Nuova pagina 2

I MATERIALI QUOTATI IN BORSA, DA RIFIUTI RECUPERABILI, TORNANO PRODOTTI….
di Pasquale GIAMPIETRO

Nuova pagina 1

1.      Premesse storiche

Con il decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, entrato in vigore lo stesso giorno della sua pubblicazione e convertito in legge  n. 178 dell'8 agosto 2002 (in S.O. n. 168 della Gazz. Uff. 10 agosto 2002, n. 187), il legislatore italiano ha introdotto, nel nostro ordinamento giuridico, una norma (art. 14) di "interpretazione autentica della definizione di rifiuto, di cui all'art. 6, comma 1, lett. a) del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22" (più noto come "decreto Ronchi"), volta a meglio definire  gli esatti termini di tale nozione giuridica  la quale, fra l'altro,  mi sembra sia destinata ad incidere, in modo significativo e diretto, su quei residui di produzione e  di consumo da tempo indicati come "materiali quotati in borsa".

Si tratta di quelle sostanze, già individuate ed elencate nell'Allegato I del D.M. 5 settembre 1994, con le relative "specifiche merceologiche", per le quali esistevano "quotazioni" presso le borse merci o listini e mercuriali  ufficiali, istituiti presso le camere di commercio.

Tali materiali, esclusi dal campo di applicazione del DPR. n. 915/1982, dovevano essere considerati, nel previgente sistema, materie prime o prodotti, a tutti gli effetti, in quanto, pur derivando, come residui, da molteplici settori produttivi (alimentare, cartario, chimico, del cuoio, detergenti,  gomme, inerti, legno, plastiche, rottami ferrosi e non ferrosi, tessile, vetro ecc.), erano destinati al riutilizzo diretto, sostanzialmente tal quali o dopo trattamenti preliminari minimi,  avendo conservato un loro rilevante valore economico ed un proprio mercato assai attivo (si veda l'art. 2 del D.M. 1994 cit., che li denominava "residui destinati al riutilizzo", ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 5, comma 1 del d.l.  n.3/1995, cioè per la loro esclusione dal regime dei rifiuti).

Il contrasto della normativa emergenziale - sui residui produttivi  e sui materiali quotati in borsa - con la normativa comunitaria, tempestivamente evidenziata da note pronunce della Corte di giustizia (v. oltre), così  come la successiva legislazione di trasposizione delle nuove direttive comunitarie in materia di gestione dei rifiuti (attuata con il decreto Ronchi) hanno indotto il legislatore del '97 a  "ricacciare", come è noto,  i materiali quotati in borsa nell'area dei "rifiuti recuperabili".

Tanto si desume, in modo testuale e inequivocabile, dalle molte "voci" elencate  nell'Allegato 1, Suballegati 1, del D.M. 5.2.1998, in cui è dato constatare che, proprio in ordine a quei "rifiuti" (non più "residui") derivanti dagli stessi settori della carta, del  legno, del vetro, dei metalli, delle plastiche, ecc. (cioè, per parlar chiaro,  in relazione agli ex-materiali quotati in borsa), la descrizione delle "Attività di recupero" (sempre indicata in base al principio di tassatività e tipicità delle attività di recupero, ex art. 1, comma 2, dello stesso decreto), viene espressa con identica formula, impropria e generica, di "riutilizzo diretto.. nell'industria cartaria.., vetraria.. in impianti metallurgici, .. di seconda fusione", ecc…

Come dire che il "riutilizzo diretto" - di cui il Governo non fornisce alcuna specificazione, con riferimento alle attività del recupero (fra l'altro confuse con la distinta fase del riutilizzo, presso terzi, del prodotto dell'attività di  recupero… ) -  avviene  senza alcuna effettuazione, da parte dell'impresa acquirente, anche oggi come ieri, di trattamenti di "recupero" (che,  in effetti, mancano, semplicemente perché… non sono necessari)!

    

2. Gli exmercuriali  e l'art. 14.

Che sorte avranno gli ex-mercuriali - sino all'estate 2002.... rifiuti recuperabili - dopo l'ingresso, assai sofferto e contestato, dell'art. 14 del d.l. n. 138/2002 nel corpo vivo della normativa sulla gestione dei rifiuti?

Per rispondere al rilevante interrogativo (non solo teorico ma soprattutto economico, con riferimento all'evocato  mercato di quei residui produttivi) occorre chiedersi quali siano state le ragioni sostanziali (oltre a quelle contingenti) che hanno indotto il Governo ad emanare il richiamato decreto, e, immediatamente dopo, quale sia il significato "accettabile" (oltre che testualmente ricostruibile) del nuovo disposto. 

Come è noto, le ragioni occasionali di tale intervento è stato spiegato dall'Esecutivo con il  temuto blocco delle attività della industria siderurgica, a causa del sequestro di intere partite di rottami ferrosi, disposto dalla Procura di Udine, nel porto di Marghera (in quanto ritenuti rifiuti), con effetti considerati paralizzanti e di diffusa confusione tra gli operatori portuali, gli operatori commerciali e le acciaierie (che li commercializzavano e utilizzavano secondo il regime giuridico delle  merci o materie prime secondarie), "… non più in grado di programmare normalmente il lavoro, non potendo avere la certezza del flusso della materia prima necessaria alla produzione" (tanto si legge nella Relazione governativa al decreto-legge).

Ma i problemi connessi ad una più chiara definizione del concetto di rifiuto - come sostanza od oggetto destinato, dal suo detentore, ad operazioni di recupero o di smaltimento -  sono assai più complessi e remoti.

Essi risalgono alla prima legge-quadro sullo smaltimento dei rifiuti (cioè al DPR. n. 915/1982, allorché si evidenziò che, a fronte della "sostanza abbandonata o destinata all'abbandono", si davano ipotesi, diverse e contrarie, di sostanze non abbandonate ma riutilizzate); proseguono e si radicalizzano, in epoca successiva, con l'entrata in vigore del decreto Ronchi cit., ove ritroviamo chiare testimonianze di una persistente contrapposizione tra la nozione di rifiuto (sottoposto ad una disciplina assai penetrante e severa) e quella di residuo produttivo o di consumo (riutilizzabile e) riutilizzato "tal quale", dallo stesso produttore o da terzi - senza necessità di attività di recupero, vero e proprio (v., per es., l'art. 57, comma 5).

Per tale ultima evenienza, il mercato - da tempo  - chiedeva (e continua a richiedere) la non applicazione della disciplina dei rifiuti, le volte in cui il residuo risultasse già in possesso delle caratteristiche e delle proprietà  tipiche della merce tanto da essere denominato, a secondo delle normative che si sono succedute nel tempo: "materia prima secondaria, materia seconda, sottoprodotto, materiale quotato in borse,  listini, mercuriali", ecc.

Dei  gravi  contraccolpi - di contrazione e distorsione dei mercati - che alcune  posizioni rigoristiche hanno generato (e persistono a generare) sul commercio delle materie seconde e/o degli ex materiali quotati in borsa, il Governo si è mostrato, da tempo, preoccupato. Tanto che, dopo qualche tentativo abortito, nel corso della precedente legislatura, a luglio del 2002, si è determinato a ricorrere, come ricordato, all'adozione del decreto-legge n. 138/2002, poi convertito in legge dal Parlamento, invocando la necessità e l'urgenza di provvedere, in materia,  con  termini assai espliciti e di merito.[1] 

Il Parlamento, da ultimo, in sede di conversione -  partendo dalla definizione legislativa di cui all'art. 6 comma 1, lett. a), del decreto Ronchi, per cui  costituisce rifiuto "… (al fine del presente decreto) qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi"[2] e, facendo proprio l'insegnamento del giudice comunitario, secondo il quale "… l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine "disfarsi" [3] - ha ritenuto di dover intervenire sull'esatta portata semantica di tale termine,  definendone autenticamente - cioè per legge [4]- l'estensione, nelle sue tre forme possibili: "si disfi", "abbia deciso" o "abbia l'obbligo di disfarsi", in quanto, per le ragioni appena esposte, l'attività di "disfarsi" ne rappresenta l'elemento costitutivo e caratterizzante.

Se, sul piano testuale, l'art. 14, nel suo comma 1, esplicita ("interpreta autenticamente" e cioè in modo vincolante) le tre ipotesi citate, nel  comma 2, fissa le "condizioni di fatto" in presenza della quali  non ricorrono le ipotesi del "disfarsi" (cioè i presupposti fattuali considerati costitutivi della nozione di rifiuto). 

Si comprende, pertanto, che la parte più innovativa della norma consiste proprio nella determinazione delle condizioni in presenza delle quali non si dà alcuna  attività di "disfarsi".

3. Il "disfarsi" come "trattamento recuperatorio", non riguarda i materiali quotati.

Il secondo comma dell'art. 14 risulta, dunque, del seguente tenore:

"Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:

a)      se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;

b)      se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22[5].

Pur con imperdonabili approssimazioni espressivi, nella  lett. a), del comma 2 (che sembra essere stato pensato espressamente anche per gli ex-materiali quotati in borsa) si prevede che i "… materiali residuali di produzione o consumo" siano riutilizzati: 

·        "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento" (espressione che va letta, con riferimento alla nozione comunitaria di "disfarsi",  come se dicesse: "senza subire alcun intervento di recupero completo"[6]);

·         e "senza recare pregiudizio all'ambiente". Tale ultima condizione, concorrente e non alternativa,  va interpretata nel senso che il residuo produttivo o di consumo, dovendo possedere "le caratteristiche e le proprietà della materia prima"[7], o non inferiori ad esse - tanto da essere riutilizzato presso il produttore o presso terzi, "tal quale" - non dovrà altresì connotarsi per caratteristiche di pericolo per l'ambiente,  gli addetti e i terzi (durante le operazioni di raccolta, trasporto ecc. sino al riutilizzo) superiori a quelle delle materie prime corrispondenti (tale requisito si impone logicamente e sistematicamente in entrambe le ipotesi del comma 2, anche se, per svista materiale, non è stata ripetuta sub lett. b).

Quanto alla fattispecie della  lett. b), del comma 2, l’esclusione è introdotta nel caso in cui detti residui siano riutilizzati:

·        dopo aver subito "un trattamento preventivo", (ma) "senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate dall'allegato C del decreto legislativo n. 22" (anche tale ipotesi risulta riferibile agli exmercuriali sottoposti dai loro acquirenti a trattamenti minimali che, non alterando le caratteristiche merceologiche el residuo, si rendano, però, necessari alla loro riutilizzazione in un nuovo e distinto processo produttivo). 

Merita innanzi tutto rilevare che le lett. a) e b) del comma 2, appena trascritte,  presuppongono l’assenza tanto di operazioni di "smaltimento" (atteso il presupposto fattuale che i residui stessi "…possano essere e sono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo.. analogo .. o diverso ciclo produttivo o di consumo") che di operazioni di recupero, come espressamente indicato nella ultima frase della lett. b), già richiamata: "senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero….".

Tale ultima condizione è ovviamente comune alla lett. a),  anche se espressa, in quest'ultima lettera, assai approssimativamente, con l’infelice formula "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento" (da intendere: senza "operazioni di recupero completo", per esprimerci con le parole della decisione Arco cit.).

4. Il riutilizzo diretto degli exmercuriali senza "interventi preventivi".

Si tratta ora di meglio specificare in  che cosa consistano detti  "interventi preventivi di  trattamento"  - cui fa riferimento il legislatore, alla lett. a) del comma 2, dell'art. 14 - applicabile ovviamente anche ai residui produttivi già quotati in borsa.

La risposta all'interrogativo non può prescindere da una soluzione che sia rispettosa del  diritto comunitario, per il quale solo "le operazioni di recupero" dell'allegato C" (ripetitivo dell'allegato II B della direttiva 156 cit.) costituiscono "la condizione" per l'esistenza giuridica stessa del rifiuto ("sostanza od oggetto di cui il detentore si disfa").

Su tale premessa deve quindi concludersi che gli "interventi preventivi di trattamento", indicati dal legislatore italiano, costituiscono nozione (ed espressione) coincidente con quella comunitaria di "operazioni di recupero completo".

In altri termini, il comma 2, lett. a) esclude che si possa considerare sottoprodotto (exmercuriale o materiale quotato in borsa) un residuo produttivo o di consumo che, per essere riutilizzato, necessiti di un preventivo trattamento di "recupero completo".

Tale conclusione risulta logicamente e sistematicamente confermata dalla lettura contestuale  della lett. b) - la quale ribadisce  che  il riutilizzo "possa e sia effettivamente compiuto… senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero.. ex allegato C" (dando applicazione  alla stessa regola).[8]

Ma, allora, come spiegare quanto risulta aggiunto dal legislatore italiano, sub lett. b ("dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero…")?

Tale proposizione si presenta, a ben intendere, come semplice esplicitazione di una distinzione ormai consolidata nella giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui,  ".. il trattamento preliminare" - contrapposto alle operazioni di recupero completo - non "è sufficiente a far  perdere [alla sostanza] le caratteristiche di rifiuto" (cfr. sentenza Arco, cit. punti 93-94). 

Il "trattamento preventivo" della lett. b) - distinto dalle "operazioni di recupero .. di cui all'allegato C del decreto legislativo n. 22" - altro non é che il "trattamento preliminare" (del lessico comunitario)[9]. 

Ci si deve, in definitiva riferire a quegli interventi preliminari e minimali (quali la selezione, separazione, compattamento, cernita, vagliatura, frantumazione, macinazione ecc. del residuo) che, lungi dal modificare l'identità merceologica della sostanza o dell'oggetto, risultano però funzionali al suo inserimento/adeguamento al nuovo ciclo produttivo o alla linea specifica di produzione cui si intende destinarlo, per essere riutilizzato "nella sua identità" primaria sostanziale.

5. Conclusioni.

I materiali quotati in borsa,  in definitiva, ove "direttamente utilizzati" dai loro acquirenti (come previsto in molte voci del D.M. 5.2.1998 cit.), sono da escludere dall'area di applicazione della nozione di rifiuto in quanto, ai sensi del nuovo art. 14,  possono e sono di fatto ed oggettivamente riutilizzati, in diversi cicli produttivi, da imprese terze, "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento recuperatorio (ex comma 2, lett. a).

Resta ferma la possibilità e la legittimità che essi vengano  sottoposti - da detti acquirenti - a "trattamenti preliminari" che non siano "operazioni di recupero di cui all'allegato C del decreto legislativo n. 22" (ai sensi della comma 2, lett. b).

Verso tali conclusioni si sta, da ultimo, orientando anche il giudice di legittimità, nelle sue più recenti e prevalenti pronunce, non tanto con riferimento espresso agli exmercuriali ma, più in generale, in relazione ad ogni specie di  residuo produttivo, per il solo fatto di essere una sostanza o materiale   effettivamente destinate all'immediato riutilizzo[10].   

Sotto altro profilo, la denunciata incompatibilità, fra la nuova definizione legislativa di rifiuto - costituente interpretazione autentica e vincolante dell'art. 6, comma 1, lett. a) del decreto Ronchi - e le precedenti previsioni del decreto ministeriale 5.02.1998,  comporta l'abrogazione, in parte qua,  delle voci di  quest'ultimo relative ai residui di produzione e consumo riutilizzati "tal quali" (cioè senza preventive "operazioni di recupero" completo).

E' noto, infatti, che nel rispetto della "gerarchia delle fonti" del diritto, come prevista dall'art. 1, delle "Disposizioni sulla Legge in Generale" (dette "preleggi" al codice civile), il regolamento (nel caso: il D.M. 5.2.1998) viene posto in posizione subordinata alla legge (nella fattispecie: la legge n. 178/2002, di "interpretazione autentica") e pertanto non può contraddire ad essa, pena la sua illegittimità.

Peraltro, ove la "interpretazione autentica della definizione di rifiuto" - di cui all'art. 14 -  sia  ritenuta restrittiva rispetto a quella, più ampia, dell'art. 6, cit. - essa prevarrebbe comunque su quest'ultima, proprio perché il legislatore, nell'interpretare autenticamente una precedente norma, può innovare e/o modificare il suo contenuto (per es. ampliandolo o, come nel caso, secondo l'opinione prevalente, riducendolo, con conseguente caducazione e/o superamento di ogni  interpretazione difforme da quella autenticamente decisa dal Parlamento)[11], in forza del meccanismo previsto dall'art. 15, delle "preleggi" cit.[12]

Ovviamente la modificazione della norma primaria (grazie all'art. 14) comporta l’implicita e conseguente caducazione (per illegittimità derivata) di tutte quelle norme regolamentari (come il decreto ministeriale sul recupero del 1998, appena cit.) che ne costituivano esecuzione e/o attuazione [13].


[1] Si legge infatti, nella "Relazione" di presentazione del decreto, che "…Le iniziative della magistratura…. traggono la loro origine da un'interpretazione particolarmente restrittiva e contestabile della normativa sui rifiuti ed in particolare della definizione di "rifiuto", che costituisce il principale nodo irrisolto della normativa ambientale.

Questo problema è particolarmente acuto nel nostro Paese dove l'impiego di materiali poveri o di secondo impiego è largamente e tradizionalmente diffuso a causa della povertà di materie prime.

 Sono molti i settori industriali italiani, dalla siderurgia al vetro, dalla carta al legno, per i quali la disponibilità e la possibilità di impiego di questi materiali sono condizione essenziale per mantenere la competitività sul mercato.

Se questi materiali sono soggetti alla normativa dei rifiuti, il loro impiego diventa aleatorio a causa delle prescrizioni ambientali, tecniche e burocratiche, che disciplinano il settore.

Il problema non è per altro solo italiano; tutti i paesi comunitari hanno manifestato alla Commissione Ue la necessità di chiarire la definizione di "rifiuto" (che è contenuta in una direttiva comunitaria) per evitare che cautele legittime e giustificate se applicate ai rifiuti, divengano vincoli ingestibili per le materie prime di cui l'industria ha necessità. I tempi comunitari sono però lunghi, incompatibili con le esigenze delle attività industriali…. (omissis).

Diventa quindi necessario risolvere il problema intervenendo sul piano legislativo, recuperando l'interpretazione autentica della definizione di "rifiuto" nel testo approvato dal Senato."

 

[2] Definizione che ripete fedelmente quella comunitaria di cui all'art. 1, lett. a) della direttiva 91/156 CEE.

[3] V. sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I-7411, punto 26), per la quale: "Risulta inoltre dalle disposizioni della direttiva 785/442, come modificata, in particolare dagli artt. 4 e 8-12, nonché dagli allegati II A e II B, che detto termine ("disfarsi") include al contempo lo smaltimento e il recupero di una sostanza o di un  oggetto" (p. 27 sentenza da ultimo cit.)".

Conformemente alla giurisprudenza della stessa Corte, il termine "disfarsi" va interpretato tenendo conto delle  finalità della direttiva" (v., in particolare, sentenza 28 marzo 1990, cause riunite C-206/88 e C-207/88, Vessoso e Zanetti, Racc. pag. I-1461, punto 12" e  punti 36 e 37 della sentenza Corte di Giustizia, sez. V, del 15 giugno 2000, Arco).

[4] Secondo la migliore dottrina giuridica " L'interprete autentico della legge può esseri soltanto il legislatore. Le leggi interpretative non sono, in quanto tali, costituzionalmente illegittime  (cfr. Corte Cost. n. 167/1986). Non  diversamente dalle altre leggi esse innovano l'ordine legislativo preesistente (v. Corte Cost. n. 123/1988); sono retroattive (v. Corte Cost. 373/1988), salvo in materia penale e tributaria; ed obbligano gli interpreti [cioè la magistratura e la Pubblica Amministrazione] ad attribuire alla legge interpretata il significato voluto dal legislatore e nessun altro (v., già, Cass. nn. 168 e 843/1957). Le espressioni precedenti sono di R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti", Giuffrè, 1998, pag. 185.

 

[5] Le reazioni della magistratura, delle amministrazioni pubbliche, centrali e locali, e degli studiosi  - dopo l'entrata in vigore dell'art. 14 - sono state diffusamente critiche. Non tanto per il suo contenuto innovativo (largamente condiviso) quanto per il tenore testuale del disposto, criticamente censurato per la sua sciatta approssimazione. Di fronte a questo atteggiamento ora critico ora incerto, anche gli operatori hanno assunto una posizione attendista. Ma le ultime, e più recenti, sentenze della Corte di Cassazione  - con cui si è data  applicazione del disposto (v. oltre nel testo), ritenuto, allo stato,  legittimo e vincolante -  stanno completamente modificando e superando la prima fase di perplessità.… Per una più puntuale rappresentazione di tale situazione iniziale, v. P. Giampietro, La nozione autentica di rifiuto: dalla incostituzionalità della legge alla sua disapplicazione, in Ambiente, n. 12/2002, pag. 1133, e, da ultimo,……..

[6] Secondo le precisazioni terminologiche e logiche dei punti 93 della sentenza Arco, cit., del seguente tenore: " I governi che hanno presentato osservazioni nonché la Commissione ritengono sostanzialmente che il fatto che i rifiuti di cui trattasi … siano stati oggetto di previe operazioni di cernita  e di trasformazioni in trucioli  non sia sufficiente per far loro perdere le caratteristiche del rifiuto. Siffatte operazioni non costituiscono un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva bensì un semplice trattamento preliminare dei rifiuti. Una sostanza perderebbe le caratteristiche di rifiuto  unicamente se sia stato oggetto  di un'operazione di recupero completo ai sensi dell'allegato II B  della direttiva, cioè se possa essere trattata nello stesso modo  di una materia prima ovvero, nel caso di specie,  se il potenziale materiale energetico del rifiuto è stato utilizzato nella combustione"..

[7] Come si legge nella decisione Arco, a punto  94 e nella successiva sentenza della Corte, Granit Palin Oy del 18 aprile 2002, a punto  35, della motivazione. La formulazione, troppo sintetica, citata nel testo ("senza recare pregiudizio all'ambiente"), nella correzione auspicata dell'art. 14, dovrà essere ripetuta nella lett. b) del comma 2 ed esplicitata meglio (come suggerivo, a suo tempo, a modifica del disegno di legge dell'on. Giovanelli, cit. a nota 1,  nei seguenti termini: "… c) a condizione che, nelle ipotesi sub a) e b)," [casi di esclusione del disfarsi]" la sostanza o l'oggetto presenti caratteristiche merceologiche, sanitarie ed ambientali conformi alla normativa tecnica di settore e comunque tali da non creare pericolo per la salute pubblica o per l'ambiente maggiore di quello che può derivare dalle caratteristiche proprie dei prodotti industriali".

[8] I preventivi "trattamenti" preliminari dei "residuali di produzione o di consumo" della lett. b) -  quali, per es., di selezione, separazione, compattamento, cernita, vagliatura, frantumazione, macinazione, ecc. -   non fanno perdere al residuo la sua identità, cioè le caratteristiche merceologiche di qualità (standard) e/o le proprietà  che esso già possiede, equivalenti a quelle della  "materia prima primaria".

[9] In base alla stessa logica, anche se in una ipotesi rovesciata, il legislatore italiano considera che tali "trattamenti preliminari" ("senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero" completo ex all. C") non modificano sostanzialmente la natura dei "residui produttivi o di consumo" previsti dal comma 2, lett. b), i  quali sono e restano  utilizzabili  "tal quali" in quanto  già possiedono (prima dei trattamenti preliminari) e dunque conservano (dopo i trattamenti preliminari) dette proprietà e caratteristiche, comuni alla materia prima primaria.
 

[10] V. Cass. pen. III sez. 11.02.03, ric. Mortellaro, secondo cui “… i materiali di sbancamento di una pubblica via, riutilizzati tal quali sul posto, non rientrano nella nozione di rifiuto. La novità della legge (art. 14, 2° comma) riguarda l’esclusione dal concetto di rifiuto di “beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo” ove ricorra la condizione dell’effettivo ed oggettivo riutilizzo e, nel caso concreto, non sia ravvisabile un pregiudizio per l’ambiente….. Nel caso in esame, non si è neppure posto il problema del – contestato – abbandono di rifiuti di provenienza esterna al luogo in cui veniva operata la manutenzione della conduttura fognaria comunale, ma al contrario vi è stato un riutilizzo degli stessi materiali scavati”.

Per  Cass. pen. III sez. 31.07.03, ric. Agogliati ed altri, in un caso di trasporto di miscele  e residui oleosi (slops) è  “… indubbio indice a favore del concetto di “prodotto” e non di “rifiuto” degli stessi, la circostanza (non opportunamente valutata dal giudice del riesame) del “notevole valore economico intrinseco del bene e la destinazione finale nel ciclo dell’ulteriore produzione e consumo.. ” nonché “..l’integrale riutilizzo in tempi certi attraverso contratti e altri accordi”, circostanza che spiegava la ragione della produzione e importazione degli stessi da parte della Società ricorrente.

Nella nota vicenda del  riutilizzo di rottame ferroso e di assali di treno importati dall'estero da società italiane e destinati alle fonderie per la produzione dell'acciaio (perché non più utilizzabili per gli scopi originari), la stessa Cassazione, con recentissima decisione della III° sez. pen. del 13.11.02,  ricorrente Pittini (il quale  impugnava la convalida del sequestro preventivo di circa 2000 kg di rottame ferroso, contestando la qualificabilità dello stesso come rifiuto), ha avuto modo di affermare: “… Con riferimento… al caso dei residui riutilizzati senza trattamento, bisogna fissare il principio che: quando non vi sia necessità di trattamento, ma possibilità di riutilizzo immediato nel ciclo produttivo non si possa parlare di rifiuto ma di materia prima secondaria, di per sé riutilizzabile.  Con riguardo, pertanto, alla fattispecie in esame bisogna allora dire che il rottame ferroso, riutilizzato di per sé, senza alcuna operazione di trattamento preliminare, è inquadrabile in quest’ultimo caso: con la conseguente inapplicabilità della normativa relativa ai rifiuti

Analogamente il  TAR Veneto, sentenza n. 3479/2003, con riferimento al caso di una società produttrice di “elementi prefabbricati di calcestruzzo”, che impiegava quelli risultati fallati  per realizzare “il sottofondo del piazzale” (di cui era stata  ordinata  dal Comune  “la rimozione e lo smaltimento"). Su tale punto il giudice amministrativo ha accolto il ricorso sulla base della considerazione che detto calcestruzzo “..non può, nel caso in esame, essere definito come rifiuto…... in quanto utilizzato tal quale, come materia prima, senza ulteriori trattamenti.

 

[11] Tesi pacifica in dottrina, v., in tema,  R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Giuffrè, 1998, pag. 185, cit. retro a nota 4. L'illustre A. osserva che: "l'interprete autentico della legge pertanto può essere soltanto il legislatore. Le leggi interpretative innovano l'ordine legislativo preesistente (Corte Cost. 123/1988) ed obbligano gli interpreti ad attribuire alla legge interpretata il significato voluto dal legislatore e da nessun altro (Cass. 168/1957; 843/1957).

[12] Che detta: " Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore".

  [13] In proposito la  Cassazione (sez. III, 29 gennaio 2003, ric. Passerotti, in Foro it. 2003, II, col. 116) ha invitato  il giudice di rinvio, previo annullamento dell'ordinanza impugnata,  ad accertare in negativo - per dichiarare la presenza del residuo-rifiuto - che non ricorrano le condizioni di esclusione del comma 2 dell'art. 14: "senza recare pregiudizio all'ambiente" e "senza operazioni di recupero" completo.  Nella prima parte della stessa sentenza  la S.C. osserva: " Comunque, la nuova norma, benché modificativa della nozione di rifiuto dettata dall'art. 6 lett. a) D.Lgs. 22/997, è vincolante per il giudice, in quanto introdotta con atto avente pari efficacia legislativa della norma precedente. Inoltre, benché modificativa anche della nozione di rifiuto dettata dall'art. 1, della direttiva europea 91/156/CEE (letteralmente trasposta nel citato art. 6 D.Lgs.), essa resta vincolante per il giudice italiano, posto che tale direttiva non è auto applicati va (self executing). E' indiscutibile, infatti, che essa costituisce obblighi per gli stati della Comunità (Unione) Europea e non direttamente situazioni giuridiche attive o passive per i soggetti intrastatali, sicché ha necessità di essere (fedelmente) recepita dagli ordinamenti nazionali per diventare efficace verso questi ultimi.

Il contrasto con la direttiva europea, semmai, può costituire oggetto di intervento della Commissione che può aprire una "procedura di infrazione" contro lo Stato italiano, sino ad adire la Corte di Giustizia, in caso di non adeguamento dello Stato al parere motivato della stessa Commissione, ai sensi dell'art. 226 (già 169) del Trattato di Roma. Neppure può dirsi che il giudice abbia il potere o il dovere, ex art, 234 (già 177) del Trattato, di adire direttamente la Corte di Giustizia per acquisire un’interpretazione pregiudiziale dell'atto europeo, non solo perché la direttiva europea è di chiara interpretazione, ma soprattutto perché, nella fattispecie, a dover essere interpretata è, semmai, la norma italiana e non quella europea. In altri termini, l’interpretazione pregiudiziale, che compete alla Corte di Giustizia, riguarda il Trattato o gli atti delle istituzioni della Comunità e della BCE, non già gli atti del legislatore nazionale. Così, stabilita l'applicabilità diretta ed immediata della norma di legge sopravvenuta, si tratta quindi di rivalutare la fattispecie concreta in esame alla luce della nuova norma".