Cass. Sez. III n. 8088 del 7 marzo 2022 (UP 13 gen 2022)
Pres. Ramacci Est. Di Stasi  Ric. Franceschetti
Rifiuti.Momento consumativo del reato di abbandono o deposito incontrollato

Ogni qualvolta l'attività di abbandono ovvero di deposito incontrollato di rifiuti sia prodromica ad una successiva fase di smaltimento o di recupero del rifiuto stesso, caratterizzandosi essa, pertanto, come una forma, per quanto elementare, di gestione del rifiuto (della quale attività potrebbe dirsi che costituisce il "grado zero"), la relativa illiceità penale permea di sè l'intera condotta (quindi sia la fase prodromica che quella successiva), integrando, pertanto, una fattispecie penale di durata, la cui permanenza cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella di rilascio; tutto ciò con le derivanti conseguenze anche a livello di decorrenza del termine prescrizionale. Nel caso in cui, invece, siffatta attività non costituisca l'antecedente di una successiva fase volta al compimento di ulteriori operazioni, aventi ad oggetto appunto lo smaltimento od il recupero del rifiuto, ma racchiuda in sè l'intero disvalore penale della condotta, non vi è ragione di ritenere che essa sia idonea ad integrare un reato permanente; ciò in quanto, essendosi il reato pienamente perfezionato ed esaurito in tutte le sue componenti oggettive e soggettive, risulterebbe del tutto irragionevole non considerarne oramai cristallizzati i profili dinamici fin dal momento dei rilascio del rifiuto, nessuna ulteriore attività e residuando alla descritta condotta di abbandono


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 16/12/2020, il Tribunale di Verbania dichiarava Franceschetti Mariangela responsabile del reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs 152/2006 – per aver effettuato, nella qualità di legale rappresentante della SPANDEA CAVE s.r.l., un deposito incontrollato di rifiuti consistenti in terre e rocce da scavo-- e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, la condannava alla pena di euro 3.000 di ammenda.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Franceschetti Mariangela, a mezzo del difensore di fiducia, chiedendone l’annullamento ed articolando tre motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo deduce erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 183, 184-bis, 256, comma 2, d.lgs 152/2006 e 4 d.P.R. n. 120/2017 e vizio di motivazione.
Argomenta che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto integrato il reato contestato in relazione alla porzione del materiale inerte costituito da terre e rocce da scavo provenienti dalla Galleria di Paiesco, ritenendo non dimostrata la futura riutilizzazione dello stesso; non era stato valutato che si trattava di materiale di notevole valore di mercato stoccato per il successivo riutilizzo nel frantoio della SPANDEA CAVE s.r.l per la produzione di calcestruzzo, emergendo tale dato incontestato anche dalla sentenza di primo grado; inoltre, era stata ritenuto applicabile una disposizione non vigente al momento della produzione del materiale, in quanto l’art. 184-bis della l 152/2006 era stato inserito solo con la legge 3.12.2020 mentre i materiali erano stati depositato in epoca antecedente al 24 maggio 2010, data in cui risultava aperta al traffico la Galleria di Paiesco, insistente sulla SS 337 della Valle Vigezzo, dalle quale proveniva il materiale inerte.
Con il secondo motivo deduce erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 256, comma 2, d.lgs 152/2006.
Argomenta che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che la contravvenzione contestata avesse natura di reato permanente, dando rilievo alla volontà dell’agente di voler successivamente recuperare il materiale abbandonato, elemento non contemplato tra gli elementi costituitivi del reato; la natura istantanea del reato, invece, avrebbe dovuto condurre alla pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere per essere maturato il termine di prescrizione già prima della sentenza di primo grado.
Con il terzo motivo chiede la correzione di errore materiale ai sensi dell’art. 130 cod.proc.pen., evidenziando che mentre in dispositivo era stata irrogata una pena di euro 2.000 di ammenda nel dispositivo della sentenza era stata indicata la pena di euro tremila di ammenda.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Il ricorso va dichiarato inammissibile.
2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Come già condivisibilmente osservato (Sez.3 n. 4781 del 26/01/2021, Rv.281003 – 01), secondo il consolidato orientamento di questa Corte, formatosi nella vigenza dell'art. 186 d.lgs. 152 del 2006, il quale, al comma 5, prevedeva che «le terre e rocce da scavo, qualora non utilizzate nel rispetto delle condizioni di cui al presente articolo, sono sottoposte alle disposizioni in materia di rifiuti di cui alla parte quarta del presente decreto», la eccezionale possibilità di non considerare (e di non gestire) come rifiuti tali materiali è sottoposta a stringenti requisiti.
Si è dunque affermato che l'applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo quale prevista dall'art. 186 d.lgs. n. 152/2006, nella parte in cui sottopone i materiali da essa indicati al regime dei sottoprodotti e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato, Rv. 263336; Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087).
In particolare, si è sempre affermato che detti materiali sono sottratti alla disciplina sui rifiuti solo in presenza: a) di caratteristiche chimiche che escludano una effettiva pericolosità per l'ambiente; b) di approvazione di un progetto che ne disciplini il reimpiego; c) di prova dell'avvenuto rispetto dell'obbligo di reimpiego secondo il progetto (Sez. 3, n. 32797 del 18/03/2013, Rubegni e aa., Rv. 256661).
I principi informatori della speciale disciplina che consente di sottrarre le rocce e terre da scavo alle regole in tema di gestione di rifiuti, pur dopo l'abrogazione dell'art. 186 d.lgs. 152 del 2006, hanno trovato sostanziale conferma, dapprima nel d.m. 6 ottobre 2012, n. 161 e, successivamente, nel d.P.R. 13 giugno 2017, n. 120, che oggi regola la materia (cfr. Sez. 3, n. 8026 del 27/09/2017, dep. 2018, Masciotta e a., Rv. 272355). Quest'ultimo provvedimento, che ha carattere di regolamento delegato, rinviene la propria fonte nell'art. 8 d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., dalla I. 11 novembre 2014, n. 164. Tra i principi e criteri direttivi fissati nella disposizione legislativa di delega, al fine di rendere più agevole la realizzazione degli interventi che comportano la gestione delle terre e rocce da scavo, per quanto qui interessa vanno rammentati i seguenti: «a) coordinamento formale e sostanziale delle disposizioni vigenti, apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo [...] d) divieto di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli previsti dall'ordinamento europeo ed, in particolare, dalla direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008 [...] d-ter) garanzia di livelli di tutela ambientale e sanitaria almeno pari a quelli attualmente vigenti e comunque coerenti con la normativa europea. La previsione contenuta nell'art. 4 d.P.R. 120/2017 - secondo cui, per poter essere considerate sottoprodotti, le terre e rocce da scavo devono, tra l'altro, essere gestite in modo «conforme alle disposizioni del piano di utilizzo di cui all'articolo 9 o della dichiarazione di cui all'art. 21» - era già contenuta nella previgente disciplina (cfr. artt. 4 e 5 d.m. 161/2012), emanata in aderenza alla normativa di matrice eurounitaria-. Attuando le indicazioni contenute nella legge-delega, il d.P.R. 120/2017 ha semplificato gli adempimenti, posto che, con riguardo ai cantieri di piccole dimensioni, l'art. 21, primo comma consente allo stesso produttore di materiali, tramite una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da trasmettersi, anche solo in via telematica, alla competente ARPA, almeno 15 giorni prima dell'inizio dei lavori scavo, di accertare la sussistenza delle condizioni previste dall'articolo 4 ed il secondo comma del medesimo art. 21 prevede che «la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui al comma 1, assolve la funzione del piano di utilizzo di cui all'articolo 2, comma 1, lettera f».
Nella specie, il Tribunale ha correttamente rilevato che l'imputato non aveva fornito prova della sussistenza delle condizioni previste per l’operatività del più favorevole regime relativo ai “sottoprodotti”.
Il motivo di ricorso è, pertanto, del tutto destituito di fondamento e privo di confronto con il quadro normativo esposto.
3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Va osservato che in ordine alla natura giuridica del reato di deposito incontrollato di rifiuti sono rinvenibili due orientamenti: per l'uno "il reato di deposito incontrollato di rifiuti è reato permanente giacché, dando luogo ad una forma di gestione del rifiuto preventiva rispetto al recupero ed allo smaltimento, la sua consumazione perdura sino allo smaltimento o al recupero" (Sezione 3 penale, 4 dicembre 2013, n. 48489; Sezione 3 penale, 23 giugno 2011, n. 25216); per l'altro il reato di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti (del D.Lgs. 3 aprile 2005, n. 152, art. 256, comma 2) ha natura di reato istantaneo, eventualmente con effetti permanenti, la cui consumazione si perfeziona o con il sequestro ovvero con l'ultimo atto di conferimento da parte del soggetto agente (Sezione 3, 15 ottobre 2013, n. 42343; Sezione 3 18 novembre 2010, n. 40850; Sezione 3 penale, 7 febbraio 2008, n. 6098).
Questa Corte ha, comunque, in proposito già chiarito (Sez. 3 n. 36411 del 09/05/2019, Rv.277068 – 01), con argomentazioni condivisibili, che il descritto contrasto deve essere considerato più apparente che reale, alla luce delle seguenti precisazioni, secondo cui è necessario verificare le concrete circostanze che connotino in maniera peculiare la presenza in loco dei rifiuti.
Ogni qualvolta l'attività di abbandono ovvero di deposito incontrollato di rifiuti sia prodromica ad una successiva fase di smaltimento o di recupero del rifiuto stesso, caratterizzandosi essa, pertanto, come una forma, per quanto elementare, di gestione del rifiuto (della quale attività potrebbe dirsi che costituisce il "grado zero"), la relativa illiceità penale permea di sè l'intera condotta (quindi sia la fase prodromica che quella successiva), integrando, pertanto, una fattispecie penale di durata, la cui permanenza cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella di rilascio; tutto ciò con le derivanti conseguenze anche a livello di decorrenza del termine prescrizionale. Nel caso in cui, invece, siffatta attività non costituisca l'antecedente di una successiva fase volta al compimento di ulteriori operazioni, aventi ad oggetto appunto lo smaltimento od il recupero del rifiuto, ma racchiuda in sè l'intero disvalore penale della condotta, non vi è ragione di ritenere che essa sia idonea ad integrare un reato permanente; ciò in quanto, essendosi il reato pienamente perfezionato ed esaurito in tutte le sue componenti oggettive e soggettive, risulterebbe del tutto irragionevole non considerarne oramai cristallizzati i profili dinamici fin dal momento dei rilascio del rifiuto, nessuna ulteriore attività e residuando alla descritta condotta di abbandono (cfr. Sez. 3, n. 30910 del 10/06/2014, Rv. 260011 - 01; Sez. 3, n. 7386 del 19/11/2014, dep. 19/02/2015, Rv. 262410 - 01; Sez. 3, n. 6999 del 22/11/2017, dep. 14/02/2018, Rv. 272632 - 01).
La predetta decisione ha rimarcato che la verifica del concreto atteggiarsi della vicenda, alla luce delle indicazioni differenziali sopra riportate, è affidata al giudice di merito, richiamando quanto già in proposito precisato (cfr. Sez. 3, n. 30910 del 10/06/2014 Rv. 260011 cit.) e, cioè che, senza con ciò esaurirne il novero, costituirà attendibile indice differenziale l'occasionalità o meno del fatto di abbandono e deposito del rifiuto, laddove la sistematica pluralità di azioni, fra loro di identico o comunque analogo contenuto, farà propendere per una forma di organizzazione della condotta, sintomo attendibile di una volontà gestoria e non esclusivamente dismissiva del rifiuto; mentre l'episodicità di esse, ancorché non rigorosamente intesa nel senso dell'assoluta unicità della condotta, dovrebbe indirizzare il giudizio sulla istantaneità della natura del reato posto in essere; altri indici rivelatori della finalità gestoria potranno essere la pertinenza, o meno, del rifiuto oggetto di rilascio, all'eventuale circuito produttivo riferibile all'agente, ove questi svolga attività imprenditoriale; oppure la reiterata adibizione di un unico sito, eventualmente anche promiscuamente utilizzato al medesimo fine pure da altri soggetti, quale punto di rilascio dei rifiuti.
Del pari, Sez. 3, n. 44516 del 17/7/2019, non massimata, ha condivisibilmente osservato che in tutti i casi in cui, in concreto, sia mancata una successiva fase di gestione e la collocazione del rifiuto ed altri dati oggettivi siano indicativi della mera volontà di liberarsene definitivamente, il disinteresse del detentore del rifiuto dopo la collocazione nel luogo in cui lo stesso viene rinvenuto determina una sostanziale coincidenza con la condotta tipica di abbandono, che si esaurisce nel momento stesso del rilascio; le ipotesi di condotta permanente restano del tutto residuali e l'apprezzamento del giudice effettuato nel caso concreto sulla base di dati obiettivi consente, se adeguatamente motivato, di pervenire ad una corretta soluzione.
Anche la dottrina è pervenuta a conclusioni analoghe, osservando che se l’illecito si concretizza nell’abbandono del rifiuto, si configura un reato istantaneo con eventuali effetti permanenti: se il deposito incontrollato assume, di fatto, la conformazione di un rilascio definitivo nell’ambiente è, al pari dell’abbandono, un reato istantaneo con eventuali effetti permanenti; il reato è, invece, permanente ove l’agente pur non abbandonando il rifiuto ne mantiene la detenzione del rifiuto con modalità estranee a quelle conformi a legge, potenzialmente pericolose e la sua consumazione dura fintanto che non vengano a cessare le situazioni di fatto che integrano l’illecito (la regolarizzazione delle modalità di tenuta del deposito, la materiale rimozione dei rifiuti, anche ad opera di terzi, il compimento delle fasi di recupero o smaltimento dei medesimi).
Nella specie, il giudice del merito ha correttamente individuato le modalità in cui la condotta è stata posta in essere, rimarcando come la stessa fosse stata caratterizzata da “una sistematica pluralità, e non episodicità, di atti di deposito di materiale chiaramente afferente al ciclo produttivo dell’impresa, in assenza di qualsivoglia volontà di dismissione”, dunque chiaramente finalizzata ad un successivo smaltimento dei rifiuti, come peraltro emerge anche dai motivi di ricorso.
Ne consegue che, all'atto dell'accertamento (28/09/2018), la condotta illecita era ancora in essere, maturando il termine prescrizionale solo alla data del 28/09/2023.
5. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile
E’ pur vero che il principio secondo cui, in caso di difformità tra dispositivo e motivazione non contestuale, il dispositivo prevale sulla motivazione della sentenza incontra una deroga nel caso in cui – come nella specie- la difformità non presenti profili di merito non valutabili in sede di legittimità e dipenda esclusivamente da un errore materiale relativo alla pena indicata in dispositivo, palesemente rilevabile dall'esame della motivazione in cui si ricostruisca chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice per determinare la pena (Sez. 3, n.38269 del 25/09/2007, Rv. 237828; Sez. F, n.35516 del 19/08/2013, Rv.257203; Sez.4, n.43419 del 29/09/2015, Rv.264909; Sez.2, n.13904 del 09/03/2016, Rv.266660).
Nel caso in esame, la motivazione prevale sul dispositivo perché espone chiaramente e inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice dell'appello per determinare la pena pecuniaria, sicché non si giustifica la maggior pena indicata in dispositivo.
Nondimeno, la rilevata inammissibilità del ricorso preclude la correzione dell’errore materiale in sede di legittimità, dovendo provvedervi il giudice che emesso il provvedimento, secondo il disposto dell’art. 130, comma 1, cod.proc. pen.
6. Essendo il ricorso inammissibile e, in base al disposto dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna dellaricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 13/01/2022