Cass. Sez. III n. 38511 del 18 ottobre 2007 (Ud. 9 ott. 2007)
Pres. Lupo Est. Marini Ric. Castiglione e
Rifiuti. Sottoprodotti

La nozione di "sottoprodotto" da lavorazione, che esclude per determinati materiali la natura di "rifiuto", è strettamente legata alla prova positiva della destinazione, senza necessità di ulteriore trasformazione, dei materiali stessi all'impiego nel ciclo produttivo aziendale o alla destinazione a terzi per l'impiego diretto.

Rileva

Con sentenza del Tribunale di Trapani del 26 maggio 2005, il Sig. Castiglione è stato assolto dall’imputazione mossagli al capo A) della rubrica (art. 51, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 22 del 1997 in relazione allo smaltimento di fanghi provento dalla lavorazione del marmo) e condannato alla pena di mesi 8 e giorni 15 di arresto ed euro 5.000,00 di ammenda per i reati, uniti dal vincolo della continuazione, come contestati ai capi b) e d) della rubrica (rispettivamente art. 51, commi 1, 2 e 3 del d.lgs n. 22 del 1997, in relazione al deposito incontrollato dei fanghi da lavorazione e di scarti di marmo; art. 59 d.lgs. n. 152 del 1999 in relazione allo scarico di acque reflue direttamente sul suolo). Con sospensione condizionale della pena, confisca dell’area interessata e ordine di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi.

Avverso tale sentenza il Sig. Castiglione ha presentato appello chiedendo l’assoluzione da tutti i fatti. Quanto agli scarti di lavorazione, consistenti in pezzatura di marmo, essi erano stati raccolti e accumulati per essere successivamente riutilizzati; mancava, inoltre, qualsiasi misurazione dei materiali complessivamente rinvenuti, così come mancava ogni accertamento circa la bonifica dei luoghi. Lamentava, infine la mancata concessione delle attenuanti generiche e l’eccessività della pena.

La Corte di Appello ha ritenuto che, sulla base delle dichiarazioni testimoniali in atto, sussistessero in atti sufficienti prove della commissione dei reati. Tali dichiarazioni consentono di ritenere provato che all’interno dell’area controllata vi era la presenza di circa 490 mc. di fanghi da segagione concentrati su un’area di circa 350 mq, nonché di cumuli di scarto di lavorazione del marmo certamente superiore alla quantità di 20 mc prevista per il “deposito temporaneo”. Sempre le dichiarazioni testimoniali consentivano di affermare, a detta della Corte, che un successivo controllo effettuato nel mese di aprile 2005 (e cioè un anno e quattro mesi dopo l’accertamento) aveva rilevato l’assenza dei fanghi da lavorazione e, al contrario, il permanere dei cumuli di scarti; di conseguenza, afferma la Corte, la generica certificazione sindacale dell’avvenuta bonifica dei luoghi non può che essere riferita alla rimozione dei fanghi, persistendo con ogni evidenza la violazione concernente i materiali di scarto, i cui quantitativi, alla luce delle rilevazioni fotografiche in atti, vanno considerati ingenti e superiore al limite dei 20 mc. Che tali materiali possano essere stati in parte utilizzati per la manutenzione del piazzale è circostanza difensiva che la Corte ha ritenuto plausibile, ma la sentenza ritiene del tutto carente la prova circa la destinazione al ciclo produttivo del restante ingente quantitativo rinvenuto in occasione del secondo controllo.

Così ricostruiti fatti e la responsabilità dell’appellante, la Corte territoriale ha escluso che i precedenti anche specifici consentano la concessione delle circostanze attenuanti generiche e la sostituzione della pena, mentre ha ritenuto che la complessiva condotta dell’appellante autorizzi la riduzione della pena in quella di mesi sette di arresto ed euro 3.000,00 di ammenda.

Il Sig. Castiglione ha presentato ricorso per cassazione lamentando, con primo motivo, la violazione dell’art. 606, lett. b) c.p.p. Afferma il ricorrente che la società da lui amministrata ha sempre conferito gli scarti di lavorazione presso impianti autorizzati, così che va escluso che presso la propria sede sia stata posta in essere alcuna discarica; in realtà, i materiali accumulati costituivano “sottoprodotti” destinati ad essere riutilizzati senza alcuna preventiva trasformazione, così che - pur comparendo gli scarti di lavorazione del marmo all’interno del catalogo europeo dei rifiuti - nel caso in esame non può parlarsi di “rifiuti” in senso tecnico.

Con secondo motivo si lamenta violazione dell’art.606, lett. d) c.p.p. per avere la Corte di appello rifiutato di procedere ad accertamento tecnico in ordine all’avvenuta bonifica, sussistendo per di più in atti un’attestazione positiva dell’ufficio tecnico comunale.

Con terzo e ultimo motivo si lamenta violazione dell’art. 606, lett. e) c.p.p. per avere la Corte fondato il giudizio di responsabilità unicamente sulle dichiarazioni testimoniali del verbalizzante, che non ha saputo né quantificare il pezzate di marmo esistente, né ha potuto fornire indicazioni contrarie alla successiva utilizzazione dello stesso mediante le cessioni a terzi, come la difesa ha, invece, dimostrato mediante la produzione delle fatture di vendita.

Osserva

1. Alla luce dei complessivi motivi di ricorso, la Corte ritiene opportuno premettere che il giudizio avanti la Corte di cassazione risponde a logiche e finalità sue proprie, che non ripetono quelle del giudizio nei gradi di merito. Sul punto, con riferimento anche alla modifica apportata dalla legge n. 46 del 2006 all’art. 606 c.p.p., si rinvia all’ampia motivazione, che viene condivisa da questo Giudice, della sentenza della Seconda Sezione Penale della Corte, 5 maggio-7 giungo 2006, n. l9584, Capri ed altra (rv 233773, rv 233774, rv 233775) e della sentenza della Sesta Sezione Penale, 24marzo-20 aprile 2006, n.14054, Strazzanti (iv 233454).

Una dimostrazione della sostanziale differenza esistente tra i due giudizi può essere ricavata, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, che (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica introdotta dalla legge n. 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la esclusione della possibilità di ricorso in sede di appello costituisce una limitazione effettiva degli spazi di controllo sulle decisioni giudiziali in quanto il giudizio avanti la Corte di cassazione è “rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece) dall’appello”.

Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha “la pienezza del riesame di merito” che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il nuovo testo dell’art.606, lett. e) c.p.p. non autorizzi affatto il ricorso a fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito chiedendo al giudice di legittimità di ripercorrere l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.

Come fondatamente osservato dalla citata sentenza Capri ed altra, il rapporto tra il disposto degli artt. 544 e 546 c.p.p., e cioè tra completezza e concisione della motivazione, comporta che la motivazione del giudice di merito non deve dare conto di tutti gii elementi di prova esaminati, ma concentrarsi su quelli che assumono valore decisivo ai fini della decisione, posto che la finalità della motivazione resta quello di rendere edotte le parti delle ragioni essenziali della decisione stessa e del percorso logico seguito. E’ all’interno di questa prospettiva di ordine generale che deve essere inteso il riferimento agli specifici atti del processo, con la conseguenza che il giudice di legittimità è chiamato a valutare l’incidenza di eventuali violazioni commesse dalla decisione impugnata sul risultato finale. Restano pertanto escluse dal controllo della Corte “non soltanto le deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova, ma anche le incongruenze logiche che non siano assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate in altri passaggi argomentativi adottati dai giudici; cosicché non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai ricorrenti né su altre spiegazioni fornite dalla difesa per quanto plausibili, ma comunque inidonee ad inficiare la decisione di merito. Al di là di questi limiti finirebbe per accreditarsi la Corte di cassazione di poteri rivalutativi che, come tali, appartengono alla sola cognizione del giudice dì merito.”.

In altri e conclusivi termini, questa Corte ritiene che il giudizio sulla completezza e correttezza della motivazione della sentenza impugnata non possa confondersi “con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporsi a quella fornita dal giudice di merito”, con la conseguenza che una motivazione esauriente nell’affrontare i temi essenziali e coerente nella valutazione degli elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità. Conservano, dunque, piena validità anche dopo la novella del 2006 i principi essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767).

2. Va ulteriormente premesso che la nozione di “sottoprodotto” da lavorazione, che escluderebbe per i materiali depositati la natura di “rifiuto”, è strettamente legata alla prova positiva della destinazione, senza necessità di ulteriore trasformazione, dei materiali stessi all’impiego nel ciclo produttivo aziendale o alla destinazione a terzi per l’impiego diretto. In tal senso la Terza Sezione Penale di questa Corte si è più volte pronunciata (tra le altre sentenza n. 14557 del 21 dicembre 2006-11 aprile 2007, Palladino, rv 236375; sentenza n. 37303 del 4 ottobre-10 novembre 2006, Nataloni, rv 235076), correttamente attribuendo portata restrittiva ad una nozione di sottoprodotto che rappresenta una vera e propria eccezione rispetto all’ordinaria nozione di rifiuto ed alle cautele che da questa derivano a tutela dell’ambiente.

La perdurante presenza di consistenti quantità di scarti di produzione (il secondo controllo dei verbalizzanti è avvenuto un anno e quattro mesi dopo l’iniziale sopralluogo; si veda pag. 3 della motivazione della sentenza impugnata) e le caratteristiche di tale materiale hanno giustificato la valutazione della Corte territoriale contraria all’assunto difensivo. Si tratta di valutazione né illogica né in contrasto con gli elementi in atti, e come tale, per quanto sopra illustrata, sottratta all’intervento di controllo di questa Corte.

3. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.