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Sez. 3, Sentenza n. 38707 del 28/05/2004 Cc. (dep. 04/10/2004 ) Rv. 229599
Presidente: Savignano G. Estensore: Fiale A. Relatore: Fiale A. Imputato: Loprieno ed altri. P.M. Albano A. (Conf.)
(Rigetta, Trib. Bari, 6 Febbraio 2004)
BELLEZZE NATURALI (PROTEZIONE DELLE) - IN GENERE - Tutela preventiva da parte della P.A. - Autorizzazione - Silenzio assenso - Possibilità - Esclusione.
CON MOTIVAZIONE

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MASSIMA (Fonte CED Cassazione)
In tema di tutela del paesaggio, il provvedimento autorizzatorio previsto dalla legislazione di settore deve avere forma espressa, atteso che il silenzio dell'amministrazione proposta alla tutela del vincolo non può avere valore di assenso stante la necessità di valutare da parte della p.a. equilibri diversi e tenere conto del concorso di competenze statali e regionali. 

La prosecuzione dell'attività di coltivazione di cava in esercizio al momento di apposizione di un vincolo paesaggistico-ambientale è subordinata al rilascio di una autonoma autorizzazione paesaggistica, non essendo sufficiente la domanda di prosecuzione dell'attività cavatoria prevista da disposizioni regionali. (Fattispecie relativa all'attività di estrazione nella regione puglia, per la quale la legge Reg. n. 111 37/1985, come modificata dalla legge Reg. n. 13/1987 prevede la necessità di una domanda per la prosecuzione della escavazione).

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. SAVIGNANO Giuseppe - Presidente - del 28/05/2004
Dott. PICCIALLI Luigi - Consigliere - SENTENZA
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - N. 719
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. NOVARESE Francesco - Consigliere - N. 11714/2004
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1 - FIONDA FRANCESCO, n. ad Andria il 14/10/1951;
2 - DI LEO ANTONIO, n. ad Andria il 31/3/1941;
3 - LOPETUSO MICHELE, n. ad Andria il 12/05/1974;
4 - TUCCI NICOLA, n. a Andria il 1/12/1940;
5 - LOPRIENO DOMENICO, n. a Trani il 19/03/1933;
avverso l'ordinanza 6/2/2004 del Tribunale per il riesame di Bari;
Sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FIALE Aldo;
Udito il Pubblico Ministero nella persona del Dott. Albano A. che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Uditi i difensori: avv.ti Guido CECI e Antonio FLORIO, i qualihanno concluso chiedendo l'accoglimento dei ricorsi.
FATTO E DIRITTO
Il Tribunale di Bari, con ordinanza del 6.2.2004 - accogliendo l'appello presentato, ex art. 322 bis c.p.p., dal P.M. presso il Tribunale di Trani avverso il decreto di rigetto 21.10.2003 del G.I.P. di quel Tribunale - disponeva il sequestro preventivo di alcune aree adibite a cava, site nelle località "Iambrenghi" e "Macchia del Fico" dell'agro di Minervino Murge, gestite (tra gli altri) da Fionda Francesco, Di Leo Antonio, Lopetuso Michele, Tucci Nicola e Loprieno Domenico, in relazione ai reati di cui agli arti. 163 del D.Lgs. n. 490/1999 (già art. 1 sexies della legge n. 431/1985) e 734 cod. pen.
Rilevava il Tribunale che le aree in oggetto erano inserite in zone di protezione speciale ai sensi della normativa comunitaria, erano gravate da usi civici ed alcune di esse erano assoggettate pure a vincolo boschivo.
Le cave preesistevano all'entrata in vigore sia del D.L. 27.6.1985, n. 312, convertito con modificazioni nella legge n. 431/1985, sia della legge della Regione Puglia 22.5.1985, n, 37 (Norme per la disciplina dell'attività delle cave): per quelle gestite da Loprieno, Lopetuso e Fionda era stata rilasciata autorizzazione all'attività estrattiva successivamente all'entrata in vigore della legge regionale; per le altre risultavano presentate richieste di prosecuzione, non autorizzate.
Il Tribunale effettuava un'ampia ed analitica ricognizione della normativa applicabile e rilevava che:
-. Nella vigenza del D.P.R. n. 128/1959, per potere esercitare l'attività estrattiva di cava, era sufficiente una denuncia, rivolta dall'esercente al Distretto minerario ed al Comune territorialmente competenti, almeno otto giorni prima dell'inizio dei lavori. - La Regione Puglia (al pari di altre Regioni) aveva sostituito il regime della mera denuncia con un più pregnante regime autorizzatorio e, con legge 22.5.1985, n. 37, aveva altresì introdotto una disciplina transitoria, prevedendo (art. 35) che, per le cave già "legalmente in attività", la prosecuzione dei lavori di coltivazione era subordinata alla richiesta di autorizzazione, da presentarsi entro sei mesi alla data di entrata in vigore della stessa legge, e l'autorizzazione poteva essere denegata quando l'attività estrattiva fosse risultata "in contrasto con i vincoli urbanistici, paesaggistici, archeologici o derivanti da altre leggi". L'attività estrattiva doveva "comunque cessare soltanto qualora" l'autorizzazione non fosse stata richiesta entro il termine anzidetto.
- La legge 9.6.1987, n. 13 della Regione Puglia (art. 6) aveva prorogato al 31.12.1987 il termine di sei mesi già fissato dall'art. 35 della legge n. 37/1985.
- L'art. 1 della legge n. 30/1990 della Regione Puglia aveva stabilito che, fino all'approvazione del PUTT (piano urbanistico territoriale tematico), era vietata ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché ogni opera edilizia - tra gli altri - nei tenitori coperti da boschi o macchia mediterranea, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e in quelli sottoposti a vincoli di rimboschimento e nelle fasce contermini di cento metri. - L'area della "Alta Murgia" (in cui rientra il territorio comunale di Minervino Murge ove si trovano le cave in oggetto) era inserita nelle aree di reperimento, in vista dell'istituzione del relativo parco (art. 34, comma 3, della legge-quadro sulle aree naturali protette 6.12.1991, n. 394); è stata successivamente individuata (dall'art. 2, comma 5, della legge 9.12.1998, n. 426) come territorio su cui istituire il parco, secondo la procedura ed i tempi previsti nella stessa legge; è stata inserita, infine, nelle zone di protezione speciale (ZPS) di cui alla Direttiva 79/409/CEE ed all'elenco approvato con il D.M. 3.4.2000 del Ministero dell'ambiente.
Sempre la "Alta Murgia" era stata individuata, dall'art. 5 della legge 24.7.1997, n. 19 della Regione Puglia, quale area avente preminente interesse naturalistico, nonché ambientale e paesaggistico, da istituire con le procedure di cui ai successivi art. 5 e 6 della stessa legge.
- La Regione Puglia, con delibera del 15.12.2000, aveva approvato il PUTT ed in tale piano è stato previsto (art. 3.13.4) che, nelle aree protette, non sono autorizzagli progetti e interventi comportanti, tra l'altro, movimenti di terra che alterino in modo sostanziale e/o stabilmente la morfologia del sito (eccettuate opere strettamente connesse con la difesa idrogeologica) e la discarica di rifiuti;
venendo altresì stabilito che, negli ambiti territoriali di valore distinguibile "C" (in cui ricadono le cave site in località "Macchia del Fico" dell'agro di Minervino Murge) le nuove localizzazioni di attività estrattive vanno limitate ai materiali di inderogabile necessità e di difficile reperibilità.
Alla stregua delle disposizioni normative anzidette e della condizione giuridica dell'area "Alta Murgia" dianzi delineata, il Tribunale ravvisava l'esistenza del fumus degli ipotizzati reati di cui agli artt. 734 cod. pen. e 163 del D.Lgs. n. 490/1999, affermando che:
- In materia di esercizio di cave in zone sottoposte a vincolo generale ai sensi della "legge Galasso", il fatto che l'attività estrattiva fosse esercitata già in epoca anteriore all'entrata in vigore di tale normativa non è sufficiente ad escludere di per sè la sussistenza delle ipotesi illecite previste dall'art. 1 sexies della legge n. 431/1985 e dall'art. 734 cod. pen., sul presupposto della già compiuta modificazione dell'ambiente.
- Il regime previsto dalla legge n. 37/1985 della Regione Puglia, nelle zone soggette a vincolo paesaggistico, non consente di continuare a coltivare la cava sulla base della mera istanza di prosecuzione, essendo comunque richiesta l'autorizzazione ambientale. Avverso l'anzidetta ordinanza hanno proposto separati ricorsi gli indagati, i quali -sulla comune premessa di avere posto ritualmente in essere gli adempimenti prescritti dalle leggi regionali n. 37/1985 e n. 13/1997 - hanno prospettato:
- L'erronea applicazione all'area "Alta Murgia" del regime delle aree naturali protette; --l'inesistenza di usi civici e del vincolo boschivo;
- l'irrilevanza dei vincoli paesaggistici sopravvenuti allorquando era già in atto la coltivazione di cava;
- l'impossibilità di configurare la contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. in aree non sottoposte a speciale protezione paesistica;
- l'insussistenza del "periculum in mora", tenuto anche conto che l'esercizio delle cave non può subire ampliamenti in superficie, ma solo in profondità, e ciò non può aggravare il già compromesso assetto del territorio;
Il ricorrente Fionda ha altresì evidenziato che l'appello del P.M. non avrebbe riguardato una delle due cave ricondotte alla sua gestione (quella censita al foglio 154, pari 41), mentre, quanto alla cava censita al foglio 154, partt. 80 e 56, egli non aveva mai esercitato alcuna attività estrattiva e per essa, comunque, era stata richiesta ma non era stata rilasciata alcuna autorizzazione per la prosecuzione dell'esercizio.
Il difensore dello stesso indagato, in data 21.5.2004, ha depositato diffusa memoria finalizzata a dimostrare la esenzione e decadenza dei vincoli di uso civico.
I ricorsi devono essere rigettati, perché infondati. 1. Premesso che l'appello del P.M., al di là delle specifiche argomentazioni descrittive in esso svolte, aveva riguardato la complessiva posizione di Fionda Francesco, quanto alla denegata applicazione della misura di cautela reale, alla stregua delle richieste già formulate dall'accusa nei suoi confronti, deve anzitutto evidenziarsi che l'attività estrattiva ha un impatto rovinoso sul territorio, per le conseguenze devastanti sul paesaggio e sull'ambiente, tenuto anche conto della progressiva estensione dell'area interessata allo scavo, fino all'esaurimento del giacimento.
In corso di sfruttamento, dunque, non può parlarsi di una compromissione del territorio già compiutamente verificatasi, perché non vi è dubbio che l'ampliamento del fronte di cava e l'approfondimento dello scavo comportano un danno ulteriore e sempre maggiore per il paesaggio.
Ciò esclude, altresì, ogni pregio alle argomentazioni riferite, nei ricorsi, alla pretesa insussistenza del "periculum in mora" e razionale appare, in proposito, la considerazione del Tribunale secondo la quale anche l'attività attualmente sospesa può essere ripresa in qualsiasi momento.
2. Le Sezioni Unite di questa Corte Suprema - con la sentenza 27.3.1992, n. 6, Midolku (concernente una cava sita in territorio del comune di Udine) - hanno affermato che, nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico per le quali sia stata rilasciata, prima dell'entrata in vigore del D.L. 27.6.1985, n. 312, convertito con modificazioni nella legge n. 431/1985, l'autorizzazione ex art. 7 della legge n. 1497/1939, demandata alle Regioni dal D.P.R. n. 616/1977, la stessa deve essere richiesta nuovamente soltanto per la prosecuzione delle opere che non abbiano raggiunto un'appezzabile consistenza, tale da avere cagionato una irreversibile modificazione del territorio.
Ciò significa che, per le zone sottoposte "ex novo" a vincolo dal D.L. n. 312/1985, r autorizzazione deve essere richiesta, secondo la disciplina del 1985, in tutti i casi in cui manchi una precedente valutazione della P.A. ai fini della tutela paesaggistica (vedi Cass, Sez. 3^, 4.11.1995, n. 10929, P.G. in proc. Fiore).
Le stesse Sezioni Unite hanno rilevato, invero, che "il valore ambientale trova tutela prioritaria rispetto a qualsiasi interesse, pure di natura economica, ancorché previsto dalla Costituzione, come enunciato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 94 e 359 del 1985 e n. 151 del 1986" e che "la tutela dei valori estetico- culturali dell'ambiente non ha il contenuto di vincolo e di limitazione delle utilità relative ai beni compresi nelle zone protette, ma condiziona la composita disciplina giuridica di tutti gli aspetti e le utilità ad essi relativi".
Nella sentenza Midolini si legge testualmente: "ipotizzare che la legge n. 431 del 1985 abbia fatto divenire illegittime le autorizzazioni in precedenza rilasciate ai sensi dell'art. 7 legge n. 1497 del 1939 è erroneo, poiché si tratta piuttosto di stabilire se esse abbiano o meno conservato efficacia".
Sotto questo profilo, dunque, le Sezioni Unite hanno inteso esaminare la situazione delle "opere che, autorizzate, siano già state iniziate - anche se non ancora ultimate - alla data del 21 settembre 1985". E ciò significa che, allorquando esse discettano di opere in precedenza "autorizzate", si riferiscono ad opere già valutate in ordine alla loro incidenza sulle bellezze naturali. Solo così si spiegano le affermazioni che dette opere avrebbero "già determinato legittimamente una modificazione dell'ambiente" e che, allorquando l'arresto dei lavori potrebbe evitare un danno ambientale ulteriore, "l'apprezzamento in concreto della situazione non può che essere rimesso alla Pubblica Amministrazione, con i suoi poteri di revoca":
quali autorizzazioni, infatti, la P.A. potrebbe revocare qualora mai ne avesse rilasciato alcuna?
3. Le Sezioni Unite, poi, con la sentenza 31.10.2001, n. 30, De Marinis ed altro, hanno affermato la legittimità della continuazione delle cave già regolarmente esercitate, nel territorio della Regione Campania, prima dell'entrata in vigore della legge regionale n. 17/1995 - ancorché ubicate in zone non espressamente indicate dagli strumenti urbanistici o soggette a vincolo - purché il soggetto interessato abbia presentato la domanda di prosecuzione (secondo il regime transitorio previsto dall'art. 36 di quella legge) all'autorità regionale competente e finché la medesima autorità non abbia negato l'autorizzazione all'attività estrattiva, ritenuta contrastante con i vincoli urbanistici, paesaggistici, idrogeologici o archeologici derivanti da altre leggi, nazionali o regionali. L'art. 36 della legge regionale campana presenta evidenti analogie con l'art. 35 della legge n. 37/1985 della Regione pugliese (in Campania, però, una normativa specifica, per la coltivazione di cave in zone vincolate e su terreni in uso civico, è stata introdotta dalla legge regionale n. 17 del 1995).
Le Sezioni Unite, con la sentenza De Marinis, hanno evidenziato, con osservazioni che trascendono il caso esaminato, che:
- già gli artt. 8 e 11 della legge n. 1497/1939 prevedevano un potere di intervento inibitorio ed un regime autorizzatorio, da parte delle autorità tutorie, per ogni modifica del terreno capace di recare pregiudizio allo stato esteriore delle località protette dalla stessa legge;
- "la disciplina transitoria delle leggi regionali non facoltizza la coltivazione di cave lesive dei vincoli urbanistici o ambientali...ma più propriamente regolamenta le procedure per sottoporre a un vaglio aggiornato i titoli abilitativi preesistenti, permettendo una nuova ponderazione degli interessi coinvolti alla luce della normativa sopravvenuta";
- "in una materia come quella delle cave, attribuita alla competenza legislativa delle Regioni cosiddetta ripartita o concorrente, il legislatore regionale disciplina la coltivazione delle cave già in esercizio senza vanificare il precetto penale stabilito dalle leggi statali, che configurano come reato sia la coltivazione di cava contrastante con gli strumenti urbanistici vigenti (art. 20, lett. a, legge 47/1985) sia la coltivazione non autorizzata di cava in zona sottoposta a vincolo ambientale (art. 1 sexies legge 431/1985): più semplicemente, quel legislatore si limita a disciplinare la gestione amministrativa del vincolo urbanistico, ambientale etc. in seguito alla sopravvenienza del regime autorizzazione introdotto per le cave o alla sopravvenienza di un vincolo di zona".
4. Tenuto anche conto delle considerazioni anzidette, a giudizio di questo Collegio -in relazione alla normativa della Regione Puglia - non può affermarsi che, per le cave ubicate in zone sottoposte a vincoli paesistici, quando esse fossero già coltivate al momento dell'apposizione del vincolo, unico titolo di legittimazione alla prosecuzione dell'attività cavatoria debba considerarsi la domanda di prosecuzione (prevista dalla legge regionale pugliese n. 37/1985, come integrata dalla legge regionale n. 13/1987) e che non sia necessaria un'autonoma autorizzazione paesaggistica. In proposito devono essere svolte le seguenti considerazioni:
a) La Corte Costituzionale - con la sentenza n. 79/1993 - valutando la disciplina transitoria posta dall'art. 36 della legge della Regione Campania n. 54/1985 (prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 17/1995), ha rilevato che tale disposizione, in ogni caso, ha chiaramente stabilito il diniego dell'autorizzazione "quando l'attività estrattiva risulti in contrasto con i vincoli urbanistici, paesaggistici, idrogeologici ed archeologici derivanti da altre leggi nazionali o regionali".
Ha evidenziato, quindi, che l'attività di coltivazione delle cave in zone sottoposte a vincolo urbanistico, paesaggistico, idrogeologico e archeologico, è rigorosamente vietata e mai potrebbe formare oggetto di autorizzazione.
Ha escluso, pertanto, che la legge impugnata potesse interferire nella materia penale riservata al legislatore statale, "poiché il divieto dell'autorizzazione alla coltivazione di cava, anche con riferimento alle attività già in atto alla data di entrata in vigore della legge, non consente al cavatore di guadagnare alcuna minima immunità o beneficio di altra sorta". Nè l'inadempimento della Regione (che, richiesta dell'autorizzazione alla prosecuzione della coltivazione di cava in zona vincolata, non adotti il provvedimento negativo) può considerarsi idoneo a trasformare un'attività illecita (perché lesiva del divieto stabilito da una legge dello Stato) in un'attività lecita.
b) La stessa Corte Costituzionale - con la sentenza n. 355/1996 - si è occupata della legge 5.5, 1993, n. 27 della Regione Lazio, il cui art. 39, al secondo comma, prevede che la coltivazione di cave legittimamente in atto, per la quale sia stata presentata domanda di prosecuzione, prosegue a condizione che non sia adottato un provvedimento di rigetto della relativa domanda da parte dell'autorità regionale.
Lo sfruttamento della cava può proseguire anche nell'ipotesi in cui un vincolo ambientale sia stato imposto successivamente al legittimo inizio dell'attività, ma l'esercente è tenuto a presentare un progetto di coltivazione, corredato dallo studio di impatto ambientale, ai fini del successivo nulla osta regionale. Se la domanda non è presentata nel termine prescritto, ovvero se il nulla osta regionale non è rilasciato entro 180 giorni dalla richiesta di prosecuzione, i lavori di coltivazione della cava devono cessare (silenzio-diniego). Secondo la Corte Costituzionale, tale normativa "altro non fa se non organizzare il doveroso esercizio delle competenze della Regione nella materia interessata dal vincolo", in quanto: da una parte, la legge regionale non fa venire meno i concorrenti poteri di salvaguardia e di tutela del paesaggio, che spettano comunque alla Regione, e, dall'altra, essendo il procedimento ordinato secondo scansioni temporali rigorose, lo spirare del termine stabilito per il suo compimento comporta il formarsi di un provvedimento di diniego e, nell'ipotesi del protrarsi dell'attività di cavazione, la sicura configurabilità del reato previsto dall'art. 1 sexies del D.L. n. 312 del 1985, aggiunto dalla legge di conversione n. 431 del 1985.
c) In ordine alle procedure ed attribuzioni delle Regioni e dello Stato, relative ad opere in zona sottoposta a vincolo paesistico- ambientale, non esiste possibilità che lo Stato venga del tutto estromesso.
Anche alla stregua delle disposizioni recentemente introdotte dal D.Lgs. 22.1.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali e affidata ad un sistema di intervento pubblico basato su un concorso di competenze statali e regionali, in una attuazione legislativa di equilibri diversi, con l'osservanza in ogni caso del principio di una equilibrata concorrenza e cooperazione tra le due competenze in relazione ai momenti fondamentali della disciplina stabilita a protezione del paesaggio (si vedano, in proposito, le sentenze della Corte Costituzionale n. 157 del 1998 e n. 302 del 1988). d) In materia di tutela del paesaggio vige il principio fondamentale, ricavabile da una serie di disposizioni, da interpretarsi unitariamente nel sistema, secondo cui il silenzio
dell'amministrazione preposta al vincolo ambientale non può avere valore di assenso (vedi le sentenze della Corte Costituzionale n. 404 del 1997, n. 26 del 1996 e a 302 del 1988).
e) Le argomentazioni svolte dalle Sezioni Unite, nella sentenza De Marinis, devono essere "verificate" alla stregua detta legge costituzionale n. 3/2001, di riforma del Titolo 5^ della Costituzione, e del nuovo testo dell'art. 117 della Costituzione, che definisce di competenza legislativa statale esclusiva la "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema" mentre attribuisce alla legislazione ripartita la "valorizzazione dei beni ambientali e culturali" e non contiene più alcun riferimento espresso alla materia "cave e torbiere" (vedi, al riguardo, le argomentazioni svolte dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 407 e 536 del 2002 e m. 222, 226 e 227 del 2003).
f) Alla stregua della nuova formulazione dell'art. 117 Cost. deve essere altresì affrontato il problema dell'inquadramento della "attività di gestione" dei beni ambientali nell'ambito di uno dei concetti di "tutela" e di "valorizzazione" menzionati nel testo costituzionale (tenuto conto che, ai sensi dell'art. 148 del D.Lgs. n. 112/1998, per gestione si intende "ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni, concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione")
Deve concludersi, allora, che il regime previsto dalle leggi n. 37/1985 e n. 13/1987 della Regione Puglia non consente, nelle zone assoggettate a vincolo paesaggistico dal D.L. n. 312/1985, di continuare a coltivare le cave già in esercizio sulla base della mera istanza di prosecuzione, essendo comunque richiesta l'autorizzazione ambientale.
La necessità di tale autorizzazione non è esclusa dalla previsione dell'art. 35, 3 comma, di quella legge regionale, che va interpretata nel senso della necessità del diniego anche dell'autorizzazione estrattiva allorquando non sia concedibile quella paesaggistica, comunque autonoma.
Un regime di silenzio-assenso (e non di silenzio-diniego, come previsto dalla Regione Lazio), escludente ogni intervento dello Stato, non è concepibile in materia di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, sicché alla norma regionale non può essere data un'interpretazione che ne comporterebbe l'incostituzionalità. 5. L'art. 4 della legge-quadro n. 394/1991 prevedeva e disciplinava il "programma triennale per le aree naturali protette" (poi soppresso dall'art. 76 del D.Lgs. 31.3.1998, n. 112) e, l'art. 34, punto 6, lett. 1), della stessa legge disponeva che "il primo programma considera" la zona "Alta Murgia" come prioritaria area di reperimento a livello nazionale (si ricordi, in proposito, che, a norma dell'art. 6, 2 comma, di quella legge, la pubblicazione del programma rendeva direttamente operative le misure di salvaguardia di cui al successivo 3 comma).
Zona di protezione speciale (ZPS) - ai sensi dell'art. 2 della deliberazione 2.12.1996 del Ministero dell'ambiente - è "un territorio idoneo per estensione e/o per localizzazione geografica alla conservazione delle specie di uccelli è i cui all'allegato 1 della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, tenuto conto della necessità di protezione di queste ultime nella zona geografica marittima e terrestre a cui si applica la direttiva stessa".
Con la medesima deliberazione le ZPS sono state inserite nella classificazione delle aree protette di cui all'art. 2 della legge- quadro 6.12.1991, n. 394.
La direttiva 79/409/CEE è stata recepita in Italia con la legge 11.2.1992, n. 157 e l'art. 1, comma 5, di tale legge prevede che le ZPS sono istituite dalle Regioni e dalle Province autonome lungo le rotte di migrazione dell'avifauna e "sono finalizzate al mantenimento ed alla sistemazione, conforme alle esigenze ecologiche, degli habitat interni a tali zone e ad esse limitrofi". Detta istituzione doveva essere effettuata entro 4 mesi dall'entrata in vigore della stessa legge e in caso di inerzia delle Regioni, protrattasi per un anno, vi avrebbe provveduto, con controllo sostitutivo, il Ministro dell'ambiente d'intesa con il Ministro delle politiche agricole. Le ZPS sono successivamente confluite nell'unica rete ecologica europea istituita con la direttiva 92/43/CEE, recepita in Italia con il D.P.R. 8.9.1997, n. 357.
Il Ministero dell'ambiente, con provvedimento del 24.12.1998, (in seguito a procedura di infrazione instaurata dalla Commissione della Comunità Europea) ha dichiarato il sito "Alta Murgia" (come da cartografia trasmessa in allegato) zona di protezione speciale (ZPS), ai sensi della direttiva 79/409/CEE.
Il D.M. 3.4.2000 dello stesso Ministero dell'ambiente (Elenco dei siti di importanza comunitaria e delle zone di protezione speciali, individuati ai sensi delle direttive 92/43/CEE e 79/409/CEE), nell'Allegato A, ha ricompreso - di conseguenza - la "Murgia Alta" tra le zone di protezione speciale designate ai sensi della direttiva 79/409/CEE.
Correttamente, pertanto, alla stregua dei provvedimenti anzidetti, il Tribunale di Bari (pure a fronte di una mera individuazione operata dalla legge regionale pugliese n.
19/1997) ha ritenuto che le cave di cui si discute siano assoggettate a vincolo paesaggistico, in quanto situate in area naturale protetta (nello stesso senso si è già pronunciata questa 3^ Sezione con la sentenza 7.10.2003, ric. Natale).
6, Nei procedimenti incidentali aventi ad oggetto provvedimenti di sequestro;
- la verifica delle condizioni di legittimità della misura da parte del Tribunale non può tradursi in una anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità degli indagati in ordine al reato o ai reati oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata, mediante una vantazione prioritaria ed attenta della antigiuridicità penale del fatto (Cass., Sez. Unite, 7.11.1992, ric. Midolini);
- l'accertamento della sussistenza del "fumus commissi delicti" va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l'ipotesi formulata in quella tipica. D Tribunale, dunque, non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere l'indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l'integralità dei presupposti che legittimano il sequestro" (Cass., Sez. Un., 29.1.1997, n. 23, ric. P.M. in proc. Bassi e altri).
Alla stregua dei principi anzidetti va valutata la legittimità dell'ordinanza impugnata e deve rilevarsi che il Tribunale di Bari - quanto all'accertamento dell'esistenza degli usi civici - ha razionalmente dedotto la stessa dalla consulenza disposta dal P.M., le cui conclusioni non possono considerarsi smentite, "prima forte", dalle contrarie prospettazioni difensive.
L'ulteriore approfondimento e la compiuta verifica (anche in ordine all'esistenza dell'ulteriore viacolo boschivo per alcune delle aree in esame ed alle previsioni preclusive o limitative dell'attività estrattiva già in corso poste dal F.U.T.T. con riferimento a specifici ambiti territoriali) spettano ai giudici del merito ma, allo stato, a fronte dei prospettati elementi, della cui sufficienza in sede cautelare non può dubitarsi, le argomentazioni svolte dai ricorrenti non valgono certo ad escludere la legittimità della misura adottata.
7. I ricorsi, per tutte le argomentazioni dianzi svolte, devono essere rigettati, con la condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 607, 127 e 325 c.p.p., rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 maggio 2004. Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2004