Cass. Sez. III n. 46080 del 11 ottobre 2018 (UP 20 giu 2018)
Pres. Ramacci Est. Zunica Ric. Milo
Beni Ambientali.Vincolo paesaggistico e requisiti di operatività

La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del D.M. impositivo di un vincolo paesaggistico per un’intera zona è condizione sufficiente per l’operatività del vincolo stesso, essendo necessaria la notifica del decreto ai proprietari solo rispetto al vincolo imposto sui singoli beni


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 1° marzo 2017, la Corte di appello di Lecce confermava la sentenza del 2 aprile 2012, con cui il Tribunale di Lecce aveva condannato Palma Milo, Vito Morciano ed Ernesto Abaterusso alle pene di giustizia, in quanto ritenuti colpevoli, la Milo, dei reati di cui agli art. 481 cod. pen. (capo a), 44 lett. C del d.P.R. 380/2001 e 181 del d. lgs. 42/2004, (capi c ed e, nel quale è contestato anche il reato di danneggiamento aggravato), Morciano del delitto di abuso di ufficio (capo c) e Abaterusso dei reati ex art. 44 lett. C del d.P.R. 380/2001, 181 del d. lgs. 42/2004 e 635 comma 2 n. 3 cod. pen. (capo e), reati commessi in Patù nel periodo compreso dal novembre 2007 al dicembre 2008.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello salentina, Palma Milo, Vito Morciano ed Ernesto Abaterusso, tramite i rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione.
2.1 Palma Milo ha sollevato due motivi.
Con il primo, la difesa deduce la violazione dell’art. 512 cod. proc. pen., censurando la decisione del Tribunale di acquisire e di utilizzare la relazione di consulenza tecnica dell’arch. Verardi, non costituendo la morte di quest’ultimo condizione sufficiente a tale fine, costituendo la relazione atto ripetibile, essendo rimasti immutati nel tempo i luoghi descritti, anche perché sottoposti a sequestro. In ogni caso, l’organo dell’accusa ben avrebbe potuto munirsi di un diverso supporto informatico da sottoporre al contraddittorio delle parti.
Con il secondo motivo, il ricorrente eccepisce la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza, evidenziando che sia il Tribunale che la Corte di appello avevano ignorato le prove addotte dalla difesa, ovvero le deposizioni dei testi Maurizio Novelli, Vito Brigante e del consulente ing. Dell’Abate, i quali avevano smentito l’assunto accusatorio, escludendo l’illegittimità delle opere apoditticamente affermata dai giudici di merito.
2.2 Ernesto Abaterusso ha sollevato due motivi.
Con il primo, sovrapponibile al primo motivo del ricorso della Milo, la difesa censura la violazione dell’art. 512 cod. proc. pen., rilevando che il Tribunale, all’udienza del 13 aprile 2011, aveva acquisito, utilizzandola ai fini della decisione, la relazione di consulenza tecnica dell’arch. Verardi, perchè deceduto, sebbene tale relazione costituisse atto ripetibile, essendo i luoghi ivi descritti rimasti immutati nel tempo, anche perché sottoposti a sequestro penale.
Con il secondo motivo, il ricorrente eccepisce la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., osservando che né la consulenza tecnica illegittimamente acquisita al fascicolo processuale, né altre fonti di prova indicavano che la zona in cui è stato realizzato l’intervento è stata dichiarata di notevole interesse pubblico, citando il Tribunale solo un D.M. del 16 settembre 1975, che non è noto se sia stato oggetto di discussione o se sia stato mai recepito dalla normativa regionale.
2.3 Vito Marciano ha sollevato tre motivi.
Con il primo, il ricorrente lamenta la mancanza, contraddittorietà e, in subordine, la manifesta illogicità della motivazione, osservando che la Corte territoriale non solo non aveva affrontato le doglianze difensive contenute nell’atto di appello sulla legittimità dell’intervento edilizio, ma aveva affermato l’inattendibilità delle prove addotte dalla difesa, senza spiegarne il motivo.
Con il secondo motivo, la difesa contesta la ritenuta configurabilità del delitto di abuso d’ufficio, rilevando che la sussistenza dell’elemento soggettivo, costituito dal dolo intenzionale, era stata affermata in maniera irragionevole dai giudici di merito, non essendosi in particolare considerato che, prima del provvedimento sottoscritto da Marciano, erano stati espressi ben cinque pareri favorevoli, per cui l’imputato legittimamente aveva confidato nella correttezza della pratica sottoposta alla sua attenzione, non essendo peraltro emerso alcun elemento da cui desumere che egli conoscesse la Milo e le altre persone che si occuparono della pratica edilizia e che volesse arrecare loro un vantaggio.
Con il terzo motivo, viene infine criticato il trattamento sanzionatorio, risultando l’asserita gravità ravvisata dalla Corte di appello in palese contrasto con la ridotta offensività del fatto, che aveva invece rimarcato il Tribunale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza.
1. Iniziando dal primo motivo dei ricorsi di Palma Milo e Ernesto Abaterusso, formulato in termini perfettamente sovrapponibili, occorre evidenziare che l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento della relazione tecnica a firma dell’arch. Verardi, consulente tecnico del P.M., risulta del tutto legittima, essendo la stessa avvenuta a seguito dell’intervenuto decesso del predetto consulente.
L’art. 512 cod. proc. pen., rubricato “lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione”, prevede infatti che, a richiesta di parte, sia data lettura degli assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori delle parti private e dal giudice nel corso dell’udienza preliminare, quando, per fatti e circostanze imprevedibili, ne sia divenuta impossibile la ripetizione.
E la sopravvenuta morte del dichiarante costituisce per definizione un evento tale da impedire la ripetizione del suo contributo conoscitivo, ovvero, nel caso del consulente tecnico, dell’attività compiuta nel corso del procedimento penale, per cui le doglianze difensive risultano manifestamente infondate, assumendo rilievo, ai fini dell’operatività del peculiare meccanismo acquisitivo delineato dall’art. 512 cod. proc. pen., non tanto la tipologia dell’accertamento tecnico compiuto, cioè se ripetibile o meno, ma la provenienza dello stesso da un soggetto la cui morte preclude la possibilità di rinnovare la specifica attività tecnica compiuta nell’ambito del procedimento penale, attività i cui esiti, anche dopo l’acquisizione dell’atto in cui sono cristallizzati e al di là dell’impossibilità di interloquire con l’autore dell’accertamento svolto, ovviamente non si sottraggono al confronto con prospettazioni diverse, nell’ambito della normale dialettica dibattimentale.
2. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo del ricorso di Abaterusso, avendo la sentenza impugnata correttamente escluso la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, non ravvisandosi alcuna eterogeneità tra il fatto contestato al capo E) e quello per cui è intervenuta la condanna, avendo la Corte territoriale attribuito solo una diversa definizione giuridica al fatto, qualificato cioè non più come delitto ex art. 181 comma 1 bis del d. lgs. 42/2004, ma come contravvenzione, ai sensi del comma 1 del medesimo articolo, per effetto della parziale declaratoria di illegittimità costituzionale operata dalla Consulta con la sentenza n. 56 del 23 marzo 2016.
Quanto poi alla prova che l’area interessata dai contestati lavori abusivi fosse stata dichiarata di notevole interesse pubblico, deve ritenersi pertinente ed esaustivo il richiamo del Tribunale al D.M. che ha operato tale dichiarazione, ovvero quello emesso il 16 settembre 1975 dal Ministero dei beni culturali, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 275 dell’8 ottobre 1975, risultando destituito di fondamento, stante la natura della fonte normativa richiamata, il dubbio difensivo su se il decreto sia stato discusso o se sia recepito dalla normativa regionale, dovendosi piuttosto osservare che, secondo l’orientamento di questa Corte, già richiamato dalla sentenza di primo grado, la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del D.M. impositivo di un vincolo paesaggistico per un’intera zona è condizione sufficiente per l’operatività del vincolo stesso, essendo necessaria la notifica del decreto ai proprietari solo rispetto al vincolo imposto sui singoli beni (cfr. Sez. 3, n. 40540 del 18/06/2014, Rv. 260651).
3. Venendo ora al secondo motivo del ricorso di Palma Milo, occorre rilevare che le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi reciprocamente per formare un corpus argomentativo unitario,  hanno fondato il giudizio di colpevolezza della ricorrente sulla disamina delle fonti dimostrative raccolte, in particolare sulla documentazione anche fotografica prodotta dal P.M., dalla deposizione del ten. De Matteis e dalla relazione tecnica dell’arch. Verardi, da cui è emerso che il manufatto realizzato nella proprietà della Milo nel territorio di Palù, in area dichiarata di notevole interesse pubblico, era del tutto diverso, per sagoma e volumetria, da quello preesistente.
Mentre infatti nella pratica edilizia curata dal geom. Mottola era previsto il risanamento di un fabbricato rurale con la conservazione dei muri perimetrali, in realtà nessun immobile, neppure del tipo “lamia”, insisteva su quel terreno, e i muri esistenti erano stati completamente demoliti e ricostruiti; inoltre un vecchio tratturo era stato modificato morfologicamente, venendo privato delle pietre per essere colmato con materiale vegetale e sabbia e ampliato nella sua larghezza, al fine di consentire il passaggio dei mezzi meccanici della ditta costruttrice.
Dunque, quella posta in essere era una “nuova costruzione”, realizzata in violazione degli strumenti urbanistici del Comune di Patù, all’esito peraltro di una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi nella pratica amministrativa.
Nel confrontarsi con le deduzioni difensive, sia il Tribunale che la Corte di appello hanno rimarcato l’inaffidabilità delle dichiarazioni dei testi della difesa, i quali si erano limitati a ricordare l’esistenza di un immobile, probabilmente un vecchio ricovero per animali, nel quale ogni tanto qualcuno si tratteneva a dormire, circostanza questa che, ove pure fosse veritiera, è stata naturalmente ritenuta inidonea a trasformare la natura e la destinazione urbanistica dell’immobile.
In ogni caso, almeno rispetto alla superficie coperta, l’opera realizzata, pari a 74 mq., era ben più estesa di quella assentita, pari a 43 mq., mentre alcun riferimento vi era all’altezza del manufatto asseritamente preesistente, aspetti questi che nemmeno il consulente della difesa ha potuto confutare.
La valutazione della sussistenza dei reati e della loro ascrivibilità alla Milo, proprietaria e committente delle opere, risulta dunque scaturita da una lettura attenta, razionale e non frammentaria delle risultanze probatorie, per cui l’affermazione della penale responsabilità della ricorrente resiste alle censure difensive, formulate invero in termini generici e spesso meramente assertivi, senza un adeguato confronto con le argomentazioni logiche dei giudici di merito.
4. Passando infine al ricorso proposto nell’interesse di Morciano, occorre iniziare dai primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente, inerendo entrambi il giudizio sulla sussistenza del delitto di abuso d’ufficio.
Al riguardo, le due conformi sentenze di merito hanno ricostruito i singoli passaggi dell’iter amministrativo che ha portato al rilascio, da parte di Morciano, Responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Patù, del permesso di costruire n. 14 del 6 marzo 2008 in favore della Milo, con il quale veniva assentito l’intervento richiesto, cioè il recupero di un vecchio fabbricato rurale, da destinare ad abitazione, mentre nell’area interessata non era mai preesistito alcun fabbricato rurale e doveva parlarsi non di manutenzione straordinaria, ma di una vera e propria “nuova costruzione”, non assentibile nel caso concreto.
Come correttamente osservato nella sentenza impugnata, stante la pochezza di informazioni presenti negli atti forniti dai richiedenti e anzi in presenza di una foto eloquente dell’immobile preesistente, di cui era stata omessa l’indicazione di qualsiasi dimensione, l’imputato avrebbe potuto e dovuto sciogliere le evidenti perplessità derivanti dal contenuto ambiguo degli atti a sua disposizione attivando i suoi poteri di controllo, anche mediante un eventuale sopralluogo.
Se è vero infatti che il sopralluogo del tecnico comunale nella prassi non costituisce un’evenienza frequente, è altrettanto innegabile che lo stesso si rende doveroso, in alternativa al rigetto allo stato dell’istanza, qualora la pratica amministrativa presenti incongruenze meritevoli di necessari approfondimenti.
E nel caso di specie, ribadito lo scarso valore probatorio delle già richiamate dichiarazioni dei testi della difesa, non c’è dubbio che l’intera procedura è risultata  scandita da profonde anomalie: l’assenza nell’istanza di riferimenti alla volumetria, la falsa rappresentazione di un immobile preesistente, l’omessa comunicazione dei tecnici e della ditta appaltatrice dei lavori, la mancata allegazione del Durc, la reiterazione della condotte, stante il rilascio del permesso in sanatoria, e la circostanza che, rispetto al tratturo, per il quale vi era solo una comunicazione di inizio lavori, erano state sequestrate delle bozze dei provvedimenti di sospensione dei predetti lavori prive di data certa e inviate sei mesi dopo la comunicazione e l’invito del Sindaco di eseguire un sopralluogo.
Tutte queste circostanze hanno ragionevolmente indotto i giudici di merito a ritenere ravvisabile una macroscopica violazione della normativa urbanistica, che ha consentito alla Milo di conseguire un titolo abilitativo cui non aveva diritto, a seguito di un’istruttoria palesemente lacunosa, nonostante la presenza di plurimi indizi di illegittimità della tipologia dell’intervento edilizio oggetto della richiesta.
A fronte di tali elementi, correttamente è stata ritenuta non necessaria ai fini della sussistenza del reato contestato la prova di un vero e proprio patto collusivo tra la Milo e Morciano, dovendosi richiamare al riguardo la costante affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Rv. 272331), secondo cui, in tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all’art. 323 cod. pen., prescinde dall’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell’intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto, profilo questo che nel caso di specie è stato adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le plurime “anomalie” della procedura amministrativa, da parte di un funzionario che, anche in considerazione della contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio alle carenze e alle contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non essendo di per sé dirimente in senso contrario il conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il provvedimento finale.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata, in quanto aderente alle risultanze probatorie acquisite e in linea con le coordinate interpretative prima richiamate, resiste ampiamente alle censure difensive, che si limitano a riproporre temi già trattati ed efficacemente superati dai giudici di appello con argomenti privi di elementi di illogicità e dunque non censurabili in questa sede.
4.1. Anche rispetto al trattamento sanzionatorio riservato a Morciano, deve infine escludersi che le sentenze di merito presentino vizi rilevabili in questa sede: il Tribunale infatti ha fissato la pena base in mesi 9 di reclusione, dunque in misura molto più vicina al minimo che al massimo edittale, applicando le riconosciute attenuanti generiche nella massima estensione, pervenendo così alla pena finale di mesi 6 di reclusione, obbiettivamente non eccessiva.
La Corte territoriale, pur ritenendo “generosa” la concessione delle circostanze attenuanti generiche, non ha tuttavia rivisto la pena inflitta, errando solo nel ritenere le attenuanti generiche applicate non nella misura più ampia possibile, come in effetti è avvenuto, stante la riduzione di un terzo della pena base.
Al di là di questo erroneo rilievo, che alcuna ripercussione negativa ha avuto per l’imputato, la determinazione della pena non presenta alcuna illegittimità, non avendo la difesa indicati quali parametri valutativi avrebbero dovuto in concreto orientare il trattamento sanzionatorio in senso ancor più favorevole all’imputato.
5. Stante la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate, i ricorsi devono essere dichiarati quindi inammissibili, con conseguente onere per ciascun ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 20/06/2018