Cass. Sez. III n. 36096 del 5 ottobre 2011 (Ud 22 set. 2011)
Pres. Squassoni  Est. Ramacci Ric. Lupi
Rifiuti. Fanghi da depurazione

L’articolo 127 D.Lv. 152\06, nell’attuale stesura, ha fornito una ulteriore indicazione per meglio stabilire il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi e che viene individuato nella fine del complessivo trattamento, il quale è effettuato presso l’impianto e finalizzato a predisporre i fanghi medesimi per la destinazione finale – smaltimento o riutilizzo – in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi. Tale precisazione determina, come ulteriore conseguenza, l’applicabilità della disciplina sui rifiuti in tutti i casi in cui il trattamento non venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo incompleto, inappropriato o fittizio.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale

 

 

Composta dagli lll.mi Sigg.:

 

Dott. Claudia SQUASSONI

Dott. Mario GENTILE

Dott. Renato GRILLO

Dott. Silvio AMORESANO

Dott. Luca RAMACCI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da

  1. LUPI GIAMPIETRO N. IL 11/11/1949

    avverso la sentenza n. 160/2009 TRIB. Sez. DIST. POGGIO MIRTETO, del 30/11/2009

    visti gli atti, la sentenza e il ricorso

    udita in PUBBLICA UDIENZA del 22/09/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUCA RAMACCI

 

 

 

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

 

Con sentenza del 30 novembre 2009, il Tribunale di Rieti – Sezione Distaccata di Poggio Mirteto, condannava LUPI Giampietro alla pena dell’ammenda per la contravvenzione di cui all’articolo 256, comma secondo, lettera a) D.Lv. 152\06, così riqualificando l’originaria imputazione e lo assolveva, per insussistenza del fatto, per l’ulteriore reato di cui all’articolo 137, comma sesto del medesimo D.Lv.

 

Il LUPI era accusato, quale legale rappresentante della società cui era affidata la gestione dell’impianto di depurazione delle acque reflue urbane sito in località San Giacomo del Comune di Configni, di aver effettuato il deposito incontrollato dei rifiuti costituiti dai fanghi di depurazione del predetto impianto avendone omesso lo smaltimento.

 

Avverso tale pronuncia il predetto proponeva ricorso per cassazione.

 

Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione dell’articolo 552 C.P.P. in ordine alla mancata o insufficiente enunciazione del fatto oggetto dell’imputazione e la conseguente nullità del decreto di citazione a giudizio impugnando, nel contempo, anche l’ordinanza emessa in data 15 luglio 2009, con la quale il giudice aveva rigettato la medesima eccezione sollevata mediante memoria scritta che riportava in ricorso.

 

A tale proposito premetteva che gli era stato affidato il servizio di gestione e manutenzione dell’impianto di proprietà comunale e che lo svolgimento di tale impegno non comportava alcuna responsabilità in ordine alla destinazione dei fanghi derivanti dal processo depurativo ed osservava che l’imputazione non indicava alcuna relazione tra la sua posizione e l’obbligo di smaltimento dei fanghi.

 

Aggiungeva che la sentenza nulla diceva in proposito, mentre l’ordinanza aveva respinto l’eccezione sul presupposto che trattavasi di questione attinente al merito della controversia e concludeva osservando che tale stato di cose aveva determinato una irreparabile compromissione del diritto di difesa.

 

Con un secondo motivo di ricorso deduceva l’inosservanza degli articoli 191, 194 e 526 C.P.P., rilevando che la sentenza era fondata su prove inesistenti quanto: alla ritenuta detenzione da parte sua dei rifiuti costituiti da fanghi, circostanza in ordine alla quale non era stata acquisita alcuna prova; allo stato di “palabilità” dei fanghi e la loro permanenza sul posto, fondata su personali valutazione dei testi escussi; alle affermazioni sulla pluriennale permanenza in loco dei fanghi, effettuate senza l’acquisizione di alcun elemento atto a dimostrare tale circostanza la quale, anzi, poteva ritenersi smentita dalla esistenza del registro di carico e scarico.

 

Osservava, inoltre, che la sentenza aveva ignorato la esistenza di decisive prove contrarie, quali quelle attestanti la collocazione dei suddetti fanghi nel novero dei rifiuti in considerazione della data di attivazione dell’impianto (che indicava nel 2004), la documentazione fotografica ed altri elementi comprovanti l’effettiva condizione dei fanghi, ivi comprese le dichiarazioni e la relazione del CT di parte.

 

Con un terzo motivo di ricorso deduceva l’inosservanza degli articoli 127, 183 e 256 del D.Lv. 152\06, nonché degli allegati B e C alla parte Quarta del medesimo decreto.

 

Rilevava, in primo luogo, che l’articolo 127 D.Lv. 152\06 andava applicato nella formulazione vigente dopo le modifiche apportate dal D.Lv. 4\2008, in quanto più favorevoli e che, alla luce di tale riferimento normativo, doveva escludersi che i fanghi potessero qualificarsi come rifiuti, non essendo ancora ultimato il processo depurativo all’esito del quale venivano prodotti.

 

Aggiungeva che, nella fattispecie, l’ipotizzato deposito temporaneo irregolare non poteva ritenersi sanzionabile in considerazione della collocazione, all’epoca dei fatti, nell’allegato C alla parte quarta tra le operazioni di recupero elencate, della voce R14 relativa al “…deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti i rifiuti qualora non vengano rispettate le condizioni stabilite dalla normativa vigente” e della circostanza che l’unica ipotesi in cui il legislatore abbia previsto sanzioni è quella contemplata dall’articolo 256, sesto comma con riferimento ai rifiuti sanitari pericolosi, cosicché l’applicazione dell’articolo 256, commi primo o secondo, si risolveva in una palese violazione del principio di tassatività.

 

Con un quarto motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione, rilevando l’illogicità della stessa nella parte in cui si affermava la natura di rifiuto dei fanghi in relazione alle condizioni delle vasche di essiccamento, che deponevano in senso contrario e per il fatto che la decisione era fondata sulle prove ritenute inesistenti per le ragioni esposte nei motivi precedenti ed era stata assunta senza considerare l’esistenza di prove decisive che avrebbero consentito l’assoluzione dell’imputato e di cui pure si era detto.

 

Aggiungeva che, in ogni caso, le evidenze probatorie acquisite non avrebbero consentito l’affermazione di penale responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio.

 

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

 

 

 

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

 

Il ricorso è infondato.

 

Occorre osservare, con riferimento all’eccezione respinta con ordinanza dal giudice del dibattimento e ribadita nel primo motivo di ricorso, che la formulazione dell’imputazione riportata in sentenza appare del tutto corretta in quanto espressa in modo chiaro e preciso ed idonea ad assicurare all’imputato la possibilità di articolare le proprie difese nel rispetto del contraddittorio.

 

Risultano infatti indicate nel dettaglio le disposizioni di legge che si assumono violate, la posizione dell’imputato nell’ambito della società commerciale da lui rappresentata ed il ruolo della medesima dell’attività di gestione dell’impianto di depurazione, chiaramente individuabile grazie all’indicazione del comune e della località ove è situato. Parimenti dettagliata risulta la descrizione della condotta e la qualificazione del rifiuto con indicazione del relativo CER.

 

Come correttamente osservato nell’ordinanza, le argomentazioni poste a sostegno dell’eccezione nella memoria riprodotta in ricorso erano attinenti al merito della vicenda ed andavano sviluppate in sede dibattimentale.

 

L’imputazione non necessitava, pertanto, di ulteriori specificazioni circa la condotta contestata all’imputato.

 

Ciò posto, va richiamata, per una migliore comprensione della vicenda, la ricostruzione fattuale operata dal giudice di prime cure e riportata in sentenza.

 

Dalla stessa emerge che, il 15 marzo 2007, personale del Corpo Forestale dello Stato, nel procedere ad un sopralluogo presso l’impianto di depurazione comunale per cui è processo, rilevavano che uno dei due letti di essiccamento era colmo di fanghi di depurazione, mentre l’altro ne conteneva una modesta quantità.

 

La classificazione dei fanghi era accertata tramite la documentazione acquisita che ne evidenziava l’attribuzione dei codici CER 190805 (fanghi biologici da depurazione) e 190801 (fanghi da vaglio).

 

Altra documentazione consentiva di accertare che fin dall’attivazione dell’impianto, nel 2001, la gestione era stata affidata alla società amministrata dall’imputato, mentre non venivano rinvenuti formulari attestanti lo smaltimento dei fanghi.

 

Occorre aggiungere, a tale proposito, che il giudice del merito ha correttamente considerato la posizione dell’imputato quale gestore dell’impianto e la responsabilità dello stesso, quantomeno, quale detentore dei rifiuti e, come tale, soggetto ai relativi oneri.

 

Il ricorrente contesta, poi, la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle risultanze probatorie effettuata dal giudice del merito con una serie di argomentazioni, sviluppate nel secondo e nel quarto motivo di ricorso, che possono essere considerate solo in parte in questa sede di legittimità.

 

Invero, sotto l’apparente deduzione di un vizio di “travisamento della prova” viene, in realtà, prospettato un “travisamento del fatto” da parte del giudice di merito, richiedendo così a questa Corte una inammissibile lettura alternativa degli elementi probatori da questi già considerati anche attraverso la riproduzione di brani delle dichiarazioni testimoniali e di documenti acquisiti.

 

Dalla lettura dei suddetti motivi di ricorso non emerge, peraltro, alcun dato significativo di una possibile utilizzazione ai fini della decisione, da parte del giudice di merito, di una prova inesistente o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale trattandosi, per lo più, di elementi ulteriori o non determinanti che risultano, come appresso si dirà, non essenziali a fronte di altre risultanze valorizzate dal decidente.

 

Tali argomentazioni, per le medesime ragioni, non rilevano neppure sotto il profilo della contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, ostandovi la lettura dell’articolo 606 lettera e) C.P.P. offerta dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha sempre circoscritto il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, escludendo la possibilità di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all’articolo 606 C.P.P. dalla Legge 46\2006, Sez. VI n. 10951, 29 marzo 2006; Sez. VI n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. VI n. 23528, Sez. III n. 12110, 19 marzo 2009).

 

Ciò posto, deve rilevarsi che, in sostanza, il giudice ha fondato la propria decisione sul presupposto che la mancanza di idonea documentazione comprovante l’avvenuto lecito smaltimento dei fanghi e le condizioni in cui detti fanghi versavano (era presente vegetazione spontanea) escludevano la possibilità di ritenere l’esistenza di un deposito temporaneo per superamento dei limiti temporali imposti dalla legge.

 

La posizione di responsabilità del ricorrente veniva inquadrata con riferimento alla sua qualifica di detentore dei rifiuti ed alla inosservanza degli oneri conseguenti ed erano poi esaminate le risultanze delle dichiarazioni rese dai testi indotti dalla difesa ed analizzate le disposizioni applicabili.

 

Si tratta di considerazioni la cui tenuta logica e coerenza strutturale appare fuori discussione e che non vengono minimamente intaccate dalle argomentazioni poste a sostegno del ricorso.

 

Tali aspetti potranno peraltro essere meglio illustrati dopo aver adeguatamente individuato la corretta lettura delle disposizioni applicabili nella fattispecie, posta in discussione nel terzo motivo di ricorso.

 

Occorre a tale proposito ricordare quale sia la disciplina applicabile ai fanghi da depurazione ed individuare il momento nel quale detti fanghi siano soggetti alla disciplina sui rifiuti.

 

L’articolo 127, comma primo D.Lv. 152\06, nell’attuale formulazione dopo le modifiche apportate dal D.Lv. 4\2008, così recita: “ferma restando la disciplina di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile e alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell'impianto di depurazione. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato”.

 

La disposizione, originariamente, era contenuta nell’articolo 48 dell’ormai abrogato D.Lv. 152\99 che stabiliva: “ferma restando la disciplina di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99 e successive modifiche, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta ciò risulti appropriato”.

 

La stessa veniva sostanzialmente riproposta nell’articolo 127 del D.Lv. 152\06, nell’originaria formulazione, con una ulteriore specificazione:” ferma restando la disciplina di cui al D.L.vo 27 gennaio 1992, n. 99, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile. I fanghi devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato.” Veniva altresì aggiunto il divieto di smaltimento dei fanghi nelle acque superficiali dolci e salmastre.

 

Le modifiche apportate all’articolo 127 spostano dunque il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi al temine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione, ragion per cui è essenziale individuare il momento finale di tale trattamento.

 

Sul punto nulla è dato rilevare dalle disposizioni in materia.

 

L’articolo 2 del D.Lv. 99\92 definisce i fanghi come residui derivanti dai processi di depurazione e si riferisce ai “fanghi trattati” avendo riguardo ad una fase successiva alla depurazione, come sembra potersi desumere dal tenore dell’articolo 3, che indica il trattamento tra le condizioni per l’utilizzazione e dell’articolo 11, comma secondo il quale prevede per i fanghi sottoposti a trattamento e ad altre procedure ulteriori analisi rispetto a quelle previste dal comma precedente.

 

Niente di essenziale si rinviene, inoltre, nel D.Lv. 152\06 che definisce, nell’articolo 74, comma primo, lett. bb) “fanghi” “i fanghi residui, trattati o non trattati, provenienti dagli impianti di trattamento delle acque reflue urbane”, mentre l’articolo 101, ultimo comma si riferisce al “recupero come materia prima dei fanghi di depurazione”.

 

L’articolo 184, comma terzo, lettera g) individua tra i rifiuti speciali “...i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi” mentre l’articolo 208, comma quindicesimo, si riferisce agli “impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l'acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, ad esclusione della sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee…

 

Anche un sommario esame del materiale svolgimento del processo depurativo non appare particolarmente utile – sebbene possa certamente ritenersi che le alcune operazioni riguardanti i fanghi quali, ad esempio, l’ispessimento, la disidratazione, l´essiccazione rientrino senz’altro nella fase finale del complessivo ciclo di depurazione - poiché la collocazione temporale dell’effettivo completamento del processo può dipendere da fattori diversi come, ad esempio, nel caso in cui l’essiccamento avvenga con l’ausilio di specifiche attrezzature ovvero mediante semplice deposito nei letti di essiccamento e, in tale ipotesi, se il deposito venga effettuato all’aperto o al coperto, evitando così l’esposizione agli agenti atmosferici. Possono inoltre influire altri fattori, quali le effettive modalità di gestione dell’impianto o altri comportamenti specifici.

 

Non meno rilevanti appaiono, inoltre, la effettiva destinazione dei letti di essiccamento e la loro materiale collocazione che consentirebbero di individuarne la caratteristica di parte integrante dell’impianto o di mero luogo di stoccaggio dei fanghi.

 

Da ultimo, assume rilievo anche la modalità di trattamento dei fanghi medesimi che deve essere adeguata e tecnicamente corretta.

 

Può dunque affermarsi il principio secondo il quale l’articolo 127 D.Lv. 152\06, nell’attuale stesura, ha fornito una ulteriore indicazione per meglio stabilire il momento in cui la disciplina dei rifiuti deve applicarsi ai fanghi e che viene individuato nella fine del complessivo trattamento, il quale è effettuato presso l’impianto e finalizzato a predisporre i fanghi medesimi per la destinazione finale – smaltimento o riutilizzo – in condizioni di sicurezza per l’ambiente mediante stabilizzazione, riduzione dei volumi ed altri processi. Tale precisazione determina, come ulteriore conseguenza, l’applicabilità della disciplina sui rifiuti in tutti i casi in cui il trattamento non venga effettuato o venga effettuato in luogo diverso dall’impianto di depurazione o in modo incompleto, inappropriato o fittizio.

 

Nel caso di specie il giudice ha ritenuto l’applicabilità della disciplina dei rifiuti ai fanghi rinvenuti dal Corpo Forestale presso l’impianto in ragione di diversi elementi, quali la mancanza di documentazione attestante il lecito smaltimento, la presenza di un quantitativo rilevante di fanghi in uno dei letti di essiccamento (definito “colmo”) e la presenza di vegetazione sui fanghi medesimi.

 

Si tratta di dati fattuali essenziali coerentemente valutati e che rendono evidente la applicabilità della disciplina sui rifiuti.

 

Determinante risulta, in primo luogo, l’assenza di documentazione comprovante il lecito smaltimento. La presenza dei prescritti formulari o di ogni altro dato documentale comprovante tempi e modi dello smaltimento avrebbe sollevato ogni dubbio e consentito di collocare temporalmente le varie fasi di trattamento dei fanghi.

 

Tale circostanza non poteva peraltro essere superata, come pretende il ricorrente, dall’esibizione di un registro istituito, verosimilmente, alcuni giorni prima del controllo (perché vidimato il 9 marzo 2007)

 

La presenza di un quantitativo rilevante di fanghi e di vegetazione spontanea forniva, inoltre, dati significativi ed apprezzabili circa il tempo di permanenza dei rifiuti.

 

Giova osservare, a tale proposito, che non si ravvisa alcuna violazione dell’articolo 194 C.P.P. da parte del giudice del merito il quale, nel riferirsi alle “valutazioni” dell’operatore di polizia escusso come teste, usa un termine inappropriato ma si riferisce a dati e circostanze obiettive riferite dal medesimo quali, appunto, l’assenza dei formulari e la presenza di vegetazione, ricavando il periodo di permanenza del rifiuto in loco attraverso il calcolo del tempo intercorrente tra l’anno di avvio dell’impianto (2001) e quello dell’accertamento (2007).

 

Del tutto irrilevante, a fronte degli altri elementi considerati, è infine la condizione di “palabilità” o meno dei fanghi cui il ricorrente attribuisce rilievo, in quanto indicativa esclusivamente del momento in cui può ritenersi sufficientemente compiuto il processo di disidratazione ed il fango diviene trasportabile.

 

Date tali premesse, appare dunque evidente la correttezza che connota la valutazione dell’impianto probatorio da parte del giudice del merito e la insussistenza dei vizi dedotti sul punto.

 

A conclusioni analoghe deve pervenirsi per quanto riguarda la applicazione delle disposizioni del D.Lv. 152\06 richiamate in ricorso e che si assumono violate.

 

Dell’ambito di operatività dell’articolo 127 si è già detto ed i dati fattuali valorizzati dal Tribunale, che ha peraltro richiamato la disposizione nell’attuale formulazione, ritenuta più garantista dal ricorrente, indicano chiaramente che le modalità di detenzione dei fanghi deponevano inequivocabilmente per la loro condizione di rifiuto, stante la incompatibilità delle modalità di conservazione con qualsivoglia fase del processo depurativo e con procedure di trattamento tecnicamente accettabili.

 

Considerata tale loro natura, deve osservarsi che correttamente il giudice del merito ha escluso la configurabilità, nella fattispecie, di una ipotesi di deposito temporaneo per difetto dell’elemento temporale che lo caratterizza.

 

Tali condivisibili conclusioni non perdono la loro rilevanza a fronte delle considerazioni svolte in ricorso.

 

Va in primo luogo osservato, anche con riferimento alla disciplina vigente all’epoca dei fatti, che il deposito temporaneo consiste nel raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, a determinate condizioni dettagliatamente specificate e la cui osservanza solleva il produttore dagli obblighi previsti dal regime autorizzatorio delle attività di gestione, salvo quelli di tenuta dei registri di carico e scarico. Non viene meno, inoltre, il divieto di miscelazione.

 

Ciò posto, deve però ricordarsi che la giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, è orientata nel ritenere che l’onere della prova in ordine al verificarsi delle condizioni fissate per la liceità del deposito temporaneo grava sul produttore dei rifiuti in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria (Sez. III n. 15680, 23 aprile 2010; Sez. III n. 21587, 17 marzo 2004;. Sez. III n. 30647, 15 giugno 2004).

 

Detta prova non risulta fornita nella fattispecie e la mancanza delle condizioni di legge per il deposito temporaneo comportano la configurabilità di un deposito preliminare o stoccaggio, attività che richiedono un titolo abilitativo per la loro effettuazione, o l’abbandono nella forma del deposito incontrollato (v. Sez. III n. 21024, 5 maggio 2004; Sez. III n. 33791, 3 settembre 2007).

 

Tale ultima situazione è quella riscontrata dal giudice del merito.

 

Del tutto prive di pregio sono, poi, le considerazioni svolte in ricorso relativamente alla collocazione, all’epoca dei fatti, nell’allegato C alla parte quarta, tra le operazioni di recupero elencate, della voce R14 relativa al “…deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti i rifiuti qualora non vengano rispettate le condizioni stabilite dalla normativa vigente

 

Si tratta, invero, di una nota incongruenza del testo originario del D.Lv. 152\06 prontamente segnalata dalla dottrina, che ebbe modo di osservare come si fosse di fatto operata una distinzione tra il deposito temporaneo finalizzato al recupero e quello riferito allo smaltimento, ponendosi in evidente contrasto con la normativa comunitaria, la quale esclude il deposito temporaneo dalle operazioni di recupero e smaltimento costituendo, al contrario, un’operazione preparatoria e come, paradossalmente, si fossero poste le condizioni per sostenere che il deposito temporaneo irregolare poteva essere suscettibile di autorizzazione in quanto compreso tra le attività di recupero.

 

A tale incongruenza ha posto rimedio il D.Lv. 4\2008.

 

Orbene, anche a voler accedere ad una interpretazione letterale della disposizione, pure per tali attività sarebbe stato necessario un titolo abilitativo (che, nella fattispecie, mancava) in assenza del quale eventuali condotte poste in essere sarebbero state riconducibili nell'ambito della gestione illecita.

 

Non meno irrilevante appare, infine, il riferimento al reato di cui all’articolo 256, comma sesto D.Lv. 152\06 in tema di deposito di rifiuti sanitari pericolosi, il quale contiene uno specifico riferimento all’articolo 227 che, a sua volta, richiama il D.P.R. 15 luglio 2003, n. 254 avente evidente natura di disposizione speciale rispetto a quelle generali in materia di rifiuti, con la conseguenza che la disciplina comune viene normalmente ritenuta applicabile in tutti i casi non regolati in modo specifico dal menzionato D.P.R. 254/2003.

 

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

 

 

 

P.Q.M.

 

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

 

Così deciso in Roma il 22 settembre 2011

 

 

Il Consigliere Estensore Il Presidente

(Dott. Luca RAMACCI) (Dott. Claudia SQUASSONI)

 

 

 

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