 29-12-2005 (c.c. 4-11-2005), Zuffellato.

[34] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 17836 del 04-03-2005, Maretti ed altro. La sentenza ha però ha ritenuto irrilevante nella fattispecie la questione, essendo stata esclusa in punto di fatto la riutilizzazione del rifiuto, ed ha ulteriormente affermato che il concetto di "disfarsi" non può essere identificato, come nel citato art. 14, con quello di attività di "smaltimento o di recupero", atteso che è possibile disfarsi di un rifiuto anche semplicemente abbandonandolo.

[35] Corte di Giustizia 3 maggio 2005, procedimenti riuniti C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02, ed ivi rif.

[36] Cass.pen., Sez. VI, sent. n. 9857 dell’ 08-10-1976 (ud. 16-06-1976), Pagnan.

[37] Cass. pen., Sez. III, Ordinanza n. 1414 del 16-01-2006 (ud. 14-12-2005), Rubino (rv. 232603). Per commenti alla decisione P. GIAMPIETRO, Nozione di rifiuto ancora sospesa tra Cassazione penale e Consulta, in Ambiente e Sicurezza, 2005,  XXIII, 58; PAONE, Alla Corte Costituzionale l’ultima parola sulla nozione di rifiuto?, in Ambiente e Sicurezza, 2006, VI,  93.

[38] Il contrasto tra l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138 e la nozione comunitaria di rifiuto è stato affermato anche da Corte di Giustizia, Sez. III, sent. 18 dicembre 2007 nella causa C‑263/05, che ha dichiarato che la Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore la norma” è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE”.

[39] Che recitava: “n) sottoprodotto: i prodotti dell\'attività dell\'impresa che, pur non costituendo l\'oggetto dell\'attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell\'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. Non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto i sottoprodotti di cui l\'impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall\'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l\'impresa stessa direttamente per il consumo o per l\'impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest\'ultimo fine, per trasformazione preliminare s\'intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo. L\'utilizzazione del sottoprodotto deve essere certa e non eventuale. Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale. Al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell\'impianto dove avviene l\'effettivo utilizzo. L\'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l\'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive “.

[40] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 10264 del 9-03-2007 (ud. 26-01-2007), Poli.

[41] Tuttavia, mentre la Corte, con ordinanza n. 288 del 14-07-2006, si era limitata a prendere atto del nuovo quadro normativo, restituendo gli atti al Giudice a quo, con la successiva ordinanza n. 458 del 28-12-2006 forniva spunti interpretativi della questione alla luce del nuovo quadro normativo, potendosi evincere dalla pronuncia :

-          che dalla nozione comunitaria di rifiuto può esulare – secondo la Corte europea – unicamente il materiale derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione, non destinato principalmente a produrlo, riutilizzato dal produttore senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo produttivo: trattandosi, in tal caso, non di un residuo, ma di un «sottoprodotto», di cui il produttore non intende «disfarsi», ma che vuole invece reimpiegare nel medesimo ciclo di produzione;

-          che tale ultima ipotesi non ricorre, peraltro, nel caso di cessione del bene dal produttore ad un soggetto diverso per il riutilizzo in diverso ciclo produttivo;

-          che le norme nazionali definitorie in materia di rifiuti non possono essere direttamente disapplicate dal giudice nazionale in quanto incompatibili con il diritto comunitario, giacché la direttiva sui rifiuti non è «autoapplicativa», necessitando di un atto di recepimento da parte dei singoli Stati membri;

-          che, in caso di contrasto, l\'unico modo per rimediare al vulnus recato dalla norma nazionale in contrasto con una direttiva comunitaria non direttamente applicabile è, dunque, quello di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione degli obblighi di conformazione all\'ordinamento comunitario, sanciti dall\'art. 11 Cost. e, in modo ancor più esplicito, dal primo comma del novellato art. 117 Cost.;

-          che già con sentenza n. 148 del 1983, la Corte ha riconosciuto la rilevanza e l\'ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale delle norme penali di favore, sulla base della duplice considerazione che l\'accoglimento della questione verrebbe comunque ad incidere sulle formule di proscioglimento o sul dispositivo della sentenza penale, nonché sullo schema argomentativo della relativa motivazione; ed avrebbe, inoltre, un «effetto di sistema» la cui valutazione spetta ai giudici ordinari;

-          che la nuova definizione di «sottoprodotto», sottratto a determinate condizioni all\'applicazione della disciplina sui rifiuti: definizione che, peraltro – pur ponendosi, quanto a ratio, in linea di ideale continuità con la disposizione censurata – si discosta da essa sotto plurimi profili, sul piano della formulazione e dei contenuti precettivi.

[42] Sez. V, Ord. 28-01-2005 nel procedimento C-208-04 (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d\'Ètat): Inter-Environnement Wallonie ASBL contro Regione Vallone ha escluso la possibilità di introdurre deroghe a detto binomio. Si afferma, infatti:” L\'art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15-07-1975 relativa ai rifiuti, come modificata con direttiva del Consiglio 18-03-1991, 91-156-CEE, osta a che gli Stati introducano una nuova categoria di materie che non rientrano né nella categoria dei rifiuti né in quella dei prodotti, anche se tale nuova categoria di materie può contenere sostanze od oggetti idonei a integrare la definizione della nozione di "rifiuto" ai sensi della predetta disposizione”.

[43] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 47269 del 29-12-2005 (c.c. 04-11-2005), Zuffellato: “ Il riutilizzo di ritagli di pelle derivanti dalle lavorazioni primarie effettuate da altre imprese costituisce attività di gestione di rifiuti, e come tale soggetta ad autorizzazione, trattandosi di residui di consumo e non di sottoprodotti, solo per i quali il riutilizzo è non solo eventuale ma certo e senza previa trasformazione”; conforme Cass. pen., Sez. III, sent. n.  5800 del 6-02-2008 (ud. 19-12-2007), Monti, che afferma che detti ritagli ove tenuti in deposito in attesa di essere venduti per la asserita riutilizzazione, costituiscono materiali dei quali il produttore si era disfatto, e sono sottoposti ad un\'operazione di smaltimento (deposito in attesa delle operazioni di recupero effettuate dagli acquirenti dei cascami di pelle.

[44] A proposito del riutilizzo " tal quale" la Corte di Giustizia, Sez. VI, sent. 18-04-2002, causa C-9-00, Palin Granit Oy, richiamando quanto già affermato da Sez. V, sent. 15-06-2000, causa n.n. C-418-97 e C-419-97, ARCO, ha affermato:

" Oltre al criterio derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75-442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un\'ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di “disfarsi”, bensì un autentico prodotto".

Corte di Giustizia, Sez. VI, sent. 11-09-2003, causa C-114-01, AvestaPolarit Chrome Oy fissa chiaramente la distinzione tra i residui che sono utilizzati senza trasformazione preliminare nel processo di produzione (nella specie per assicurare un necessario riempimento delle gallerie) e gli altri residui. Accertato che i primi venivano utilizzati come materia nel processo industriale minerario propriamente detto, la conseguenza era che “non possono essere considerati come sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di disfarsi, poiché, invece, esso ne ha bisogno per la sua attività principale. Ciò fatta salva l’ipotesi in cui tale utilizzo dei detti residui sia vietato, in particolare per ragioni di sicurezza o di tutela dell\'ambiente, e le gallerie debbano essere chiuse e sostenute in modo diverso; in tal caso il detentore ha l\'obbligo di disfarsi degli stessi che, dunque, costituiscono rifiuti”. Al di fuori di quest\'ipotesi, si afferma il principio per cui “se un gestore di una miniera può identificare fisicamente i residui che saranno effettivamente utilizzati nelle gallerie e fornisce all\'autorità competente garanzie sufficienti di tale utilizzo, questi residui non devono essere considerati come rifiuti. A questo riguardo, spetta all\'autorità competente valutare se la durata di ammasso dei residui prima della loro reintroduzione nella miniera non sia così lunga che le dette garanzie non possono essere realmente fornite”.

Corte di Giustizia, Sez. II, sent. 11-11-2004, causa C-457-02, Niselli, ha poi precisato:

“44. Può ……. ammettersi un’analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di «disfarsi», ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75-442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Un’analisi del genere non contrasta infatti con le finalità della direttiva 75-442 in quanto non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti (v. sentenza Palin Granit, cit., punti 34 e 35).

45. Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuti, per limitare gli inconvenienti o i danni inerenti alla loro natura, il ricorso a tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, dev\'essere circoscritto alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa trasformazione, e avvenga nel corso del processo di produzione (sentenza Palin Granit, cit., punto 36).

46. Oltre al criterio derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce quindi un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75-442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (sentenza Palin Granit, cit, punto 37).

47. Risulta da quanto precede che è ammesso, alla luce degli obiettivi della direttiva 75-442, qualificare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto di cui il detentore non desidera «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, di tale direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione (v. sentenza 11-09-2003, causa C‑114-01, AvestaPolarit Chrome, Racc I‑8725).

48. Tuttavia, quest’ultima analisi non è valida per quanto riguarda i residui di consumo, che non possono essere considerati «sottoprodotti» di un processo di fabbricazione o di estrazione idonei ad essere riutilizzati nel corso del processo produttivo.

49. Un’analisi simile non può essere accolta nemmeno per quanto riguarda rifiuti del genere che non possono essere qualificati come beni d’occasione riutilizzati in maniera certa e comparabile, senza previa trasformazione”.

[45] Si vedano le argomentazioni contenute:

1) nell’ordinanza della Sez. III del 15 gennaio 2004, causa C-235/02, con cui la Corte ha affermato che “il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie non costituisce un rifiuto";

2) nelle due sentenze della Sez. III, sent. 8 settembre 2005, causa C-416/02 e causa C-121/03, con cui la Corte ha affermato che il Regno di Spagna è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in forza delle direttive 21 maggio 1991, 91/271/CEE, concernente il trattamento delle acque reflue urbane 12 dicembre 1991, 91/676/CEE, relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole (la prima) e 27 giugno 1985, 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati e 15 luglio 1980, 80/778/CEE, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano (la seconda).

Per commenti a tali decisioni, si rinvia a P. GIAMPIETRO, Circolazione del sottoprodotto più libera grazie alla Corte di Giusitzia europea, in Ambiente e Sicurezza, 2006, III,  93; PAONE, Sottoprodotti e Corte di Giustizia: è veramente libera circolazione?, in Ambiente e Sicurezza, 2006, VII,  99, Le decisioni sono anche richiamate, alla luce della definizione di sottoprodotto introdotta dal T.U., da P. GIAMPIETRO, Nuova nozione di rifiuto e sottoprodotto più conforme ai canoni comunitari, in Ambiente e Sicurezza, 2006,  XIV, 70.

[46] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 47269 del 29-12-2005 (c.c. 4-11-2005), Zuffellato, in cui si precisa che i residui di consumo, non possono essere considerati «sottoprodotti» di un processo di fabbricazione o di estrazione idonei ad essere riutilizzati nel corso del processo produttivo, nel caso in cui essi siano utilizzati in altro procedimento produttivo e devono considerarsi rifiuti finché non costituiscano prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati.

[47] In tal senso Cass. pen. Sez. III sent. n. 14557 dell’11-04-2007 (ud. 21-12-2006), Palladino. Sulla base di tale considerazione il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell\'art. 183, comma 1, lettera n) del T.U.; la Corte costituzionale (ord. n. 83 del 2008), preso atto della sopravvenienza del D.lgs. n. 4 del 2008 ha disposto la restituzione degli atti al giudice remittente per la valutazione dell\'incidenza della nuova disciplina. Significativa, peraltro, della correttezza dell’impostazione seguita dalla giurisprudenza circa la rimessione alla Corte costituzionale della questione del contrasto della normativa nazionale sui rifiuti con quella comunitaria, è la sentenza n. 62 del 2008, con cui la Corte ha, tra l’altro, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell\'art. 7, comma 1, lettera b), della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 4 del 2006 - che escludeva dal campo di applicazione della legge medesima le terre e le rocce da scavo ed i residui della lavorazione della pietra non contaminati, destinati all\'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati- in quanto, sottraendo alla nozione di rifiuto taluni residui invece corrispondenti alla definizione sancita dall\'art. 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, “si pone in contrasto con la direttiva medesima, la quale funge da norma interposta atta ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all\'ordinamento comunitario, in base all\'art. 117, primo comma, della Costituzione”. Per un commento alla decisione v. CERBO, Corte costituzionale e nozione di rifiuto: vecchie e nuove questioni fra diritto interno e diritto comunitario, in Urb. App., 2008, VIII, 943.

[48] Per l’applicazione rigorosa della regola v. Cass pen. Sez. III, sent. n.  24471 del 21-06-2007 (ud. 15-05-2007), Livieri; Sez. III, sent. n. 38511 del 18-10-2007 (ud. 9-10-2007), Castiglione, ha poi precisato che la nozione di "sottoprodotto" da lavorazione è strettamente legata alla prova positiva della destinazione, senza necessità di ulteriore trasformazione, dei materiali all\'impiego nel ciclo produttivo aziendale o alla destinazione a terzi per l\'impiego diretto.

[49] Cass. pen. Sez. III, sent. n. 2902 del 26-01-2007 (ud. 26-10-2006) Signorini, con riferimento all’analoga previsione della mancanza di pregiudizio per l\'ambiente richiesta come condizione necessaria dall\'art. 14, comma 2, lett. a), del decreto legge 8-07-2002, n. 138, convertito nella legge 8-08-2002, n. 178, ha affermato che la prova può essere data con qualsiasi mezzo e quindi anche per presunzioni (quali ad esempio, omogeneità del materiale, mancanza di sostanze estranee e diverse, eccetera). Resta fermo che dette presunzioni possono essere superate con la prova contraria dell\'esistenza del pregiudizio [conforme Cass. pen., Sez. III n. 10262 del 9-03-2007 (ud. 26-01- 2007), Barcella].

[50] Cass. pen., Sez. III, sent. n.  32207 del 7-08-2007 (Cc 11-07- 2007), Mantini  che ha precisato che “tale volontà di dismissione vale ad escludere la configurabilità di un sottoprodotto, tanto più se la sostanza necessita di "trasformazione preliminare" per la sua utilizzabilità in un successivo processo produttivo. E tale è l\'operazione di cernita e pulitura che modificano l\'identità della sostanza considerato che lo stesso art. 183, comma 1, lett. n), prevede la (sola) cernita come operazione che è di per sé qualificabile come di recupero dei rifiuti” ( va però ricordato che con il correttivo del 2008 il riferimento alla cernita è venuto meno).

[51] Cass. pen. Sez. III, sent. n. 35219 del 20-10-2006 (c.c. 6-07-2006) Giannecchini, che ha altresì precisato: “La produzione di fatture in numero modesto e rappresentante una movimentazione ridotta del materiale accumulato non assume rilevanza probatoria circa la effettiva utilizzazione del materiale medesimo”.

[52] Cass. pen. Sez. III, sent. n. 37303 del 10-11-2006 (ud. 4-10-2006), Nataloni (che esclude altresì che detta attività sia riconducibile alla nozione di materia prima secondaria già contemplata dall’abrogato art. 14 d.l. 138-2002 né a quella di MPS ora disciplinata dall’art. 181 lettera b) d.lgs. 152-2006).

[53] Cass. pen. Sez. III, sent. n. 40190 del 8-12-2006 (c.c. 11-10-2006), Gulino.

[54] Cass. pen. Sez. III, sent. n. 35888 del 26-10-2006 (ud. 3-10-2006), De Marco.

[55] Cass. pen. Sez. III, sent.  n.1340 del 19-01-2007 (ud. 16-11-2006), Nardone.

[56] Cass. Sez. III, sent. n. 14557 dell’11-04-2007 (ud. 21-12-2006), Palladino. La S.C. ha affermato:

-          che la nuova categoria legislativa di “sottoprodotto”, introdotta dal d.lgs. 152-2006 appare in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto, come interpretata dalla Corte di Giustizia europea (vengono richiamate le sentenze Niselli e Palin Granit Oy cit.), laddove sottrae alla disciplina sui rifiuti il sottoprodotto riutilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello di origine;

-          che, nel caso di specie, non si pone però la rilevanza della questione di costituzionalità della nuova disciplina, “in quanto essa non è applicabile alla fattispecie concreta, sia perché non è certa la riutilizzazione dei residui produttivi, sia perché manca un altro presupposto essenziale della norma, e cioè che sia lo stesso produttore del sottoprodotto o a reimpiegarlo nello stesso ciclo produttivo o a commercializzarlo direttamente per il consumo o per un reimpiego in altri processi produttivi. In altri termini, anche ai sensi del d.lgs. 152-06, il produttore non “si disfa” del residuo produttivo quando o riutilizza direttamente “tal quale” oppure lo commercializza a condizioni per lui economicamente favorevoli perché venga riutilizzato in altri cicli produttivi. Per escludere la disciplina sui rifiuti, quindi, è necessario che a destinare il sottoprodotto al riutilizzo senza trattamenti di tipo recuperatorio sia lo stesso produttore e non un semplice detentore cui la sostanza sia stata conferita a qualche titolo”;

-          che neppure è applicabile la categoria di materia prima secondaria, introdotta dal d.lgs. 152-06 al fine di escludere dalla disciplina sui rifiuti quelle sostanze che sin dall’origine o dopo adeguate operazioni di recupero, posseggono specifiche caratteristiche tecniche fissate con Dm e sono idonee a essere usate come materie prime in un processo produttivo industriale o commerciale (v. articolo 183 lett. q) in relazione all’articolo 181, commi 6, 12 e 13; nonché articolo 183, lett. u) per MPS da attività siderurgiche e metallurgiche). Infatti “nella fattispecie concreta non ricorre quell’elemento essenziale della MPS che è dato dalla conformità alle caratteristiche tecniche fissate con Dm. Infatti, in attesa della emanazione dell’apposito decreto ministeriale, continuano ad applicarsi per espressa disposizione transitoria (articolo 181, comma 6) le norme di cui al Dm 5-02-1998 (per i rifiuti non pericolosi) o al Dm 161-02 (per i rifiuti pericolosi). Orbene, da una parte non v’è prova che le sostanze depositate presso il capannone della …. rispettassero le caratteristiche tecniche specifiche richieste da questi decreti ministeriali; dall’altra manca la prova, che questi materiali siano stati effettivamente e oggettivamente destinati all’utilizzo in cicli di produzione o di consumo, come espressamente richiesto dagli stessi decreti ministeriali (l’articolo 3, comma 3, del Dm 5-02-1998 e l’articolo 3, comma 5, del Dm 161-02 stabiliscono infatti che restano sottoposti al regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati in modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione)”.

[57] Cass. Sez. III n. 13754 del 4-04-2007 (ud. 28-02-2007), Romano, pur riconoscendo che nella parte seconda, sezione quarta, allegato X del d.lgs. 152-2006 alla lettera f) si fa effettivamente riferimento alla sansa di oliva disoleata, ha rilevato che la sansa in questione, per essere utilizzata come combustibile, deve avere "caratteristiche riportate nella tabella seguente, ottenute dal trattamento delle sanse vergini con n-esano per l\'estrazione dell’olio di sansa destinato all\'alimentazione umana, e da successivo trattamento termico" e che "i predetti trattamenti siano effettuati all\'interno del medesimo impianto". "Tali requisiti, nel caso di impiego del prodotto al di fuori dell\'impianto stesso di produzione devono risultare da un sistema di identificazione conforme al punto 3\'\'. Da ciò si ricava che il riutilizzo della sansa richiede una trasformazione preliminare, per cui si deve escludere che la stessa possa rientrare nel concetto di sottoprodotto, sia alla luce della nozione individuata dalla Corte di Giustizia Europea nella vigenza della pregressa normativa, sia anche in relazione al d.lgs. 152-2006 che, oltre ad avere abrogato l\'art. 14 L. 138-2002, all\'art. 183 lettera n), nel definire il sottoprodotto, ribadisce la necessità che per l\'impiego non si rendano necessarie operazioni preliminari ed, inoltre, che l\'utilizzazione del sottoprodotto debba essere certa e non eventuale.

[58] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 14323 del 7-04-2008 ( c.c. 4-12- 2007), PM in proc. Gervasini ed altri, secondo cui non poteva parlarsi di sottoprodotto sia perché le sostanze erano state sottoposte ad attività di trasformazione preliminare, sia per la mancanza di prova circa le condizioni economiche alle quali il materiale veniva ceduto dalla impresa estera per essere impiegato in altro ciclo produttivo, prevedendo l’art. 183, lett. n) che la commercializzazione deve avvenire a "condizioni economicamente favorevoli".

[59] Viene poi eliminata l’inclusione tra i sottoprodotti delle ceneri di pirite e delle polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale.

[60] Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 44295 del 28-11-2007 (ud. 7-11-2007), P.M. in proc. Pellegrino (fattispecie di accumulo di materiali residuati dalla lavorazione dei blocchi di marmo, con conseguente integrazione prima della fattispecie del deposito incontrollato di rifiuti e, successivamente, della realizzazione di una discarica abusiva).

[61] Conformi VERGINE e PANELLA, Rifiuti, materie prime, sottoprodotti: una storia infinita (nota a Cass. Pen. n. 44295/2007), in Ambiente & Sviluppo, 2008, V, 443, i quali osservano : “l’aver precisato, prima di confermare che l’utilizzo avrebbe dovuto essere certo e non eventuale, la necessità della «destinazione ad un ulteriore impiego» e, quindi, l’aver sostituito la locuzione utilizzata in precedenza - «i materiali possono essere e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati» - con la nuova e successiva nel testo del disposto - «l’utilizzazione ... deve essere certa» - crediamo costituiscano segnali significativi della volontà del legislatore di chiarire che non necessariamente dovesse esserci contestualità tra produzione del sottoprodotto e riutilizzo - condizione che, in natura, crediamo, di quasi impossibile realizzazione - ma che dovessero essere fornite dall’imputato le prove che quel materia le era destinato con certezza, e non come mera eventualità, a un ulteriore utilizzo”. Gli A. richiamano Cass. pen., Sez. III, sent. n. 38511 del 18-10-2007 (ud. 9-10-2007), Castiglione, secondo cui la nozione di "sottoprodotto" da lavorazione è strettamente legata alla prova positiva della destinazione, senza necessità di ulteriore trasformazione, dei materiali all\'impiego nel ciclo produttivo aziendale o alla destinazione a terzi per l\'impiego diretto.

[62] In tal senso Cass. Pen., Sez. III sent. n. 14557 dell’11-04-2007 (ud. 21-12-2006), Palladino.

[63] Osserva POMINI, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti alla luce delle linee giuda della Commissione CE, della (proposta di) nuova direttiva sui rifuti e della riforma del decreto legislativo 152/2006: si attenua il divario tra Italia e Unione Europea?, in Riv. giu. amb., 2008, II, 356, che ”tale novità permette di superare, quanto meno con riferimento a questo specifico aspetto, il contrasto tra la normativa italiana e la ricostruzione del concetto di sottoprodotto così come elaborato dalle istituzioni comunitarie .. laddove queste insistono nel circoscrivere il reimpiego dei residui di produzione alla sola ipotesi della loro utilizzazione comunque all’interno di un ciclo produttivo”.

[64] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 28246 del 10-07-2008 (ud. 15-05-2008), Piscedda, secondo cui  “la disciplina comunitaria in materia di salvaguardia dell\'ambiente e della salute impone in sede interpretativa una lettura delle disposizioni legislative che abbia come obiettivo prioritario la prevenzione e la massima tutela degli interessi e dei diritti fondamentali oggetto di salvaguardia. E tale obbligo deve essere dal giudice nazionale rispettato nel momento in cui si trova ad applicare il D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 14 (riferimento errato, trattandosi dell’art. 183), anche nelle parti in cui opera riferimento al "riutilizzo" in ciclo produttivo”.

[65] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 31462 del 29-07-2008 (ud. 12-06-2008), PM in proc. De Colle.

[66] Corte di Giustizia Sez. III, 18 dicembre 2007, causa C‑263/05: “ La Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, ……. è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE.” E Sez. III, 18 dicembre 2007, causa C‑194/05:” Nella misura in cui l’art. 10 della legge 23 marzo 2001, n. 93… e l’art. 1, commi 17 e 19, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, … hanno escluso dall’ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di quelli provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CE”.

[67] Conformi PAONE, I sottoprodotti tra diritto comunitario, Testo Unico e «secondo decreto correttivo», in Ambiente & Sviluppo, 2008, VI, 517; POMINI, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti.., cit.                                                       

[68] Sostanzialmente conforme sembra essere PAONE, I sottoprodotti tra diritto comunitario, Testo Unico e «secondo decreto correttivo», cit.

[69] Cass. Sez. III, sent. n. 33882 del 9-10-2006 (c.c. 15-06-2006), P.M. in proc. Barbati (rv. 235114):” I materiali residuanti dalla attività di demolizione edilizia conservano la natura di rifiuti sino al completamento delle attività di separazione e cernita, in quanto la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica sino al completamento delle operazioni di recupero, tra le quali l\'art. 183 lett. h) d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 indica la cernita o la selezione“.Analogamente Sez. III, sent. n.  32207 del 7-08-2007 (Cc 11-07- 2007), Mantini affermava che si doveva escludere la natura di sottoprodotto nell’ipotesi di sostanza che necessitava di "trasformazione preliminare" per la sua utilizzabilità in un successivo processo produttivo, in quanto “tale è l\'operazione di cernita e pulitura che modificano l\'identità della sostanza considerato che lo stesso art. 183, comma I, lett. n), prevede la (sola) cernita come operazione che è di per sé qualificabile come di recupero dei rifiuti”; Sez. III, sent. n.  5804 del 6-02-2008 (ud. 19-12-2007), PM in proc. Gallotti: “Le operazioni di cernita e selezione della carta o cartone da macero poste in essere dalle imprese fornitrici della cartiera devono inquadrarsi tra quelle di recupero dei rifiuti e, quindi, soggette alla relativa disciplina anche se, in ipotesi, riferibili a materie prime secondarie”. Per note critiche alla decisione si rinvia a FIMIANI, Mps, il macero in cartiera è  rifiuto, in Rifiuti, n. 6/2008,  34.

[70] Peraltro in linea con la norma comunitaria (si veda la definizione di recupero nella Dir. 2006/12/CE del 5 aprile 2006).

[71] In dottrina, riguardo al concetto di trattamenti preventivi, si registrano due posizioni. GIAMPIETRO, La Corte di Giustizia amplia la nozione di rifiuto limitando il riutilizzo del «tal quale», in Ambiente & Sviluppo, 2003, I, 64. L’espressione trasformazioni preliminari va interpretata nel senso di «operazioni di recupero complete» per cui è lecito sottoporre il residuo a «trattamenti preliminari», come la selezione, la compattazione, la cernita, ecc., che non modificano radicalmente le proprietà e le caratteristiche del residuo (come avviene in esito ad operazioni di recupero completo). PAONE, I sottoprodotti tra diritto comunitario, Testo Unico e «secondo decreto  correttivo», cit., critica tale orientamento “ perchè la Corte ha più volte chiarito che il residuo deve essere utilizzato «tal quale», il che non può avere altro significato se non quello che debba già essere pronto per l’impiego nel momento in cui si origina dal processo produttivo. Non è perciò ammissibile che su di esso vengano eseguite operazioni, anche minimali, quali la cernita o selezione, la separazione, la vagliatura, l’adeguamento volumetrico sotto forma di compattamento, frantumazione, macinazione ecc., che, pur non intervenendo in modo radicale sull’identità merceologica della sostanza, abbiano tuttavia la funzione di modificare comunque il materiale per consentirne il suo inserimento in un nuovo ciclo produttivo. Per chiarire il concetto, si può dire che i materiali che si ottengono a seguito di una cernita o di una frantumazione sono diversi, quanto a composizione o consistenza, rispetto al materiale di partenza. Perciò, se solamente dopo la cernita (e/o qualsiasi altra trasformazione che ne modifichi l’identità ) si ricavano materiali o prodotti pronti per l’impiego in un altro ciclo produttivo, vuol dire che il residuo non è utilizzabile «tal quale» e perciò non è un sottoprodotto, ma un rifiuto che va previamente recuperato”. POMINI, Rifiuti, residui di produzione e sottoprodotti.., cit. si esprime in senso critico verso la limitazione del riutilizzo al c.d. “tal quale” osservando come ciò “ potrebbe determinare, in concreto, una forte limitazione dell’operatività della norma, dal momento che tra i trattamenti preventivi necessari per soddisfare i requisiti merceologici del reimpiego potrebbero includersi anche tutte quelle operazioni che, senza alterare lo stato fisico e chimico dei residui, siano comunque necessarie per adattarli, anche solo sotto il profilo delle caratteristiche dimensionali, al nuovo utilizzo”. 

[72] Non sembra cogliere tale prospettiva Cass. pen., Sez. III, sent. n. 35235 del 12-09-2008 (c.c. 10-07-2008), Cioffi che si limita ad affermare che “il residuo del processo produttivo non viene abbandonato, ma gestito come sottoprodotto se il detentore o produttore di sostanze ricavate da un processo produttivo destinato principalmente ad altre produzioni riceve un vantaggio economico anche dall’utilizzo dei residui “.

[73] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 23274 del 10/02/2004, Wanderling (rv. 228728).