Sez. 3, Sentenza n. 24046 del 28/04/2006 Cc. (dep. 12/07/2006 ) Rv. 234473
Presidente: De Maio G. Estensore: Franco A. Relatore: Franco A. Imputato: Cangemi. P.M. Fraticelli M. (Conf.)
(Annulla con rinvio, Trib. lib. Salerno, 14 ottobre 2005)
SANITÀ PUBBLICA - IN GENERE - Terre e rocce da scavo - Disciplina di cui alla legge n. 443 del 2001 - Ambito di riferibilità - Individuazione.

In tema di gestione dei rifiuti, l'art. 1, comma diciassettesimo della legge 21 dicembre 2001 n. 443 (cosiddetto legge obiettivo), ai sensi del quale non costituiscono rifiuti le terre e rocce da scavo, anche quando contaminate durante il ciclo produttivo, esclude la natura di rifiuto anche per tutti i materiali, ancorché inquinanti, la cui utilizzazione si è resa necessaria per procedere materialmente alle attività di escavazione, perforazione e costruzione di gallerie.



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. DE MAIO Guido - Presidente - del 28/04/2006
Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere - SENTENZA
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - N. 486
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere - N. 8694/2006
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CANGEMI Gianluca;
avverso l'ordinanza emessa il 14 ottobre 2005 dal tribunale di Salerno, quale giudice del riesame;
udita nella udienza in Camera di consiglio del 28 aprile 2006 la relazione fatta dal Consigliere Dott. Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRATICELLI Mario, che ha concluso per l'annullamento con rinvio della ordinanza impugnata;
uditi i difensori avv. Francesco Terzi ed avv. Giovanni Riccardi. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con Decreto 30 agosto 2005 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Salerno dispose il sequestro preventivo di alcune aree nei confronti di Cangemi Gianluca in relazione ai reati di cui: a) al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 51, comma 1 e 3, per avere effettuato attività di gestione di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da terra, rocce di scavo e rifiuti misti provenienti da attività di demolizione; b) al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, lett. c), per avere riempito con i detti rifiuti alcune cave senza permesso di costruire; c) al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, per avere eseguito le dette opere in zona sottoposta a vincolo senza la prescritta autorizzazione; d) all'art. 734 cod. pen..
Il tribunale del riesame, con ordinanza del 14 ottobre 2005, respinse la richiesta di riesame osservando tra l'altro:
- che nelle cave in questione era stato depositato un miscuglio di terreno e rocce da scavo e rifiuti misti della attività di costruzione e demolizione proveniente dai lavori di costruzione di un tratto della autostrada Salerno-Reggio Calabria, e che si trattava di rifiuti speciali non pericolosi;
- che non poteva applicarsi nella specie la L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, comma 17, perché si era in presenza di un rifiuto sia pure non pericoloso, dal momento che con il terreno e le rocce da scavo erano mischiate miscele cementizie, sicché il suo reimpiego da parte anche di soggetti diversi da chi l'aveva prodotto richiedeva le prescritte autorizzazioni o denunzie;
- che quindi sussisteva il fumus del reato di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 51, perché il materiale in questione era stato riutilizzato per riempire le cave, e così era stato recuperato senza autorizzazione o comunicazione;
- che era irrilevante la avvenuta approvazione del progetto per la realizzazione dei lavori di ammodernamento ed adeguamento del tratto autostradale, che aveva ottenuto la positiva valutazione di impatto ambientale, perché ciò non derogava alla normativa sui rifiuti;
- che sussisteva anche il fumus del reato urbanistico e di quello ambientale perché l'intervento era idoneo a comportare un notevole mutamento dell'assetto del territorio ed un danno all'ambiente;
- che gli atti autorizzativi delle competenti autorità non erano surrogabili dal provvedimento di autorizzazione della conferenza dei servizi sui lavori di ammodernamento della autostrada. Il Cangemi propone ricorso per Cassazione deducendo innanzitutto violazione della L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, comma 17, nonché carenza assoluta di motivazione sulla qualificazione del materiale di cantiere sequestrato come rifiuto speciale. Preliminarmente espone:
- che la soc. Toto, di cui è direttore tecnico, è responsabile del cantiere aperto per la realizzazione dei lavori di ammodernamento di un tratto della autostrada SA-RC e che il progetto per la esecuzione dell'opera pubblica ha ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie, sia urbanistiche sia ambientali, come risulta dal decreto conclusivo della conferenza di servizi all'uopo indetta;
- che con decreto ministeriale è stata anche conclusa la valutazione di impatto ambientale;
- che quindi nelle cave in questione (individuate dai detti provvedimenti) poteva legittimamente, essere conferito il materiale di risulta proveniente dagli scavi compiuti per la costruzione delle gallerie in forza della espressa previsione della L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, comma 17.
Osserva quindi che erroneamente il tribunale ha ritenuto che un materiale qualificabile come rifiuto speciale non pericoloso sia per ciò solo sottratto alla applicazione della L. 21 dicembre 2001, n. 443, e quindi sia soggetto alla normale disciplina del decreto Ronchi. Invece il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 8, comma 1, lett. f), esclude dal campo di applicazione della normativa generale le terre e le rocce da scavo destinate all'effettivo riutilizzo per riempimenti con le sole esclusioni ivi previste, In ogni modo la disposizione di interpretazione autentica di cui alla L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, comma 17-19, specifica quando le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e non sono soggette alle autorizzazioni del Decreto Ronchi. Nella specie ricorrono queste condizioni perché si tratta di materiale di risulta proveniente dalla attività di cantiere, impiegato senza alcuna trasformazione, nell'ambito di un unico ciclo produttivo che prevede la sua ricollocazione in un invaso (costituito da due cave a fossa dismesse) già individuato nel progetto assoggettato a VIA ed approvato e nel rispetto dei limiti di contaminazione. Il tribunale del riesame ha quindi dato una motivazione solo apparente perché non ha spiegato il motivo per il quale le rocce e terre da scavo in questione provenienti dallo scavo delle gallerie in corso per l'esecuzione di un'opera pubblica debbano qualificarsi rifiuti soggetti al regime ordinario del Decreto Ronchi. Del resto, l'argomentazione del tribunale comporta una vera e propria interpretazione abrogans della L. 21 dicembre 2001, n. 443, e comunque si pone in ingiustificato contrasto con la lettera e la ratio di questa legge. Il senso della deroga introdotta dal legislatore è infatti costituito proprio dalla ritenuta sufficienza della sola autorizzazione del progetto, con esclusione della necessità di applicare il regime autorizzatorio del Decreto Ronchi. In secondo luogo il ricorrente deduce violazione della L. 241 del 1990, art. 14. Osserva che la approvazione del progetto comporta la acquisizione di tutte le autorizzazioni previste dalla normativa vigente, anche ai fini ambientali ed urbanistici. Erroneamente infatti il tribunale ha ritenuto che queste autorizzazioni non possano essere surrogate dal decreto conclusivo della conferenza dei servizi, prodotto con l'istanza di riesame. La conferenza dei servizi, invero, è funzionale proprio all'espressione contestuale di tutti gli atti di assenso occorrenti alla esecuzione della opera pubblica, comunque denominati, e quindi anche quelli di natura urbanistica ed ambientale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
È opportuno esaminare preliminarmente il secondo motivo relativo ai contestati reati edilizi ed ambientali, motivo che appare pienamente fondato.
Il tribunale del riesame, infatti, ha ritenuto sussistente il fumus del reato edilizio e di quello ambientale per la ragione che, a suo parere, "mancavano gli atti amministrativi autorizzativi delle autorità preposte alla tutela del territorio e dei vincoli ambientali, rispetto ai quali non è predicabile la surroga della Conferenza dei Servizi sui lavori di ammodernamento della autostrada SA/RC". Quindi, secondo il tribunale del riesame, il permesso di costruire - quand'anche esso fosse necessario per effettuare l'attività di riempimento di una cava: v., in senso contrario, Sez. 3^, 21 marzo 2002, Guida, m. 222.415; Sez. Un., 31 ottobre 2001, De Marinis, m. 220.219; Sez. 3^, 1 dicembre 1995, Mazzocco, m. 203.552;
Sez. 3^, 1 ottobre 1996, Monitoro, m. 206.472, secondo le quali non integra il reato di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 20, lett. c), l'attività di apertura e coltivazione di una cava senza il preventivo rilascio della concessione edilizia, essendo semmai, ove ne sussistano i presupposti, configurabile il solo reato di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 20, lett. a), - e l'autorizzazione ambientale non potrebbero essere sostituiti in nessuna caso dalla determinazione conclusiva di una eventuale conferenza dei servizi, essendo invece sempre necessaria l'emanazione di uno specifico provvedimento autorizzativo da parte delle specifiche autorità preposte alla tutela del territorio e del vincolo ambientale. Si tratta però di una conclusione giuridicamente erronea, che non tiene in alcun modo conto della natura e della portata che l'istituto della conferenza dei servizi ha nel vigente ordinamento. Questa Corte ha invero più volte evidenziato la sostituibilità del permesso di costruire con la decisione finale assunta in sede di conferenza di servizi (cfr. Sez. 3^, 8 luglio 2005, n. 33735, Vodafone Omnitel N.V.; Sez. 3^, 25 ottobre 2005, Trigili e Vodafone Omnitel N.V.) ed ha messo in evidenza come tale sostituibilità costituisca un istituto ormai consolidato nel nostro ordinamento, dal momento che già che la L. n. 241 del 1990, art. 14 ter, comma 9, come modificato dalla L. n. 340 del 2000, dispone espressamente, con una previsione di carattere generale, che "il provvedimento finale conforme alla determinazione conclusila favorevole della conferenza di servizi sostituisce, a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare, alla precetta conferenza" (la disposizione, dopo le modifiche apportate dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 10, comma 1, lett. h), prevede che "il provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva di cui al comma 6-bis sostituisce, a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare ma multate assenti, alla predetta conferenza").
D'altra parte, anche la Corte costituzionale ha più volte e da tempo evidenziato come, nel nostro ordinamento, l'istituto della conferenza dei servizi costituisca, in via generale, uno strumento di semplificazione procedimentale e di snellimento dell'azione amministrativa (cfr. sentt. n. 348 e n. 62 del 1993; n. 37 del 1991;
n. 79 del 1996) ed ha in particolare affermato (sent. n. 336 del 2005, punto 11.1) che "tale funzione, nel contesto dello specifico procedimento in esame e degli interessi allo stesso sottesi, consente di ritenere che la previsione contenuta nella disposizione censurata sia espressione di un principio fondamentale della legislazione". Quanto al rilievo che non sarebbe stato allegato il provvedimento finale conclusivo del procedimento, a parte il fatto che esso è stato contestato dal ricorrente il quale ha evidenziato che il decreto conclusivo della conferenza dei servizi era stato affiliato al n. 3 della produzione allegata ai motivi di riesame, va osservato che il rilevo stesso è in realtà irrilevante perché il provvedimento produttivo di effetti definitivi ed immediatamente esecutivo non è tanto il provvedimento finale conclusivo del procedimento quanto la determinazione conclusiva della conferenza dei servizi (cfr. TAR Veneto, Sez. 2^, sent. n. 672/2003; Cons. Stato, Sez. 6^, sent. n. 5708/2003). E difatti l'art. 14 ter, comma 7, dispone che "si considera acquisito l'assenso dell'amministrazione il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà dell'amministrazione rappresentata e non abbia notificato all'amministrazione procedente, entro il termine di trenta giorni dalla data di ricezione della determinazione di conclusione del procedimento, il proprio motivato dissenso, ovvero nello stesso termine non abbia impugnato la determinazione conclusiva della conferenza di servizi", mentre il successivo art. 14 quater, comma 2, dispone che "se una o più amministrazioni hanno espresso nell'ambito della conferenza il proprio dissenso sulla proposta dell'amministrazione procedente, quest'ultima, entro i termini perentori indicati dall'articolo 14-ter, comma 3, assume comunque la determinazione di conclusione del procedimento sulla base della maggioranza delle posizioni espresse in sede di conferenza di servizi La determinazione è immediatamente esecutiva".
Nel caso di specie, quindi, essendo pacifico che vi era stata una determinazione conclusiva favorevole della conferenza dei servizi la quale legittimamente conteneva e sostituiva anche la autorizzazione ambientale ed il permesso di costruire, non era configurabile il fumus ne' del prospettato reato edilizio ne' di quello ambientale. Per quanto concerne invece la violazione della normativa sui rifiuti va invece osservato che il tribunale del riesame ha ritenuto che nella specie non potesse trovare applicazione il disposto della L. n. 443 del 2001, art. 1, comma 17 osservando, testualmente, che il motivo di ciò risiedeva nel fatto che non si sarebbe trattato di "materiale proveniente da roccia e scavo non costituente rifiuto" bensì di "un rifiuto sia pure non pericoloso stante la presenza nei campioni prelevati di miscele cementizie con la conseguenza che si trattava di terreno e rocce misto a miscele cementizie la cui presenza di tale ultimo materiale consente ed induce a qualificare quale rifiuto il materiale medesimo". In altre parole, a quel che è dato comprendere, sembrerebbe che il tribunale del riesame abbia ritenuto che il materiale in questione non poteva rientrare nella previsione della citata L. n. 443 del 2001, art. 1, comma 17, perché esso era costituito non esclusivamente da terra e da rocce da scavo ma conteneva anche alcune "miscele cementizie" (pezzi di calcestruzzo con ferro in tondini per strutture in cemento armato, spezzoni di tubo in pvc di piccolo diametro, pezzi di legno), miscele cementizie che erano mischiate alla terre ed alle rocce da scavo e la cui sola presenza sarebbe stata di per sè sufficiente a fare escludere tutto il materiale in questione dall'ambito di applicazione del citato art. 1, comma 17, ed a farlo conseguentemente qualificare come rifiuto, sia pure non pericoloso.
In proposito, deve però osservarsi quanto segue. Il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 7, comma 3, lett. b), considera come rifiuti speciali "i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo", mentre il successivo art. 8, comma 1, lett. f bis), precisa che sono esclusi dal campo di applicazione della normativa generale sui rifiuti "le terre e le rocce da scavo destinate all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti". Successivamente è intervenuto la cd. Legge Obiettivo 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, comma 17, il quale, ponendo una norma di interpretazione autentica, ha stabilito (nel testo modificato dalla L. n. 306 del 2003, art. 23) che "Il D.Lgs. n. 22 del 1997, articolo 7, comma 3, lettera b), e l'art. 8, comma 1, lettera f bis), si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall'ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, solo nel caso in cui, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall'autorità amministrativa competente previo parere dell'ARPA, sempreché la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti". Il successivo comma 18 (come modificato dalla L. n. 306 del 2003, art. 23) dispone poi che "il rispetto dei limiti di cui al comma 17 può essere verificato in accordo alle previsioni progettuali anche mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall'allegato 1, tabella 1 colonna B del D.M. Ambiente 25 ottobre 1999, n. 471 e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore". Ora, il ricorrente ha sostenuto, anche dinanzi al tribunale del riesame, che nel caso in esame doveva trovare applicazione la disposizione di cui al citato comma 17, trattandosi di materiale di risulta proveniente dalla attività di cantiere, ed in particolare dallo scavo di gallerie, utilizzato, senza alcuna trasformazione, nell'ambito di un unico ciclo produttivo, che prevedeva la ricollocazione del materiale stesso in un invaso (costituito da due cave dismesse) già individuato nel progetto in corso di esecuzione e nel rispetto dei limiti di contaminazione previsti dal D.M. n. 471 del 1999. In particolare, ha sostenuto che il concreto utilizzo con tali modalità del materiale in questione era stato espressamente previsto nel progetto assoggettato a VIA, progetto approvato ed in corso di esecuzione.
Ciò posto, il tribunale del riesame ha innanzitutto errato quando ha ritenuto irrilevante la circostanza che l'impiego del materiale avvenisse secondo le modalità previste dal progetto assoggetto a VIA ed approvato, affermando che una cosa è lo studio di impatto ambientale con l'individuazione del cantiere e dei siti di cava dismessi da utilizzare per il conferimento dei materiali di risulta provenienti dal cantiere, ed altra e differente cosa sono le autorizzazioni amministrative in ogni caso necessarie per il riutilizzo dei materiali di risulta quando gli stessi siano qualificabili come rifiuti di scarico non pericolosi. E difatti, il senso e la portata della deroga alla disciplina ordinaria alla normativa sui rifiuti introdotta dal legislatore sono costituite proprio dal fatto che - sempre che ricorrano le altre condizioni stabilite dal citato art. 1, comma 17 - è stata ritenuta sufficiente la sola autorizzazione del progetto sottoposto a VIA, con esclusione della necessità di applicare il differente regime autorizzatorio previsto dal Decreto Ronchi. Il tribunale del riesame, quindi, contrariamente a quanto ritenuto nella ordinanza impugnata, avrebbe dovuto dare rilevanza alla circostanza che i materiali di risulta in questione fossero effettivamente utilizzati, senza subire trasformazioni, secondo le modalità stabilite nel progetto sottoposto a VIA ed approvato, dal momento che proprio tale circostanza costituisce un presupposto per la esclusione della necessità di ottenere la normale autorizzazione per la gestione di rifiuti e quindi per far ritenere non configurabile il fumus dell'ipotizzato reato di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 51.
Per quanto concerne invece la natura di rifiuti che il tribunale del riesame ha ritenuto di dover attribuire al materiale stesso, nonostante il disposto della citata L. n. 443 del 2001, art. 1, comma 17, (ed anche nonostante il disposto dell'originario D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 8, comma 1, lett. f bis)), va ricordato che a questa conclusione il tribunale è giunto per il motivo che la sola presenza nel materiale di "miscele cementizie" sarebbe stata di per sè sufficiente a far comunque qualificare il materiale come rifiuto e ad impedire la applicazione dell'art. 1, comma 17. Ora, sul punto, la giurisprudenza di questa Corte non è sempre stata univoca. Un primo - e più convincente - orientamento, invero, ha ritenuto che "i materiali di scavo e sbancamento di una pubblica via, anche se contenenti modeste parti di asfalto, non rientrano nella nozione di rifiuto, atteso che le terre e rocce da scavo, anche se contaminate, sono riutilizzabili purché non provengano da siti inquinati o da bonifiche" (Sez. 3^, 11 febbraio 2003, Mortellaro, m. 224.721). Un secondo orientamento ha invece affermato - ma dalla motivazione risulta che la decisione in realtà ha ritenuto non manifestamente illogica la decisione in punto di fatto del giudice del merito - che "i materiali da scavo di strade continuano a costituire rifiuti anche dopo l'entrata in vigore della L. 12 dicembre 2001, n. 443... atteso che non sono costituiti esclusivamente da terriccio e ghiaia, ma altresì da pezzi di asfalto e di calcestruzzo, costituenti pacificamente rifiuti non pericolosi ai sensi delle disposizioni di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22" (Sez. 3^, 13 febbraio 2003, Favale, m. 224.721).
Ritiene peraltro il Collegio che nel presente giudizio non occorra stabilire quali dei due suddetti orientamenti sia preferibile, dal momento che entrambe le massime ricordate si riferivano a casi di scavo e sbancamento di una pubblica via e non a terre e rocce da scavo risultanti da sbancamenti in un cantiere, ed in particolare da scavi di gallerie, finalizzati alla realizzazione di una grande opera.
Ed infatti, non può in ogni caso mettersi in dubbio che, la L. n. 443 del 2001, art. 1, comma 17, nello stabilire che - sempre che siano riutilizzate senza trasformazioni secondo le modalità indicate - non costituiscono rifiuti le terre e le rocce da scavo, anche di gallerie, "anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione", ha chiaramente inteso escludere la natura di rifiuto non solo alle terre ed alle rocce risultanti dallo scavo, ma anche a tutti i materiali, ancorché inquinanti, la cui utilizzazione si è resa necessaria per procedere materialmente alle attività di escavazione, perforazione e costruzione. Una diversa interpretazione, invero, sarebbe manifestamente illogica e, come esattamente rileva il ricorrente, comporterebbe inammissibilmente una vera e propria abrogazione per via ermeneutica del chiaro disposto del legislatore, in quanto le terre e le rocce da scavo contaminate o comunque frammiste con i residui delle attività di escavazione, perforazione e costruzione di gallerie non potrebbero mai essere sottratte alla disciplina autorizzatoria del Decreto Ronchi, in palese ed ingiustificata contraddizione con la lettera e la ratio della L. n. 443 del 2001. Del resto, se la legge, conformemente peraltro alla sua evidente ratio ed alle finalità perseguite dal legislatore, ha espressamente stabilito che le terre e le rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuto quand'anche siano contaminate da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, ha necessariamente ed a fortori voluto escludere la natura di rifiuto anche quando alle terre ed alle rocce da scavo siano frammisti sostanze e residui di varia natura, anche cementizia, derivanti dalle tecniche e dai materiali utilizzati per poter effettuare le attività di escavazione, perforazione e costruzione.
Nel caso di specie, il ricorrente ha sostenuto che le miscele cementizie di cui parla l'ordinanza impugnata (pezzi di calcestruzzo cementizio con ferri in tondini per strutture in cemento armato, spezzoni di tubo in pvc di piccolo diametro, pezzi di legno) rappresentavano in realtà i residui di demolizione del rivestimento provvisorio realizzato per consolidare il fronte di scavo, costituito da un tampone in sprits beton armato e che per tale ragione il ciclo produttivo comportava una miscela di terreno e materiale da costruzione in percentuali variabili, costituita dal materiale appartenente all'ammasso in attraversamento e dai residui inerti delle lavorazioni di consolidamento, residui che potevano comprendere spezzoni di tubo in vetroresina, porzioni di elementi in pvc, blocchi di terreno misti a miscele cementizie, porzioni di sprits beton cementizio, ferro di armatura del tampone, e così via. Ora, se così realmente fosse, non può esservi dubbio che anche tutti questi altri residui non potrebbero essere qualificati come rifiuti ai sensi della normativa vigente, dal momento che essi costituiscono i residui delle attività necessarie per effettuare quelle di escavazione, perforazione e costruzione. Il Collegio peraltro ritiene che l'ordinanza impugnata debba essere annullata con rinvio per nuovo esame al giudice del merito e non senza rinvio. E ciò perché non è chiaro se il tribunale del riesame abbia qualificato come rifiuti i materiali in questione - nonostante provenissero dagli scavi in galleria - solo perché gli stessi erano frammisti con le miscele cementizie di cui si è detto (nel qual caso invero dovrebbe senz' altro escludersi il fumus del reato ipotizzato) ovvero perché vi erano rilevanti elementi di fatto idonei a far ritenere sussistente il fumus che i materiali stessi in realtà non provenissero dai lavori di scavo, perforazione e costruzione della galleria ma avessero un'altra provenienza o che insieme ai materiali provenienti dalla galleria fosse stato mischiato altro materiale avente diversa provenienza.
Per questo motivo il Collegio ritiene appunto di dover annullare l'ordinanza impugnata con rinvio al tribunale del riesame di Salerno, affinché questo compia il suddetto accertamento di fatto, uniformandosi peraltro ai principi di diritto dianzi enunciati e che possono riassumersi nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, prodotte nella esecuzione di opere pubbliche e contaminate o mischiate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti o da residui di altro tipo derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, non costituiscono rifiuti e sono pertanto sottratte, unitamente ai residui di altro tipo, al regime dei rifiuti, e quindi possono, senza necessità di specifica autorizzazione, essere impiegate, senza alcuna trasformazione e nel rispetto dei limiti di contaminazione previsti dal D.M. n. 471 del 1999, per il riempimento dei siti dismessi di cava all'uopo individuati nel progetto approvato e sottoposto a VIA. P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Salerno. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 28 aprile 2006.
Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2006