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Cass. Sez. III sent. 17836 del 13 maggio 2005
Pres. Zumbo Est. Onorato Imp. Maretti ed altro

Rifiuti - Nozione di rifiuto ed "interpretazione autentica" ex art. 14 Legge 178-2002 - Compatiobilità con la normativa comunitaria anche alla luce della sentenza "Niselli" della Corte di Giustizia

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Svolgimento del processo

1 - Con sentenza del 22.1.2004 il tribunale monocratico di Voghera ha condannato Oreste Felice Maretti, quale amministratore della Maretti Strade s.r.l., e Alessandro Poggi, quale amministratore della Agest s.r.l., alla pena di euro 2.500 di ammenda ciascuno perché ritenuti responsabili:

a) entrambi del reato di cui agli artt. 113 c.p. e 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997, perché, in cooperazione tra loro, avevano depositato in modo incontrollato rifiuti speciali non pericolosi nel piazzale interno della predetta Maretti Strade;

b) il solo Poggi del reato di cui all'art. 51, comma 1 (benché erroneamente indicato in epigrafe come art. 50, comma 1) D.Lgs. 22/1997, perché aveva effettuato il trasporto dei suddetti rifiuti senza esser munito della prescritta autorizzazione:

accertati in Retorbido in epoca immediatamente successiva al 30.3.2000.

In estrema sintesi, in esito alla complessa istruttoria dibattimentale, il giudice monocratico ha accertato che nel piazzale della s.r.l. Maretti Strade erano presenti un cumulo di circa 1.500 mc. di materiale costituito da terra, asfalto, plastica, carta, legno, ferro, cemento, mattoni, e un altro cumulo di circa 300 mc. costituito da terra da scavo e materiale proveniente da demolizioni (in particolare mattoni). Molti di questi materiali erano stati portati con autocarri della società Agest, amministrata dal Poggi, la quale aveva ricevuto in appalto dal comune di Voghera la manutenzione periodica di strade, piazze, marciapiedi e aree comunali, ed era stata altresì incaricata di rimuovere il materiale giacente presso l'ex Caserma di Cavalleria, costituito da terra, mattoni e forse qualche piastrella.

Tanto premesso, il giudice ha osservato che i materiali accumulati dovevano qualificarsi come rifiuti e che i due imputati dovevano essere ritenuti responsabili del reato di cui all'art. 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997: il Maretti perché non poteva non sapere dei rifiuti fatti scaricare nel piazzale della società da lui amministrata, o comunque per culpa in eligendo e in vigilando; il Poggi perché non si era limitato a trasportare i rifiuti, ma aveva anche scelto il sito di destinazione, diventando così un "gestore polivalente" dei rifiuti stessi. Ovviamente il Poggi era anche responsabile, come trasportatore, del reato di cui all'art. 51, comma 1, del D.Lgs. 22/1997.

In particolare, il giudice di merito ha ritenuto che i materiali da demolizione non possono assimilarsi alle terre e le rocce da scavo, che l'art. 1 della legge 21.12.2001 n. 443 esclude dalla nozione di rifiuto. Inoltre, alla luce della norma interpretativa di cui all'art. 14 legge 8.8.2002 n. 178, da una parte il detentore ha l'obbligo di disfarsi del materiale da demolizione, e dall'altra nel caso concreto non era stata fornita la prova della effettiva e oggettiva riutilizzazione dello stesso materiale. Per queste ragioni, oltre che per la recente giurisprudenza comunitaria nella soggetta materia, doveva ritenersi indubitabile, la qualità di rifiuto.

 

2 - Entrambi gli imputati hanno presentato ricorso per cassazione col ministero dei rispettivi difensori.         

II Maretti lamenta anzitutto erronea applicazione della norma incriminatrice, giacché i materiali de quibus dovevano considerarsi come materia prima secondaria destinata al riutilizzo, e quindi non potevano qualificarsi come rifiuto. Infatti la destinazione al reimpiego era implicita nella natura stessa dei materiali e nella circostanza che essi erano depositati nel cantiere di una nota impresa locale che da anni si occupava di costruzione di strade, con formazione di sottofondi e tappeti bituminosi.

Con un secondo motivo il Maretti deduce inosservanza dell'art. 192 c.p.p. e contraddittorietà di motivazione, laddove la sentenza impugnata non ha adeguatamente valorizzato la circostanza, riferita da una dipendente della società Maretti Strade, che il Poggi aveva annunciato di voler trasportare solo terra e quindi materiale "buono".

 

3 - Il Poggi dal canto suo ha dedotto due motivi.

Col primo denuncia violazione dell'art. 546 lett. e) c.p.p. e carenza dì motivazione in ordine alla affermazione della sua penale responsabilità.

Col secondo lamenta erronea applicazione della norma incriminatrice, posto che - a suo avviso - il materiale trasportato dagli autocarri della società Agest non aveva natura di rifiuto.

In estrema sintesi, sostiene che il materiale de quo non aveva la natura oggettiva di rifiuto, essendo composto di terra, frammista a qualche mattone. In secondo luogo mancava anche il requisito soggettivo, in quanto lo stesso Poggi non era detentore in senso proprio, ma semplice trasportatore di materiali detenuti dal Comune di Voghera. Infine, era esclusa la natura di rifiuto ai sensi della norma interpretativa di cui al citato art. 14 della legge 8.8.2002 n. 178, che è vincolante per il giudice italiano così come statuito da Cass. Sez. III, 13.11.2002, Passerotti.

Comunque, l'imputato non era punibile ai sensi dell'art. 5 c.p. perché aveva incolpevolmente ignorato la natura illecita del materiale trasportato in seguito al comportamento positivo del Comune di Voghera, che gli aveva affidato l'incarico del trasporto.

 

4 - Il pubblico ministero in sede ha presentato memoria scritta ai sensi dell'art. 611, comma 1, ultimo periodo, c.p.p..

Con analisi molto articolata ed esaustiva, dopo aver prospettato il quadro normativo comunitario, comprensivo delle fonti primarie e delle fonti derivate, il sostituto procuratore generale esamina le principali sentenze della Corte di Giustizia e la decisione quadro 2003/80/GAI del Consiglio in data 27.1.2003, relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale, sottolineandone il carattere obbligatorio per il giudice nazionale. Osserva quindi che nel caso di specie si tratta non tanto di scegliere tra una interpretazione adeguatrice al diritto comunitario (ex Cass. Sez. III, n. 22063 del 20.5.2003, Mascheroni, rv. 224485) e una applicazione della norma nazionale come interpretata dal più volte menzionato art. 14 legge 8.8.2002 n. 178, quanto piuttosto di risolvere il conflitto tra l'interpretazione conforme al diritto comunitario, che prevale sulle norme nazionali incompatibili, e quella conforme al sistema costituzionale italiano, che considera prevalente il principio della legge penale più favorevole di cui all'art. 2 c.p., quale corollario della norma di cui all'art. 25, comma 2, Cost. (secondo la dottrina dei "controlimiti" alla limitazione della sovranità nazionale derivante dal diritto comunitario).

Solleva pertanto eccezione di illegittimità costituzionale degli artt. 6 e 51 D.Lgs. 5.2.1997 n. 22, come autenticamente interpretati dall'art. 14 legge 8.8.2002 n. 178, nella parte in cui introducono una definizione di rifiuto incompatibile con quella di cui al Regolamento CEE n. 259/93 e alla Direttiva 75/442/CEE, come interpretata dalla recente sentenza Niselli emessa in data 11.11.2004 dalla Corte di Giustizia, perché in violazione:

- del combinato disposto degli artt. 11 e 117 Cost., atteso il loro insanabile contrasto coi Trattati CE ed UE, con la giurisprudenza della Corte di Giustizia e con gli obblighi di conformità al diritto comunitario;

- dell'art. 3, primo comma, Cost., atteso che dal suaccennato conflitto nasce una disparità di trattamento tra soggetti in relazione alla applicazione della legge penale sui rifiuti.

Evidenzia la rilevanza della eccezione di incostituzionalità, dal momento che entrambi i ricorrenti, seppure con diversità di accenti, hanno invocato il predetto art. 14 per escludere la loro responsabilità penale.

In subordine, ove si ritenesse inammissibile o manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, conclude per il rigetto dei ricorsi, da una parte perché il giudice nazionale dovrebbe far propria l’interpretazione stabilita dalla citata sentenza Niselli, e dall'altra perché sarebbe preclusa l'invocazione della norma interpretativa di cui al citato art. 14, in quanto posteriore al fatto contestato, così come sarebbero infondati gli altri motivi di ricorso.

 

Motivi della decisione

5 - L'approfondita requisitoria scritta del pubblico ministero (sulla possibilità di presentare memorie scritte anche in udienza pubblica ex artt. 585/4 e 611/1 c.p.p., v. Cass. Sez. I, n. 853 del 27.1.1996, Copolaro, rv. 203500), assieme ad alcuni specifici motivi coltivati dai ricorrenti, costringe a fare il punto, sia pure in estrema sintesi, sullo status quaestionis in materia di rifiuti conseguente all'entrata in vigore dell'art. 14 del decreto legge 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, che ha offerto una interpretazione autentica della definizione di rifiuto contenuta nell'art. 6, comma 1, lett. a) D.Lgs. 5.2.1997 n. 22. Posto che l'art. 6, recependo la nozione del diritto comunitario, definisce come rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi", la norma interpretativa di cui al suddetto art. 14, nel primo comma, chiarisce il concetto di "disfarsi" precisando che esso coincide con quello di attività di "smaltimento o di recupero" indicate negli allegati B) e C) del D.Lgs. 22/1997.

Sin qui la norma sembra avere portata effettivamente interpretativa perché non modifica, ma chiarisce in modo logico e oggettivo, la opzione di "rifiuto" offerta dal menzionato art. 6, nonché dall'art. I della direttiva comunitaria n. 75/442/CEE, modificata dalla direttiva n. 91/156/CEE, di cui la disposizione nazionale costituisce in sostanza la letterale riproduzione.

Ma a ben vedere, come ha recentemente rilevato la Corte di Giustizia europea, una restrizione della previgente categoria di rifiuto è invece introdotta giacché, interpretando il concetto di "disfarsi" come coincidente con quello di smaltire o di recuperare, si esclude dalla categoria di rifiuto quella sostanza o quel materiale di cui il detentore si disfi mediante semplice "abbandono", posto che nella direttiva comunitaria e nel D.Lgs. 22/1997 l'abbandono è nettamente distinto dallo smaltimento.

In sostanza, contrariamente alla norma sedicente interpretativa, ci si può disfare di un rifiuto, non solo avviandolo allo smaltimento o al recupero, ma anche semplicemente abbandonandolo (per il diritto nazionale v. art. 14 D.Lgs. 22/1997, su cui Cass. sez. III, sent. n. 21024 del 5.4.2004, Eoli, rv. 229225-6; per il diritto comunitario v. art. 4, secondo comma, direttiva 75/442/CEE, su cui C. Giustizia, Sez. II, 11.11.2004, causa C-457/02, Niselli, par. 38,39 e 40).

 

6 - Ma - quel che più conta per la presente fattispecie - dove la norma dell'art. 14 assume una portata più incisivamente innovativa è nel secondo comma, il quale precisa che non ricorrono le fattispecie di "abbia deciso di disfarsi" e di "abbia l'obbligo di disfarsi" in relazione a sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo che "possono essere e sono effettivamente e oggettivamente utilizzati nel medesimo o in analogo ciclo produttivo o di consumo": a) "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente"; ovvero b) "dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C) del decreto legislativo n. 22".

Anche e soprattutto questa disposizione, secondo la generale opinione della giurisprudenza e della dottrina, ha carattere modificativo e non interpretativo. E infatti, secondo la definizione comunitaria letteralmente trasfusa nell'art. 6 D.Lgs. 22/1997, un residuo di produzione o di consumo di cui il detentore abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi costituisce rifiuto; ma, secondo la norma sedicente interpretativa, esso perde tale qualità se è o può essere oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o di consumo, e più esattamente se è riutilizzato senza trattamenti preventivi e senza pregiudizio all'ambiente ovvero con trattamenti preventivi che non comportino operazioni di recupero (per esempio di prelievo, cernita, separazione, compattamente, frantumazione, vagliatura, macinatura, che non comportano una trasformazione merceologica dei materiali).

Nonostante qualche autorevole opinione dottrinaria in senso contrario, ritiene il collegio che sia innegabile la restrizione della definizione comunitaria di rifiuto operata dalla norma.

Infatti, la volontà o l'obbligo di disfarsi del materiale costituisce quest'ultimo come rifiuto secondo il diritto comunitario, sicché il legislatore nazionale non può controqualificarlo come materia prima solo sulla base di una attuale o potenziale riutilizzazione.

Tale del resto è la convinzione della Commissione della Comunità europea, la quale ha avviato una procedura di infrazione ai sensi dell'art. 226 del Trattato contro lo Stato italiano, ritenendolo inadempiente al diritto comunitario per effetto della norma interpretativa de qua. E tale è soprattutto l'orientamento della Corte di Giustizia europea, che investita dal tribunale di Terni in via pregiudiziale della questione sulla compatibilità comunitaria del più volte menzionato art. 14, ha statuito che la nozione comunitaria di rifiuto, come definita dalla direttiva 75/442, modificata dalla direttiva 91/156, non deve essere interpretata nel senso che essa escluda l'insieme dei residui di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero (sentenza Niselli, cit.). E ciò perché la nozione di rifiuti deve essere interpretata in senso estensivo, in ossequio al principio comunitario di limitare i danni o gli inconvenienti derivanti dalla loro natura.

In termini affermativi, la Corte lussemburghese ha statuito che sono rifiuti proprio tutti quelli esclusi dal secondo comma dell'art. 14, cioè i residui di cui il detentore si è disfatto che siano riutilizzati tal quali senza trattamento preventivo (anche se non rechino pregiudizio all'ambiente) o con trattamento preventivo non recuperatorio.

In termini negativi, secondo la Corte, il diritto comunitario ammette di qualificare come non rifiuti soltanto i "sottoprodotti" dei processi di fabbricazione o di estrazione di cui il detentore non vuole disfarsi, "a condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione". Restano comunque rifiuti i residui di consumo, che non possono essere considerati sottoprodotti idonei a essere riutilizzati nel corso del processo produttivo (nn. 47 e 48 della sentenza Niselli, che cita la precedente sentenza 11.9.2003, causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome).

In conclusione - si ripete - il secondo comma dell'art. 14 sottrae alla qualifica di rifiuto i residui di produzione o di consumo che invece corrispondono alla definizione di rifiuto stabilita dall'art. 1, lett. a) della direttiva 75/442/CEE (nn. 50 e 51 della sentenza jNiselli).

 

7 - Resta ora da vedere quali conseguenze giuridiche discendono da questa innegabile incompatibilità tra l'art. 14 della legge 178/2002 e la direttiva comunitaria sui rifiuti 75/442 come modificata dalla successiva direttiva 91 /156.

Al riguardo, alcune pronunce di questa Corte hanno sostenuto la necessità della disapplicazione (rectius non applicazione) della norma nazionale in forza della prevalenza e immediata applicabilità del diritto comunitario (Sez. III, n. 2125 del 17.1.2003, Ferretti, rv. 223291; Sez. III, n. 14762 del 9.4.2002, Amadori, rv. 221573; Sez. III, n. 17656 del 15.4.2003, Gonzales e altro, rv. 224716).

Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che l'art. 14 è vincolante per il giudice italiano giacché la direttiva comunitaria sui rifiuti non è autoapplicativa (self-executing) in quanto necessita di atto di recepimento da parte dello Stato nazionale (Sez. III, n. 4052 del 29.1.2003, Passerotti, rv. 223532; Sez. III, n. 4051 del 29.1.2003,  Ronco, rv. 223604; Sez. III, 9057 del 26.2.2003, Costa, rv. 224172; Sez. III, n. 13114 del 24.3.2003, Mortellaro, rv. 224721; Sez. III, n. 32235 del 31.7.2003, Agogliati e altri, rv. 226,156; Sez. III, n. 38567 del 19.10.2003, De Fronzo, rv. 226574).

Le succitate sentenze Ferretti e Amadori, stilate peraltro dallo stesso relatore, riconoscono che la direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, non ha efficacia diretta nell'ordinamento nazionale, ma argomentano ugualmente la diretta applicabilità della nozione comunitaria di rifiuti, in base al fatto che essa è stata richiamata dal regolamento comunitario n. 259/1993, che ha indubbiamente carattere self-executing.

Ma tale singolare argomento, benché avallato da autorevole dottrina, non appare condivisibile.

Invero, il Reg. CEE del 1.2.1993 n. 259/93, "relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio", all'art 2 lett. a) stabilisce che "ai sensi del presente regolamento" si intendono per rifiuti "i rifiuti quali definiti nell’art. 1 lettera a) della direttiva 75/442/CEE".

Orbene, è sufficiente osservare come la norma del regolamento, che come tale è direttamente applicabile nell'ordinamento italiano, recepisca la nozione di rifiuto definita dalla direttiva 75/442/CEE soltanto ai fini della ristretta materia disciplinata dal regolamento, ovverosia limitatamente alle spedizioni di rifiuti, che a scopo di sorveglianza devono essere previamente notificate e munite di un documento di accompagnamento. Detta nozione quindi non è direttamente applicabile per tutte le altre materie diverse dalla spedizione dei rifiuti.

Anche la risalente sentenza della Corte di Giustizia, che in un caso ha utilizzato questo argomento, ha limitato la immediata applicabilità della nozione "regolamentare" alle spedizioni di rifiuti all'interno degli Stati membri (VI Sez. del 25.6.1997, Tombesi e altri, parr. 44. 45 e 46). Non si può quindi parlare a tale riguardo di una novazione della fonte del diritto comunitario (da direttiva a regolamento) in senso generale e illimitato.

Inoltre, come è stato opportunamente sottolineato in dottrina, l'argomento da una parte è stato accantonato dalla stessa Corte lussemburghese, che, chiamata a interpretare in via pregiudiziale la nozione comunitaria di rifiuto, ha sempre focalizzato il suo esame solo sulla direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156; dall'altra non è stato utilizzato neppure dalla Commissione UE nella menzionata procedura di infrazione aperta contro lo Stato italiano, quanto meno per informare il nostro Governo che il tentativo di restringere la nozione di rifiuto era del tutto velleitario, attesa la immediata applicabilità nell'ordinamento nazionale del Reg. 259/93/CEE.

 

8 - Un altro argomento variamente usato dai sostenitori dell'orientamento giurisprudenziale minoritario è che in ossequio al principio della prevalenza del diritto comunitario il giudice nazionale deve comunque dare applicazione alle sentenze della Corte di Giustizia europea, che hanno a più riprese offerto una interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto contrastante con quella risultante dall'art. 14 della legge 178/2002. In particolari devono dare attuazione alla citata sentenza Niselli, che espressamente ha statuito la incompatibilità comunitaria di quest'ultima norma.

Ma anche questo argomento, apparentemente convincente, non è accoglibile

A rigore, la pronuncia della Corte di Giustizia che precisa o integra il significato di una norma comunitaria  ha  la  stessa efficacia di quest'ultima,  sicché  la pronuncia è direttamente ed immediatamente efficace nell'ordinamento nazionale se e in quanto lo sia anche la norma interpretata.

In tal senso è l'insegnamento costante della Corte costituzionale. Basti ricordale la sentenza 11.7.1989 n. 389 in cui la Consulta, trattando del principio di applicazione diretta di norme comunitarie immediatamente efficaci, nel diritto interno, ha avuto modo di precisare che "quando questo principio viene riferito ad una norma comunitaria avente “effetti diretti” (...) non v'è dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate".

Nei casi in cui la Corte lussemburghese ha interpretato il significato di una norma comunitaria direttamente efficace in modo tale che una norma del diritto nazionale risulti incompatibile con essa, il giudice nazionale non deve più applicare la norma interna per la definizione dalla controversia al suo esame (senza poter sollevare questione di costituzionalità: v. Corte cost. n. 94/1995).

Nei casi invece in cui la Corte lussemburghese ha interpretato una norma comunitaria priva di efficacia diretta, il giudice italiano deve ancora applicare la norma interna confliggente con la prima sino a quando non sollevi l'eccezione di illegittimità costituzionale per violazione degli obblighi dello Stato italiano di conformarsi al diritto comunitario di cui agli artt. 11 e 117 Cost. (è implicitamente in tal senso anche la recente sentenza n. 85/2002 Corte cost.).

 

9 - Riassumendo sulla questione, si deve concludere che l'art. 14 della legge 178/2002, benché modificativo dell'art. 6 lett. a) del D.Lgs. 22/1997, è vincolante per il giudice, in quanto introdotto con atto avente pari efficacia legislativa della norma precedente.

Inoltre, benché abbia ristretto la nozione di rifiuto dettata dall'art. 1 della direttiva europea 75/442, come sostituito dalla direttiva 91/156, esso non può essere disapplicato dal giudice italiano, giacché dette direttive non sono self-executing, avendo necessità di essere (fedelmente) recepite dagli ordinamenti nazionali per diventare efficaci verso questi ultimi.

Il giudice nazionale, in caso di conflitto tra norma comunitaria e norma interna, in forza del principio di prevalenza del diritto comunitario, deve disapplicare (rectius non applicare) la norma interna, ma solo quando la norma comunitaria ha diretta efficacia nell'ordinamento nazionale, perché solo in tal caso la norma comunitaria si sostituisce automaticamente alla norma interna.

Quando invece - come nel caso di specie - la norma comunitaria non è direttamente efficace, perché è condizionata all'emanazione di un provvedimento formale da parte dello Stato membro, e questo Stato abbia emanato una norma configgente con quella comunitaria, il giudice italiano non ha altra strada che quella di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna configgente.

Tale norma infatti si pone in contrasto:

a) con l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea;

b) nonché, ancor più esplicitamente, con il novellato art. 117 Cost., che nel suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.

 

10 - In questo senso la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 legge 178/2002 sollevata dal procuratore generale in sede non è manifestamente infondata. Essa è però irrilevante nella fattispecie di cui trattasi, giacché il giudice di merito, con adeguata motivazione esente da vizi logici o giuridici, ha escluso la riutilizzazione certa e oggettiva dei materiali de quibus e quindi l'applicabilità dell'anzidetto art. 14. Invero, non v'è dubbio che i materiali provenienti da demolizioni erano stati smaltiti nel momento in cui gli autocarri della società Agest li avevano trasportati nel piazzale della s.r.l. Maretti Strade. Non si trattava di operazioni di deposito temporaneo ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. m) del D.Lgs. 22/1997, giacché i materiali non erano raggruppati nel luogo di produzione e superavano i limiti quantitativi previsti in tale norma. Si trattava invece o di stoccaggio (deposito preliminare) o di deposito definitivo, quindi di vero e proprio smaltimento: insomma ricorreva l'ipotesi in cui i produttori si erano già disfatti dei materiali, non l'ipotesi in cui i produttori intendevano riutilizzarli per la formazione di sottofondi stradali (per escludere una siffatta intenzione un indizio incontestabile è la quantità di materiali accumulata, che raggiungeva complessivamente circa 1800 metri cubi).

 

11 - Resta così accertata la natura di rifiuti dei materiali di cui trattasi.

Sono indubbiamente tali i materiali provenienti da demolizioni, cioè ricavati dal disfacimento di edifici o di strade.

Ma nella concreta fattispecie deve considerarsi rifiuto anche la terra da scavo, giacché non ricorrono i requisiti successivamente richiesti dai commi 17, 18 e 19 dell'art. 1 della legge 21.12.2001 n. 443 (nel testo più favorevole agli imputati, prima della modifica più restrittiva intervenuta con la legge comunitaria n. 306 del 31.10.2003) per escluderla dalla categoria dei rifiuti: cioè il requisito, implicito, della riutilizzazione in reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con destinazione approvata dall'autorità amministrativa competente; nonché il rispetto, verificato mediante accertamenti nel sito di destinazione, dei limiti legali di concentrazione di inquinanti nella composizione media della massa terrosa.

Da quest'ultima considerazione discende l’irrilevanza del secondo motivo di ricorso coltivato dal Maretti, col quale questi ha lamentato che il giudice non ha adeguatamente considerato la circostanza che il Poggi gli aveva preannunciato di trasportare e depositare nel piazzale della sua ditta solo terra da scavo. Anche la terra, infatti, per la mancanza dei requisiti suddetti, era rifiuto (non materiale "buono", come pretende il ricorrente); e quindi il Maretti doveva sapere che per il trasporto e lo smaltimento della medesima occorrevano apposite autorizzazioni.

12 - Anche la colpevolezza del Poggi è stata legittimamente e motivatamente affermata.

Egli aveva effettuato il trasporto e il deposito dei materiali, scegliendo il sito di destinazione, assumendo così il ruolo di "gestore polivalente" - come correttamente sottolineato dal giudice di merito: in quanto tale doveva munirsi delle prescritte autorizzazioni.

Né poteva invocare a sua discolpa una scusabile ignoranza della legge penale di cui all'art. 5 c.p. come modificato dalla   sentenza 364/1988 della Corte costituzionale. Essendo imprenditore nello specifico settore edilizio, egli aveva l'obbligo di conoscere la normativa vigente sui rifiuti provenienti da scavi e demolizioni, e non poteva certo pensare che l'incarico affidatogli dal comune di Voghera, di rimuovere il materiale giacente presso una ex caserma, lo esonerasse dagli obblighi che a lui incombevano in base a quella normativa.

 

13 -Va da ultimo notato d'ufficio che i reati sono stati commessi sino al 30.3.2000, ma che la prescrizione non è ancora maturata, giacché al periodo prescrizionale stabilito dagli artt. 157 e 160 c.p. va aggiunto il periodo in cui il processo è rimasto sospeso per impedimento dell'imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta, sempre che questa non sia dettata da esigenze istruttorie o di termine a difesa (Cass. Sez. Un. n. 1021 dell'11.1.2002, Cremonese, rv. 220509): nel caso dì specie, quindi, oltre al periodo legale di quattro anni e mezzo, va computata una sospensione processuale per complessivi sei mesi e giorni due, con la conseguenza che la prescrizione maturerà solo in data 1 .4.2005.

 

14 - In conclusione, entrambi i ricorsi vanno respinti. Consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Considerato il contenuto dell'impugnazione, non si ritiene di comminare anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende.