Cass. Sez. III n. 985 del 10 gennaio 2025 (UP 18 dic 2024)
Pres. Ramacci Rel. Scarcella Ric. Vecchio
Rifiuti.Rottami di ferro

La nozione di rifiuto comprende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, senza che rilevi una possibile riutilizzazione economica, ovvero che la dismissione avvenga attraverso lo smaltimento o il recupero, con la conseguenza che in tale nozione vi rientrano anche i rottami metallici di ferro 

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 21 febbraio 2024, il Tribunale di Caltagirone, Sezione Penale, condannava Salvatore Vecchio  alla pena di € 3.500,00 di multa, oltre che al pagamento delle spese processuali, in quanto ritenuto responsabile dell’illecito contravvenzionale di cui all’art. 256 comma 1, lett. A) del D. Lgs. 152/2006, reato a lui ascritto in concorso unitamente ad altri soggetti nei cui confronti la sentenza è divenuta irrevocabile, in particolare per avere esercitato – con una macchina operatrice in atti meglio descritta – attività di raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi prodotti da un’azienda agricola e consistenti in tubi ferrosi di vario diametro, per un peso complessivo di oltre 7730 chilogrammi, senza la prescritta iscrizione all’albo nazionale gestori ambientali, a norma dell’art. 212 del testo unico ambientale.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia dell’imputato, deducendo quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173, disp. Att., cod. proc. pen. 

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
In sintesi, la sentenza sarebbe affetta dal predetto vizio per quanto attiene la classificazione del materiale trasportato come rifiuto, in particolare censurando l'affermazione secondo la quale il materiale oggetto di abusivo trasporto, nel caso di specie, bene potrebbe ricondursi alla nozione di rifiuto, trattandosi di rottami ferrosi ed arrugginiti, derivanti dallo smantellamento di serre agricole.
Richiamata la definizione normativa di rifiuto contenuta nell'articolo 183 lettera a) del testo unico ambientale, secondo cui è tale “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi”, sostiene la difesa che se, da un punto di vista oggettivo, qualsiasi sostanza può certamente definirsi rifiuto, dal punto di vista soggettivo risulterebbe comunque imprescindibile accertare la volontà del detentore di disfarsi della predetta sostanza. Nel caso in esame, il giudice avrebbe attribuito, in assenza di qualsiasi motivazione, la qualifica di rifiuto agli oggetti che il ricorrente stava trasportando, affermando in maniera assertiva e autoreferenziale che, sulla natura di tali oggetti, non sussisterebbe alcun dubbio.

2.2. Deduce, con un secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione al reato contestato al ricorrente.
In sintesi, richiamata la contestazione mossa nella imputazione, la difesa ricorda come l'attuale ricorrente è stato dichiarato colpevole del reato contravvenzionale a lui ascritto e condannato alla pena di 3.500 € di multa. A giudizio della difesa, si tratterebbe di una pena illegale in quanto non corrispondente per specie a quella astrattamente prevista per il reato contestato all'attuale ricorrente. Richiamata la giurisprudenza di questa Corte circa la nozione di pena illegale, segnatamente le Sezioni Unite Pittalà e Jazouli, ed evidenziato che la pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni dal nostro codice penale è l'ammenda (quindi non la multa), sostiene la difesa del ricorrente che la pena irrogata all'attuale imputato è diversa rispetto a quella prevista dalla legge, il che avrebbe inciso anche sulla prevedibilità della sanzione quale presupposto essenziale di una responsabilità penale rispettosa del principio di colpevolezza.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione unitamente al vizio di violazione di legge in relazione all'art. 131-bis, cod. pen. 
In sintesi, si sostiene che tale speciale causa di non punibilità sarebbe stata esclusa in maniera del tutto incomprensibile ed arbitraria. In particolare, viene richiamato il passaggio motivazionale della sentenza impugnata in cui il giudice, a pagina 3, ha escluso l'applicabilità della causa di non punibilità del fatto di particolare tenuità, non ritenendo il fatto oggetto del presente procedimento qualificabile in tali termini, trattandosi della raccolta e trasporto di rifiuti speciali seppure non pericolosi, atteso che la materia dei rifiuti non potrebbe integrare un reato di lieve entità sia per il bene tutelato, sia alla luce della personalità, nel caso di specie dell'imputato Salvatore Vecchio, da valutarsi ai sensi dell'art. 133 cod. pen., avendo questi riportato diverse condanne penali per svariati reati quali furto, evasione, violazione della legge in materia di stupefacenti, ciò che denoterebbe una personalità dedita al reato. Tale motivazione sarebbe censurabile poiché sembrerebbe che la non occasionalità della condotta sia stata desunta dal giudice in considerazione della personalità dedita al reato dell'attuale ricorrente. E’ invece pacifico che deve intendersi abituale, ostativo in quanto tale all'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., il comportamento di chi abbia commesso più reati della stessa indole sebbene ciascuno di particolare tenuità, ovvero abbia commesso reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, reiterate o abituali. In tali ipotesi, precisa la difesa, l'oggetto della previsione normativa deve intendersi riferito alle condotte di cui alla contestazione di volta in volta elevata nei confronti dell'imputato e non ad altre, eventualmente pregresse, condotte non ricadenti nell'ambito materiale del fatto contestato. Nel caso in esame, diversamente, il tribunale avrebbe ritenuto ostative alla qualificazione del fatto in termini di particolare tenuità condotte che, per essere estranee alla contestazione, non potrebbero costituire elemento di valutazione ai fini di cui sopra. Al di là di questo, aggiunge il ricorrente, risulterebbe palesemente come non siano stati verificati da parte del giudice né l'eventuale sussistenza di danni ambientali né l'abitualità o meno della condotta dell'imputato.

2.4. Deduce, infine, con il quarto ed ultimo motivo, il vizio di violazione della legge penale in relazione all'art. 157 cod. pen., per non essere stata dichiarata da parte del giudice la prescrizione del reato.
In sintesi, si rileva che il fatto per cui si procede è stato commesso il 27 giugno 2018 e sarebbe ormai prescritto, atteso che il termine di prescrizione massima per l'illecito contravvenzionale è di anni 5, con conseguente maturata prescrizione il 27 giugno 2023, dunque in data antecedente alla sentenza impugnata, pronunciata il 21 febbraio 2024.

3. In data 29/11/2024 sono state trasmesse a questo Ufficio le conclusioni scritte del Procuratore generale, con cui ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. 
In sintesi, secondo il PG, il primo motivo è manifestamente infondato, del tutto legittima essendo, anche sul piano motivazionale, la qualificazione come rifiuto del materiale (ferroso) gestito senza autorizzazione da parte del ricorrente. 
Il secondo motivo è manifestamente infondato, essendo del tutto evidente come l’indicazione – in dispositivo – della pena della multa, anziché in quella della ammenda correttamente indicata in motivazione e corrispondente alla piana previsione edittale si risolva in un mero errore materiale, alla cui correzione può provvedere la stessa Corte di Cassazione adita. 
Manifestamente infondato è anche il terzo motivo, nessuna violazione di legge o aporia logica riscontrandosi – avuto riguardo agli elementi presi in considerazione per il giudizio - nel rigetto della istanza di applicazione dell’istituto ex art. 131-bis c.p.
L’inammissibilità del ricorso impedisce di rilevare ogni decorso del termine di prescrizione successivo alla sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, trattato cartolarmente in assenza di richiesta di discussione orale, è complessivamente infondato. 

2. Il primo motivo è inammissibile. 
Considerato che la censura difensiva investe la nozione di rifiuto nonché il fatto che il giudice non abbia accertato la volontà del detentore di disfarsi degli oggetti che stava trasportando al momento del controllo, tale motivo di censura risulta inammissibile poiché, nella vicenda in esame, la difesa tenta di trascinare questa Suprema Corte sul terreno del fatto, chiedendo la qualificazione di un oggetto o di un materiale come rifiuto, operazione, questa, incompatibile con il giudizio di legittimità. Infatti, secondo quanto affermato più volte da questa Corte, la classificazione di una sostanza o di un oggetto quale rifiuto non deve necessariamente basarsi su un accertamento peritale, potendo legittimamente fondarsi anche su elementi probatori, quali le dichiarazioni testimoniali, i rilievi fotografici o gli esiti di ispezioni e sequestri (Sez. 3, n. 33102 del 07/06/2022, B.; Rv. 283417) e l’accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto ai sensi dell’art. 183, d. lgs. n. 152/2006 costituisce una questione di fatto, demandata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (cfr. Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, S., Rv. 276009).  
In merito alla questione se i rottami ferrosi rientrino o meno nella nozione di rifiuto, si osserva come il materiale oggetto di abusivo trasporto ben può ricondursi a tale nozione. A tal proposito, occorre richiamare la sentenza n. 48316/2016 di questa Suprema Corte, la quale si pone in continuità con l’interpretazione consolidata, che accoglie una nozione ampia di rifiuto, fondata su risultanze oggettive ed alla quale devono essere ricondotti sostanze od oggetti non più idonei a soddisfare i bisogni cui essi erano originariamente destinati, pur se non ancora privi di valore economico. Inoltre, può rilevarsi come sia assolutamente certo che, secondo i principi generali ormai consolidati, debba ritenersi inaccettabile ogni valutazione soggettiva della natura dei materiali da classificare o meno quali rifiuti, poiché è rifiuto non ciò che non è più di alcuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta, ma, invero, ciò che è qualificabile come tale sulla scorta di dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore o un obbligo al quale lo stesso è tenuto, ossia quello di disfarsi del suddetto materiale.
Secondo tale giurisprudenza di legittimità, affinché i rottami metallici di ferro non vengano più qualificati come rifiuti, occorre richiamare il Regolamento UE n. 333/2011, il quale definisce la cessazione della qualifica di rifiuto per i rottami metallici di ferro, limitando quali possono essere sottoposti ad azioni di recupero e indicando le caratteristiche che devono avere i materiali ottenuti dalle operazioni di recupero per essere sottratti alla disciplina dei rifiuti. In particolare, i rottami ferrosi cessano di essere considerati rifiuti a seguito di un processo di produzione o di utilizzazione, cioè quando vengono riciclati in prodotti siderurgici e divengono prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati. 
Alla luce della normativa poc’anzi richiamata, è possibile affermare che la nozione di rifiuto comprende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, senza che rilevi una possibile riutilizzazione economica, ovvero che la dismissione avvenga attraverso lo smaltimento o il recupero (Sez.3, n. 48316 dell’11 ottobre 2016, L., non mass.), con la conseguenza che in tale nozione vi rientrano anche i rottami metallici di ferro. Per tali ragioni, il motivo dedotto è inammissibile.

3. Anche il secondo motivo risulta inammissibile. 
Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza Jazouli (Sez. U., n. 33040 del 26-02-2015; Rv. 264205), rientra nella nozione di pena illegale quella non corrispondente per specie ovvero per quantità (sia in difetto sia in eccesso) a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice, collocandosi così al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale; i casi di illegalità ab origine, costituiti, ad esempio, dalla determinazione in concreto di una pena diversa, per specie, da quella che la legge stabilisce per quel certo reato, ovvero inferiore o superiore, per quantità ai limiti edittali; i casi in cui la pena era stata determinata contra legem di cui costituiscono esempio evidente quelli in cui il giudice abbia applicato una pena in misura inferiore al minimo assoluto previsto dall’art. 23 c.p. o indicato come pena-base una pena inferiore a quella prevista come minimo edittale per il reato unito con il vincolo della continuazione, ovvero individuato la pena applicata, in esito al cumulo ex art. 81 cpv cod. pen., con un valore inferiore al minimo fissato per il reato più grave tra quelli in continuazione. 
Nel caso in esame, posto che la disposizione ex art. 256, comma 1, D. lgs. 152/2006, commina come pena pecuniaria l’ammenda e non la multa, si può rilevare come l’importo previsto quale multa risulti corrispondente per quantità a quello che sarebbe stato comminato ove qualificato come ammenda. Inoltre, si può certo affermare che l’indicazione di una specie di pena diversa non abbia inciso in fatto né giuridicamente sul tema della prevedibilità della sanzione, tenuto conto che la nozione di prevedibilità va riferita alle conseguenze sanzionatorie in astratto contemplate, tra cui non rientra il semplice riferimento ad una pena di specie diversa rispetto a quella prevista in astratto dalla legge, soprattutto ove l’imputato abbia potuto correttamente esercitare il proprio diritto di difesa proponendo rituale impugnazione davanti al giudice superiore competente, tenuto conto che, avverso le sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda, l’ultimo comma dell’articolo 593 c.p.p. prevede unicamente il ricorso per Cassazione, come in effetti si è verificato, a comprova del fatto che la mera indicazione di una pena di specie diversa non ha inciso sull’effettività del diritto di difesa del ricorrente, che ha proposto impugnazione davanti al giudice unicamente competente. 

4. Il terzo motivo è invece infondato, posto che la motivazione sul diniego dell’art. 131-bis cod. pen.– secondo cui la materia dei rifiuti non potrebbe integrare un reato di lieve entità per il bene tutelato e per la personalità negativa dell’imputato in considerazione dei suoi precedenti – appare nella sua assolutezza contraddire quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte. In particolare, si è affermato dal Supremo Consesso che, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo. (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590 – 01). Il dato normativo dell’art. 131-bis cod. pen., investe il giudice di una “valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, c.p.”. Il compito del giudice non deve dunque limitarsi alla considerazione della sola quantità di aggressione al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, ma deve estendersi all’analisi di tutte le peculiarità della fattispecie concreta. In particolare, secondo le Sezioni Unite «non esiste un'offesa tenue o grave in chiave archetipica; è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore»: adottando quest'ottica interpretativa, dunque, il Supremo Collegio ha rimarcato la necessità di operare una corretta distinzione tra fatto tipico e fatto storico, ove solo quest'ultimo assume rilevanza ai fini del giudizio di tenuità (o non tenuità) del fatto. Su queste basi, dunque, le Sezioni Unite hanno enucleato il seguente principio di diritto: «essendo in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza, non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l'applicazione del nuovo istituto».
Sempre con riferimento alla valutazione circa le modalità della condotta, inoltre, la Suprema Corte ha evidenziato come il richiamo dell'art. 131-bis cod. pen. all'art. 133, comma 1, cod. pen. attribuisca rilevanza anche ai profili relativi all'intensità del dolo o al grado della colpa del soggetto attivo: il giudice, dunque, dovrà assumere le proprie determinazioni sulla possibile tenuità del fatto anche valutando il concreto incidere sulla fattispecie concreta dell'elemento volitivo del reo. Anche in relazione alla valutazione sull'entità del danno o del pericolo, il Supremo Collegio ha ribadito la scorrettezza di preclusioni precostituite, indicando la necessità di effettuare analisi mirate sulla manifestazione del reato e, dunque, - in relazione al parametro relativo all'entità del danno o del pericolo - sulle conseguenze dannose o pericolose della condotta.
Secondo le Sezioni Unite, emerge, quindi, un dato di cruciale rilevo: ossia, l'esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza. In particolare, va ribadito come la valutazione inerente all'entità del danno o del pericolo non è da sola sufficiente a completare il giudizio di tenuità del fatto, ma ciò si desume anche da due ulteriori argomenti specifici. In primo luogo, il legislatore ha espressamente previsto che la nuova disciplina trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante, cosicché la valutazione di particolare tenuità del fatto deve essere ancorata agli indicatori relativi alla condotta ed alla colpevolezza anche in presenza di un danno di speciale tenuità. In secondo luogo, per evitare che i reati di più grave graduazione possano essere travolti dall'applicazione della nuova causa di non punibilità, il legislatore ha espressamente previsto clausole di esclusione: l'offesa, infatti, non può essere ritenuta particolarmente tenue qualora la condotta abbia cagionato - quali conseguenze non volute dall'agente - la morte o le lesioni gravissime.

5. Sulla base di tale percorso argomentativo, si può certo affermare che il Tribunale, nel caso di specie, ha frettolosamente affermato sia che la materia dei rifiuti non potrebbe integrare un reato di lieve entità per il bene tutelato sia che sarebbe ostativa la personalità negativa dell'imputato in considerazione dei suoi precedenti. Ed infatti, nel valutare la sussistenza delle condizioni per l’applicazione della causa di non punibilità ex art. 133, primo comma, cod. pen., il giudice, come detto, deve riferirsi ai criteri direttivi indicati nel citato art. 133, primo comma, ossia agli indici riguardanti la gravità del fatto (desunta dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità di azione; dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; dalla intensità del dolo o dal grado della colpa), senza poter valorizzare gli indici di cui al secondo comma dell’art. 133 cod pen., ossia quelli tendenti a valorizzare la capacità a delinquere del colpevole (desunta dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; dai precedenti penali e giudiziari, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo).

6. Tale affermazione del Tribunale, tuttavia, non può essere letta isolatamente. 
Ed infatti, da un lato, come già affermato da questa Corte, il disposto di cui all'art. 131-bis cod. pen. individua un limite negativo alla punibilità del fatto medesimo la prova della cui ricorrenza è demandata all'imputato, tenuto ad allegare la sussistenza dei relativi presupposti mediante l'indicazione di elementi specifici (da ultimo: Sez. 3, n. 13657 del 16/02/2024, Rv. 286101 – 02). Onere probatorio, nella specie, non assolto, soprattutto in assenza di alcun comportamento successivo che – alla luce della novella apportata dal D.lgs. n. 150 del 2022 (“anche in considerazione della condotta susseguente al reato”) – qualifichi in termini oggettivi di particolare tenuità il fatto commesso. 
Dall’altro, inoltre, deve comunque rilevarsi che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, per un verso, e l’irrogazione di una pena determinata discostandosi dal minimo edittale “in ragione delle modalità dell’azione e della tipologia di rifiuti trasportato” (v. pag. 4 sentenza impugnata), costituiscono indici rivelatori inequivoci della volontà del decidente di escludere quella particolare tenuità al fatto-reato per cui è intervenuta condanna. L'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può infatti essere dichiarata in presenza di una sentenza di condanna che abbia ritenuto pienamente giustificati, specificamente motivando, la determinazione della pena in misura superiore al minimo edittale ed il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, configurandosi, in tal caso, l'esclusione di ogni possibile valutazione successiva in termini di particolare tenuità del fatto (Sez. 5, n. 39806 del 24/06/2015, Rv. 265317 – 01; Sez. 3, n. 24358 del 14/05/2015, Rv. 264109 – 01).  
Alla luce di quanto sopra, pertanto, il motivo dev’essere rigettato. 

7. Quanto infine al quarto motivo, è ben vero che il reato è stato accertato il 27 giugno 2018 e che il termine di prescrizione quinquennale sarebbe maturato con il decorso del quinquennio alla data del 27 giugno 2023.
Bisogna tuttavia tener conto del fatto che, nel corso del processo, vi sono state plurime sospensioni del termine di prescrizione, per complessivi giorni 248, con conseguente astratto maturarsi del termine di prescrizione alla data del 1° marzo 2024. Deve, tuttavia, aggiungersi il periodo di sospensione previsto dall'art. 1, comma 11 lett. b), legge 23 giugno 2017 n.103, trattandosi di reato commesso dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019, tra cui rientra quello in esame (accertato il 27 giugno 2018). Come è noto, il richiamato art. 1, comma 11, l. n. 103 del 2017, ebbe ad inserire all’art. 159, comma secondo, cod. pen. la seguente previsione “dopo il primo comma sono inseriti i seguenti: «Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso nei seguenti casi: 1) dal termine previsto dall'articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi; (omissis). Se durante i termini di sospensione di cui al secondo comma si verifica un'ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente»;”. 
Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto di giurisprudenza sul punto, con la sentenza pronunciata in data 12 dicembre 2024, nel ricorso rg. 22932/24 - P.G. c/Polichetti Angelo, hanno affermato che per i reati commessi dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019, tra cui rientra quello in esame, si applica la disciplina di cui alla legge n. 103 del 2017. Con riguardo al quarto motivo di ricorso, si tratta dunque, all’esito della decisione assunta dalle Sezioni Unite, di censura priva di pregio, in quanto, trattandosi di reato accertato il 27 giugno 2018, trova applicazione la disciplina dettata dall'art. 1, comma 11 lett. b), legge 23 giugno 2017 n.103. Essendo stata pronunciata la sentenza di primo grado in data 21 febbraio 2024, il termine, per effetto di quanto disposto dall’art. 1, comma 11, legge n. 103 del 2017, è stato sospeso per complessivi gg. 301 fino al 18.12.2024. Dal 19.12.2024 dunque ridecorrevano i residui 9 gg. (dal 22.02.2024) oggetto del precedente periodo di sospensione degli originari gg. 248, con la conseguenza che la prescrizione sarebbe andata a maturare dopo la pronuncia della sentenza di questa Corte, intervenuta il 18.12.2024, ossia in data 30.12.2024. 
Ne discende, pertanto, che per il reato per cui si procede, alla data della sentenza di questa Corte, non era ancora maturato il termine di prescrizione massima. 
  
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 18/12/2024