Cass. Sez. III n. 25429 del 20 giugno 2016 (Ud 1 lug 2015)
Presidente: Squassoni Estensore: Grillo Imputato: Gai
Rifiuti Deposito incontrollato reato permanente

Il reato di deposito incontrollato di rifiuti è reato commissivo eventualmente permanente, la cui antigiuridicità cessa con il conseguimento della necessaria autorizzazione ovvero con l'ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con un provvedimento cautelare di natura reale ovvero con la sentenza di primo grado.

 RITENUTO IN FATTO

1.1Con sentenza del 24 giugno 2014 il Tribunale di Lucca dichiarava GAI Giovanni e GAI Piero, imputati nell'ambito del processo riunito, di due separati reati di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256 D. Lgs. 152/06 (rispettivamente attività di recupero ambientale e attività di gestione e stoccaggio di rifiuti non pericolosi, commesse in Camporgiano, località "Roccalberti" fino al dicembre 2009 e nel mese di ottobre 2011), colpevoli di entrambi i reati condannandoli, rispettivamente, alla pena di € 12.000,00 di ammenda ciascuno per il primo reato ed alla medesima pena per il secondo reato.

1.2 Ricorre avverso la detta sentenza GAI Pietro tramite il suo difensore di fiducia, deducendo i motivi che seguono. Con il primo, lamenta l'inosservanza ed erronea applicazione della legge penale (art. 2 cod. pen.) e della legge speciale sui rifiuti (D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256 e D.M. n. 161 del 2012). Con il secondo motivo lamenta l'inosservanza ed erronea applicazione della legge penale nonchè la manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla imputazione contestata a GAI Pietro. Con il terzo motivo lamenta altra inosservanza ed erronea applicazione della legge penale (art. 157 cod. pen.) in punto di mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Con un quarto motivo lamenta l'inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione in riferimento al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 4. Con il quinto motivo lamenta l'inosservanza della legge penale e la sua erronea applicazione nonchè la manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla attribuibilità del reato al ricorrente. Con il sesto motivo lamenta inosservanza della legge penale con riferimento all'istituto della continuazione ex art. 81 cod. pen.. Con il settimo motivo lamenta l'erronea applicazione ed inosservanza della legge penale in punto di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della quantificazione della pena.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato per le ragioni che seguono.

2.In riferimento al primo motivo di ricorso, afferente alla prima delle due imputazioni mosse a carico del ricorrente, va, anzitutto, ricordato in punto di fatto che a GAI Piero (in concorso con GAI Giovanni) viene addebitato di avere effettuato una gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi (terre e rocce da scavo) e di non avere osservato le condizioni richieste con le iscrizioni, in quanto in luogo di una attività di recupero ambientale mediante utilizzo di rifiuti in un'area estesa circa 9000 mq. come da comunicazione della Provincia di Lucca del 9 giugno 2009 con la specifica prescrizione di riutilizzare nel recupero ambientale i rifiuti di cui al punto 12.7 dell'ali. 1 suball. 1 al D.M. 5.2.1998 (fanghi costituiti da inerti - codice CER 010412), veniva invece riscontrata nel corso di un controllo effettuato il 9 dicembre 2009 nella località "Roccalberti" destinata al recupero ambientale, la presenza di rifiuti non pericolosi 1 costituiti da terre e rocce da scavo provenienti dalla escavazione della Galleria di Castelnuovo non autorizzate dalla Provincia. .

3. Tanto precisato, il Tribunale, nel qualificare la condotta contestata all'odierno ricorrente, ha ritenuto applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 dovendosi le terre e rocce da scavo considerare rifiuti in quanto la loro destinazione non era prevista nel progetto di recupero ambientale e non erano state espletate tutte le procedure previste per la esclusione di tali prodotti dalla normativa sui rifiuti: in particolare, secondo il Tribunale, il materiale in questione non poteva essere qualificato come sottoprodotto in assenza dei requisiti richiesti dall'art. 186, comma 1. E ciò anche dopo la modifica del menzionato art. 186 intervenuta con la L. n. 49 del 2009 in quanto dell'art. 186 suddetto, il comma 7 bis come modificato dalla legge ora menzionata, prescrive che "le terre e rocce da scavo qualora ne siano accertate le caratteristiche ambientali possono essere utilizzate per interventi di miglioramento ambientale anche in siti non degradati per il miglioramento della qualità della copertura arborea o delle condizioni idrogeologiche o della percezione paesaggistica".

3.1 Sotto altro profilo, poi, il Tribunale ha ritenuto comunque applicabile la norma di cui all'art. 186 cit. interpretandola - sulla scorta anche di precedenti giurisprudenziali di questa Corte Suprema puntualmente richiamati - come norma di carattere temporaneo insuscettibile della applicazione dell'art. 2 cod. pen., rilevando che l'intera materia è stata poi compiutamente disciplinata dal D.M. 10 agosto 2012, n. 161 entrato in vigore il successivo 6 ottobre.

3.2 Ne è conseguita, quindi, la conclusione secondo la quale, mancando all'epoca del sopraluogo previsioni specifiche in ordine al riutilizzo di quei rifiuti e non potendosi essi qualificare come sottoprodotti, come peraltro deciso dalla stessa azienda, tale materiale doveva considerarsi all'atto del controllo (9 dicembre 2009) rifiuto.

3.3 Così ricostruito il percorso argomentativo del Tribunale, la difesa con il primo motivo ipotizza invece l'intervenuta abrogazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 per effetto di quanto disposto dal D.Lgs. n. 2015 del 2010, art. 30: abrogazione confermata, secondo la tesi difensiva, anche dal D.L. n. 1 del 2012, art. 49 convertito nella L. n. 27 del 2012 secondo la quale "l'utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del mare di concerto con il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti precisando che l'abrogazione della norma sopra richiamata veniva differita alla data di entrata in vigore del D.M.".

3.4 Da qui il rilievo in ordine alla erronea applicazione della legge penale per avere il Tribunale ritenuto l'inapplicabilità dell'art. 2 cod. pen. affermando la natura temporanea dell'art. 186 più volte citato sulla base di quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. 3^ n. 12229/14): in ogni caso, prosegue la difesa del ricorrente, la qualifica di norma temporanea sarebbe stata assunta solo con decorrenza 10 dicembre 2010 e non oltre il 6 ottobre 2012, con la conseguenza che all'epoca del controllo (9 ottobre 2009) la norma speciale non era più in vigore, dovendosi applicare per i fatti antecedenti al 10 dicembre 2010 la disposizione di cui all'art. 2 c.p., comma 2.

3.5 Il rilievo è però infondato: la possibilità di utilizzazione diretta delle terre e rocce da scavo, che determina, ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 l'esclusione della disciplina dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile. (vds. Sez. 3 12.6.2008 n. 37200, Picchioni, Rv. 241087).

Non basta, quindi, dimostrare che le terre e rocce non siano inquinate in vista dalla applicabilità della speciale normativa ad esse inerenti, rientrando comunque quel materiale nella nozione di rifiuto in assenza delle condizioni dettate dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, comma 5.

3.6 Orbene, nel caso in esame, secondo le risultanze della sentenza impugnata e sulla base anche delle testimonianze assunte, richiamate per larghi tratti nella sentenza impugnata, risulta che il GAI era in possesso di un'autorizzazione per il recupero ambientale nel Comune di Camporgiano, Località "Roccalberti" le cui prescrizioni non sono state rispettate, con la conseguente insussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per sottrarre il materiale sequestrato alla disciplina dei rifiuti.

3.7L'affermazione del ricorrente, secondo la quale le rocce e terre da scavo rispondevano ai requisiti per il loro impiego, è di tipo fattuale e non emerge dalla sentenza, avendo, anzi, il giudice di merito affermato che i rifiuti da utilizzare per l'attività di recupero dovevano essere quelli identificati nel punto 12.7 dell'Allegato 1 Suball. 1 al D.M. 5.2.1998 (fanghi costituiti da inerti con codice CER 01.04.12), mentre in sede di sopralluogo, oltre a fanghi alternati con strati di terra ed a un cumulo di fanghi circa 750 metri cubi, vi era un cumulo di terre e rocce da scavo da considerare come rifiuti ex art. 186 del D. Lgs. 152/06 in quanto la loro destinazione per il riutilizzo non era prevista nel progetto che aveva poi dato luogo all'autorizzazione e in ogni caso non erano state portate a compimento tutte le procedure necessarie per l'esclusione di quel materiale estraneo dalla normativa sui rifiuti .

3.8 Quanto all'abrogazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, come sottolineato da questa Corte Suprema "ai sensi del D.Lgs n. 205 del 2010, art. 39, comma 4 la stessa è destinata ad operare solo a seguito dell'entrata in vigore dei DM previsti dall'art. 184 bis del testo unico, dovendo corrispondere il sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi stabiliti da tali provvedimenti. Orbene, considerato che il D.Lgs n. 205 del 2010, citato art. 39, comma 4, prevede che l'abrogazione al D.Lgs n. 152 del 2006, dell'art. 186 opera solo a far data dall'entrata in vigore dei DM in materia di sottoprodotti, il predetto art. 186 ha assunto natura di norma temporanea, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 2 c.p., la relativa disciplina si applica in ogni caso ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia di terre e rocce da scavo. Non sarebbe, infatti, possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di disposizioni amministrative inesistenti all'epoca della loro produzione" (Sez. 3^ 4.7.2012 n. 33577, Digennaro, Rv. 253662).

3.9 Tale orientamento, condiviso dal Collegio, risulta peraltro confermato da altra più recente pronuncia secondo la quale la normativa in materia di terre e rocce da scavo è esclusa dall'applicazione della disciplina sui rifiuti di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ex art. 186 stesso D.Lgs., a condizione che venga fornita da parte dell'imputato la prova della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile, competendo invece all'Organo dell'accusa provare la circostanza di esclusione della deroga, ovverossia l'esistenza di una concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti (Sez. 3^ 12.6.2008 n. 37280, cit.): invero, come più volte ricordato da questa Corte Suprema, tutti i materiali provenienti da escavazione o demolizione vanno qualificati come rifiuti speciali e non materie prime secondarie o sottoprodotti in assenza della dimostrazione che detti materiali siano destinati, sin dalla loro produzione all'integrale riutilizzo per la riedificazione senza trasformazioni preliminari o compromissione della qualità ambientale (tra le tante, Sez. 3^ 19.1.2012 n. 7374, Aloisio, Rv. 252101; idem 17.1.2012 n. 17823, Celano, Rv. 252617; idem 4.12.2007 n. 14323, P.M. in proc. Coppa e altri, Rv. 239657; idem 2.10.2014 n. 3202, Giaccari).

3.10 Anche in ordine alla asserita inapplicabilità del regime previsto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 in forza del principio della retroattività della legge più favorevole conseguente all'emissione del D.M. n. 161 del 2012 entrato in vigore il 6 ottobre 2012 (epoca successiva ai fatti oggetto del processo) il rilievo non è fondato: la risposta offerta sul punto dal Tribunale è assolutamente in linea con l'orientamento di questa Corte Suprema (per vero contestato dalla difesa del ricorrente con argomentazioni ripropositive di quelle esposte in sede dibattimentale) secondo il quale l'abrogazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 opera (come dispone il D.Lgs. n. 205 del 2010, art. 39, comma 4) soltanto a decorrere dall'entrata in vigore del Decreto Interministeriale in materia di sottoprodotti, con la conseguenza che la disposizione di cui al ricordato art. 186 va qualificata come norma temporanea, sicchè ai sensi dell'art. 2 cod. pen. la relativa disciplina trova applicazione in ogni caso per i fatti commessi nella vigenza della normativa precedente in tema di terre e rocce da scavo, in quanto non è possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a materiali sulla base di disposizioni amministrative inesistenti al momento della loro produzione (vds. oltre alla menzionata decisione n. 33577/12, Digennaro, anche Sez. 3^ 16.12.2014 n. 17380, Cavanna, Rv. 263348).

3.11 Ritiene il Collegio che non vi siano ragioni per discostarsi dal detto indirizzo e che la diversa tesi sostenuta dalla difesa dei ricorrenti, secondo la quale le precedenti decisioni di questa Corte si porrebbero in contrasto con le Disposizioni finali e transitorie di cui al D.M. n. 161 del 2012, art. 15 oltre che infondata appare soprattutto generica nella sua impostazione. Così come non appare fondato l'ulteriore rilievo circa la inesistenza nel nostro ordinamento di una legge temporanea postuma, non essendo questo il senso delle affermazioni contenute nelle ricordate decisioni di questa Corte Suprema.

4.Il secondo motivo, con il quale si censura quella parte della sentenza che - in riferimento alle imputazioni contestate a GAI Piero - gli attribuisce una specifica responsabilità in ordine al reato allo stesso ascritto, non è fondato alla luce della esaustiva motivazione contenuta nella sentenza impugnata. Il Tribunale, muovendo dalla premessa che fosse il solo GAI Giovanni titolare della omonima ditta quanto meno fino luglio 2008, epoca in cui la ditta individuale veniva trasformata in S.n.c. con attribuzione a GAI Piero della qualità di socio contitolare e di rappresentante dell'impresa come emerso dalla visura camerale di tale ditta, correttamente indica il GAI Piero coautore del reato tenuto conto dell'epoca dei fatti (dicembre 2009, successivo, quindi, alla trasformazione della ditta individuale in s.n.c.). Le deduzioni contenute nel relativo motivo appaiono, oltretutto, generiche in relazione alla specificità delle argomentazioni - certamente non manifestamente illogiche - sviluppate dal Tribunale.

5. Quanto alla dedotta erronea applicazione dell'art. 157 cod. pen. in tema di mancata declaratoria della prescrizione, assolutamente condivisibili appaiono le considerazioni svolte dal Tribunale in merito alla natura permanente - e non istantanea - del reato. E' da escludere che questo, come asserito dalla difesa dei ricorrenti, si sia consumato nell'aprile 2008 con l'attività di trasporto di terre e rocce da scavo documentato dalle fatture di acquisto acquisite in atti (e prese in considerazione dal Tribunale).

5.1 Al riguardo va anzitutto evidenziato che il giudice di merito, nel qualificare correttamente il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256 come permanente, ha anche precisato che la permanenza deve ritenersi interrotta oltre che nel caso di completa cessazione della attività, laddove essa prosegua in assenza di autorizzazione, solo quando questa venga concessa e che, in caso di autorizzazione sottoposta all'osservanza di determinate prescrizioni o a condizioni, solo al verificarsi di esse l'autorizzazione può dirsi pienamente operante sicchè nessuna rilevanza può assumere ai fini della interruzione della permanenza la circostanza che l'autorizzazione sia stata concessa, ma le prescrizioni (o condizioni) ivi contemplate non siano state osservante in quanto in tal caso l'autorizzazione deve considerarsi tamquam non esset (così Sez. 3 14.4.2005 n. 16890, Gallucci e altro, Rv. 231649, secondo cui "Il reato di inosservanza delle prescrizioni contenute nelle autorizzazioni, di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 51, comma 4, ha natura permanente, non rilevando il fatto che la P.A. abbia fissato un termine per l'adempimento delle prescrizioni, atteso che è punito non l'inadempimento in sè delle prescrizioni ma la protrazione della specifica condotta di smaltimento, recupero, trasporto od altro senza l'osservanza delle stesse").

5.2 In merito alla natura permanente del reato di gestione dei rifiuti ritiene il Collegio di aderire alla tesi positiva, prevalente nella giurisprudenza di questa Corte, appartenendo tali reati alla categoria di quelli commissivi eventualmente permanenti, la cui antigiuridicità cessa o con l'ultimo abusivo conferimento di rifiuti, ovvero con un provvedimento cautelare di natura reale (sequestro) ovvero con la sentenza di primo grado (v. oltre a Sez. 3^ 19.12.2007, Sarra e altro, Rv. 238828; Sez. 3^ 13.1.2013 n. 48489, Fumuso, Rv. 238519; Sez. 3^ 20.5.2014 n. 38662, Convertino, Rv. 260380).

5.3 Nel caso in esame il Tribunale ha individuato la data del controllo da parte di personale dell'ARPAT nel 9 dicembre 2009, correttamente affermando che, a quella data, l'attività era in corso; quanto alla cessazione della permanenza, questa, contrariamente a quanto asserito dalla difesa in coerenza con la sua tesi della intervenuta abrogazione al D.Lgs. n. 152 del 2006, dell'art. 186 nel dicembre 2010 (tesi che questa Corte ha ritenuto non fondata per le ragioni dianzi esposte), è cessata esattamente con il conseguimento della autorizzazione avvenuto il 29 ottobre 2012, essendo questo un evento positivo contrario alla protrazione del reato.

6. Per ragioni sostanzialmente analoghe va disatteso anche il quarto motivo, aggiungendosi soltanto che il Tribunale ha ritenuto, a ragione ed in linea con la struttura della norma speciale, integrato il reato consistito nella inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni (il riferimento è a quella comunicazione della provincia di Lucca del 9 giugno 2009 in materia di condizioni per il riutilizzo dei materiali costituiti da fanghi consistenti in inerti).

7. Sostiene la difesa nel quinto motivo del ricorso che, come non è punibile l'attività di vagliatura, non lo è nemmeno l'attività di frammentazione e macinatura che costituiscono operazioni di trasformazione preliminare ai sensi del richiamato D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186.

7.1 La censura viene sollevata con riferimento alla contestazione di cui al capo B) con la quale si contesta ai due imputati - e per quel che rileva in questa sede - al ricorrente G.P. di avere effettuato la gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi (terre e rocce da scavo) stoccando tale materiale oltre il limite temporale (annuale) consentito per lo stoccaggio di messa in riserva come indicato nel D.M. 5 febbraio 1998, art. 6, comma 6 per l'invio di quel materiale al recupero ed ancora l'effettuazione di operazioni di vagliatura sulle terre e rocce in deposito, realizzando cumuli per circa 100 mc, senza essere munito della apposita autorizzazione.

7.2 La motivazione offerta dal Tribunale per giungere alla affermazione di responsabilità si fonda, ancora una volta, sui risultati della prova testimoniale (particolarmente precise le notizie riferite sul punto dal teste B.M. dell'ARPAT soprattutto a proposito della attività di vagliatura e selezione), ma anche sui rilievi fotografici comprovanti sia l'esistenza della vagliatrice, sia dell'impianto apposito, sia del prodotto vagliato.

7.3 La tesi difensiva con la quale si afferma l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione non ha fondamento: se è vero che le attività di macinatura e frammentazione di cui sopra non sono punibili in quanto tale attività non costituisce un'operazione di trasformazione preliminare ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 186 non determinando di per sè stessa alcuna alterazione dei requisiti merceologici e di qualità ambientale (in termini Sez. 3^ 7.10.2008, n. 41331, Marsella, Rv. 241529), è del pari incontrovertibile che il Tribunale è giunto alla conclusione della rilevanza penale della condotta, anzitutto riconoscendo - sulla base delle testimonianze acquisite e dei rilievi fotografici - che fosse stata posta in essere l'attività di vagliatura (teste B.M. dell'ARPAT, che aveva effettuato il sopralluogo); ancora, giudicando, a ragione e con motivazione che si sottrae a qualsiasi censura di ordine logico, inattendibile la testimonianza di G.P., figlio dell'imputato G.G. e fratello della coimputato G.P. odierno ricorrente, ritenendo concreto un suo specifico interesse all'esito della vicenda processuale e soprattutto inverosimile quanto riferito dal teste circa l'utilizzazione in altro sito della griglia per la vagliatura proveniente, a suo dire, da altra cava più piccola. Ed ancora, il Tribunale ha ritenuto inconferente - giudizio che questa Corte Suprema condivide - il precedente giurisprudenziale sopra citato, in quanto quello che viene contestato ai due imputati non è una attività di frammentazione, ma un'attività di deposito ultrannuale passibile di sanzione ai sensi del D.M. 5 febbraio 1998, art. 7 così come l'attività di selezione è stata eseguita - secondo il condivisibile apprezzamento di fatto (incensurabile in questa sede) - in assenza della prescritta autorizzazione.

8. Del tutto generico e meramente enunciato il sesto motivo di ricorso afferente alla erronea applicazione della legge penale in materia di continuazione ex art. 81 cod. pen. con riferimento ai due reati contestati sub A) e B).

9. In ultimo il settimo motivo - riferito alla manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riguardo alla eccessiva severità del trattamento punitivo va disatteso perchè infondato.

9.1 In particolare la difesa rileva - quanto alla eccessività della pena - che in riferimento al reato sub B) il Tribunale avrebbe dovuto contenere la pena in ragione di metà rispetto a quella comminata per il reato sub A) in applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 4 a tenore del quale "sono ridotte della metà nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonchè nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni".

9.2 A ben vedere il Tribunale ha irrogato la pena in relazione non già alla inosservanza di prescrizioni contenute nell'autorizzazione, ma ad una attività di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi consistita nello stoccaggio di rifiuti costituiti da terre e rocce da scavo oltre i limiti previsti per lo stoccaggio di messa in riserva che prevede un anno di tempo per l'invio del materiale al recupero, nonchè per una attività di vagliatura in assenza di autorizzazione. Si tratta, dunque, di fattispecie diversa da quella ipotizzata dalla difesa, mentre con riferimento alla entità della pena il Tribunale ha tenuto conto - pur prendendo atto dello stato di incensuratezza dei due imputati - delle modalità della condotta ritenute gravi e soprattutto della refrattarietà dei due imputati al rispetto delle regole.

9.3 Peraltro nella quantificazione della pena il Tribunale si è mantenuto su un livello più prossimo al minimo (Euro 2.600,00 di ammenda) che al massimo (Euro 26.000,00 di ammenda) mostrando di valorizzare il dato della incensuratezza, anche se da solo ritenuto elemento non bastevole per contenere la pena entro limiti più esigui.

9.4 Anche in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche il Tribunale ha tenuto conto come elemento ostativo della gravità della condotta. E' noto come il riconoscimento di circostanze attenuanti generiche sia rimesso al potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Ne consegue che anche il giudice di appello - pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante - non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (vedi Cass., Sez. 1, 11.1.1994, n. 3772, Spallina, Rv. 196880; più di recente Sez. 3^ 19.3.2014 n. 28535, Lule, Rv. 259899).

10. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2015.