Dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale IN ANTEPRIMA IL DECRETO SUI NUOVI CODICI CER

 

 

PREMESSA

Una nuova normativa ispirata al "Superfund" americano, per far pagare alle aziende inquinanti gli interi costi di bonifica delle aree contaminate da produzioni nocive o da rifiuti tossici; la definizione di una lista di priorità che scadenzi gli interventi di risanamento delle aree a rischio e crei le premesse per l'immediata chiusura degli impianti per i quali è ormai accertata la pericolosità sanitaria, la  delocalizzazione o la riconversione di quelli che hanno comunque un elevato grado di inquinamento e impatto ambientale. La creazione di nuove figure professionali, che offra anche una opportunità di riqualificazione per gli addetti del settore impiegandoli nei lavori di messa in sicurezza e di recupero delle aree recuperate per la messa in sicurezza e il risanamento delle aree contaminate.

Partendo dall'allarmante analisi che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha realizzato su 15 aree ad elevato rischio di crisi ambientale, Legambiente ha presentato un ventaglio di proposte per "passare dalla chimica dei veleni al risanamento ambientale" e alla sicurezza sanitaria per le popolazioni che vivono a ridosso di aree industriali o depositi di sostanze a rischio e tutelare i lavoratori impiegati in produzioni che utilizzano sostanze pericolose. Sia i dati dell'OMS che la predisposizione di questo pacchetto di interventi richiesto dall'associazione ambientalista si inseriscono tra l'altro, in una gigantesca partita giudiziaria che ha messo alla sbarra tutta la vecchia chimica. Sotto accusa la pericolosità sanitaria di un tipo di produzione che, ormai non ci sono dubbi, ha ucciso, causato malattie, avvelenato l'ambiente, compromesso gli equilibri territoriali.

Già lo studio Ambiente e salute in Italia del 1995, coordinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle aree ad elevato rischio di crisi ambientale, rilevava un generale aumento della mortalità e del rischio di insorgenza di alcune specifiche patologie tumorali e ne attribuiva la causa alle condizioni ambientali e lavorative. Gli ultimi studi dell'OMS, solo considerando 15 aree a rischio di crisi ambientale, denunciano addirittura 800 morti in eccesso ogni anno con un trend che purtroppo, a dispetto del ridimensionamento dell'industria pesante,  non accenna a diminuire. Decessi dovuti al contatto con sostanze inquinanti cui sono sottoposti i lavoratori  e alle emissioni inquinanti causate dai processi produttivi che colpiscono anche i cittadini residenti in quelle aree.

Come dunque uscire dalla stagione dei veleni che ha lasciato in eredità aree minerarie, centri siderurgici, complessi chimici e petrolchimici con un carico ad elevatissimo rischio di contaminazione? Legambiente mette in campo le sue proposte che prendono in parte spunto proprio da una delle nazioni che fanno del libero mercato la caratteristica principe della loro economia, dove però, a differenza dell'Italia, l'onere della riqualificazione ambientale e del recupero dei siti contaminati è totale carico dei privati.

Proprio partendo dall'esempio statunitense Legambiente propone infatti un adattamento italiano del Superfund, ossia dell'insieme di norme che fissano le responsabilità dell'imprese in caso di contaminazione ambientale, definiscono le procedure per la valutazione del rischio, individuano una lista di priorità nazionali degli interventi di bonifica.

In particolare, il Superfund ha tre livelli di intervento che riveduti e corretti potrebbero trovare applicazione anche in Italia. Il primo, un fund trust, ossia un fondo di sicurezza finanziato dalla tassazione principalmente di prodotti chimici e petroliferi ma anche di altre sostanze inquinanti, vincolato alla bonifica dei cosiddetti siti orfani (per i quali non è più possibile riconoscere un proprietario responsabile). In secondo luogo, un'attività capillare di analisi sui siti inquinati che consenta di stabilire la loro pericolosità e l'urgenza della bonifica con la definizione appunto di una lista nazionale di priorità. In terzo luogo, l'obbligo inderogabile per le aziende che gestiscono impianti ancora in attività, una volta accertata l'eventuale pericolosità della produzione o delle scorie prodotte sia per l'ambiente che per la salute della popolazione, di disporre immediati interventi di bonifica.

Una traduzione italiana di questo modello è possibile, a detta di Legambiente, se la nostra normativa acquisisse proprio alcuni principi ispiratori del superfund che hanno reso possibili in 15 anni la bonifica completa (nel 50% dei casi) o parziale delle emergenze più gravi su tutto il territorio nazionale. Un esempio virtuoso, soprattutto se raffrontato alla realtà italiana dove colossi inquinanti hanno fatto, e purtroppo continuano a fare, danni in attesa di interventi di messa in sicurezza di cui si parla da anni ma che da anni tardano ad arrivare.

Prendendo ad esempio la necessità di un fondo di sicurezza pagato dai settori produttivi inquinanti, vincolando a questo fine una parte della tassazione che già grava su queste aziende, si potrebbero avviare anche da noi gli interventi su quella percentuale di siti italiani (discariche abusive, terreni contaminati, depositi di rifiuti tossici e nocivi) per i quali non è possibile riconoscere la responsabilità del danno. Nello stesso tempo, lo stesso fondo potrebbe contribuire ad un capillare accertamento e ad un censimento completo di tutte le aree a rischio. Una base fondamentale anche per la definizione di una lista di priorità e per stabilire temporalmente l'inizio e la fine degli interventi. Infine, ma sicuramente prioritaria, è anche l'idea che ha trovato spazio negli Usa ma che tarda a trovare applicazione da noi, che debbano essere i privati responsabili dell'inquinamento e non già questi con il concorso dello stato a pagare i danni provocati al territorio, all'ambiente, alle popolazioni.

Negli Stati Uniti, responsabile della gestione del Superfund, è l'Epa, l'agenzia per la protezione dell'ambiente, che si occupa di identificare e selezionare i siti da bonificare, e che nel 1985 ha segnalato 1500 siti. Siti che in 15 anni hanno visto conclusa l'opera di bonifica ben nel 50% dei casi (750 zone), mentre altri 600 (il 40%) sono prossimi al completamento delle operazioni di risanamento. Nello stesso periodo, sono stati pagati dalle aziende inquinanti per la bonifica di aree contaminate su cui insistono impianti ancora in attività, ben 32mila miliardi, mentre le attente indagini condotte hanno portato all'identificazione di 41mila siti a rischio.

Ovvio che, pur con le dovute proporzioni tra il caso Italia e quello statunitense, il ritardo  e l'inadeguatezza normativa del nostro paese appare evidente.

Gli stanziamenti previsti dall'ultima legge finanziaria prevedono infatti fondi insufficienti ma comunque onerosi per le casse dello Stato (550 miliardi nel 2001, 150 nel 2002 e 200 nel 2003), poiché la responsabilità del danno dovrebbe ricadere sulle aziende.

L'attuazione del principio del "chi inquina paga", secondo Legambiente, dovrebbe insomma diventare, anche in Italia, uno dei vincoli cui far riferimento per avviare finalmente il piano delle bonifiche che dovrebbe interessare ben 15mila siti inquinati in Italia con l'impiego stabile di 5mila nuovi supertecnici. E' questa infatti, la stima approssimativa realizzata da Legambiente (manca peraltro sul tema un quadro di riferimento "istituzionale" preciso) tra aree identificate dal piano nazionale di bonifica redatto alla fine del 2001 (40 siti), i circa 6.000 serbatoi di carburante sparsi per il paese, i 4.500 siti identificati nelle regioni del Nord e in Toscana (tra discariche autorizzate, siti industriali e sversamenti) a diversa priorità di intervento, le circa 2.500 discariche abusive della criminalità organizzata nel Centro-Sud (il cui rischio reale è sconosciuto); le 1.000 o 2.000 zone potenzialmente inquinate dagli insediamenti industriali e artigianali del centro-sud; le tante discariche utilizzate o autorizzate prima della metà degli anni ’80 (ossia prima dell'approvazione del DPR 915/82, prima legge sui rifiuti in Italia) che in alcuni piani regionali sono già inserite e in generale presentano problemi di un certo rilievo per la bonifica. Pur se ogni paese classifica i siti contaminati in maniera diversa, o censendo (ed è il caso della Germania) anche un solo bidone di rifiuti nocivi come area a rischio o, ed è il caso di altri paesi, prendendo in considerazione solo le emergenze più gravi, c'è un numero che può dare l'idea della gravità del problema anche a livello europeo: secondo il programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, sono 150mila in Europa i siti sospetti di inquinamento e oltre 100 milioni gli ettari definiti contaminati (pari a un miliardo di metri cubi di terreni e rifiuti). Tornando in Italia invece, va anche sottolineato come nel 1995 la spesa calcolata per le bonifiche fosse pari a  30mila miliardi e dovesse interessare almeno 330mila ettari ossia un'estensione pari alle intere provincie di Milano e Napoli messe insieme. Del resto, se il piano delle bonifiche riuscisse finalmente a partire, la ricaduta su occupazione e professionalità tecniche sarebbe estremamente positiva: in un settore peraltro afflitto da una costante emorragia di posti di lavoro (meno 70mila operai impiegati in 20 anni), vecchie e nuove competenze sarebbero infatti richieste da tutte le attività di bonifica e ripristino con un'offerta di lavoro specializzato pari a oltre 5.000 posti, senza considerare l'indotto e le attività di contorno che potrebbero garantire altre migliaia di occupati.

Ma chi dovrebbe pagare veramente in Italia? Soprattutto per quanto riguarda EniChem, per la quale si parla negli ultimi mesi della vendita di parte dei suoi impianti alla multinazionale araba Sabic, non si ha certezza sulla dismissione degli impianti obsoleti e della bonifica dei siti contaminati.

D'altronde a rendere sempre più urgente un intervento di riqualificazione ambientale delle aree più a rischio sono, di nuovo, i dati sanitari. Come detto, l’allarme per le conseguenze derivanti da alcune produzioni chimiche, siderurgiche, minerarie e petrolifere è al centro dello studio condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – Centro Europeo Ambiente e Salute - su richiesta del Ministero dell’Ambiente. L’indagine è stata commissionata per le 15 aree classificate come “ad alto rischio di crisi ambientale” con Decreto Ministeriale dell’8.7.1986 n. 349 a causa della presenza di una o più potenziali fonti di inquinamento ambientale legate alla presenza di importanti attività industriali. Va precisato comunque che durante questi ultimi anni sono aumentati i siti industriali per cui è stato evidenziato un rischio ambientale e sanitario.

L’OMS da anni effettua in Italia studi approfonditi, condotti attraverso l’elaborazione di dati di mortalità disaggregati a livello comunale per un territorio vasto, che costituiscono un importante contributo informativo a sostegno dell’intervento del Ministero dell’Ambiente.

Anche il dossier di Legambiente, come quello dell'Oms analizza il dettaglio delle singole aree contaminate e, dunque sarà possibile avere un quadro completo ed aggiornato delle singole situazioni che lungo l'intera penisola minacciano l'ambiente e  la popolazione.

 

 


 

LE BONIFICHE TRA STATI UNITI E ITALIA

 

Poli chimici, industrie a rischio, discariche abusive o autorizzate in tempi ormai remoti, aree industriali dismesse: sono numerosissime le realtà dell'Italia da bonificare. 

Oltre alle problematiche legate al rischio industriale e sanitario nelle aziende tuttora funzionanti infatti, grave e tuttora irrisolto appare anche il rischio relativo agli impianti dismessi  e a quelli  in  via dismissione inseriti in  progetti di bonifica. Progetti che si stanno rivelando critici per  le grandi quantità di materiali da trattare, la complessità delle contaminazioni (molto spesso non ben conosciute) che oltre ai terreni hanno interessato le falde acquifere,  per il mancato utilizzo  di tecnologie di trattamento ampiamente impiegate all'estero.

Già lo studio Ambiente e salute in Italia, del 1995, coordinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle aree ad elevato rischio di crisi ambientale, rilevava un generale aumento della mortalità e del rischio di insorgenza di alcune specifiche patologie tumorali e ne attribuiva la causa alle condizioni ambientali e lavorative.

Gli interventi della magistratura (alcuni ancora in corso) hanno poi confermato gli studi che nel corso degli anni sono stati condotti per ricercare una correlazione tra ambiente di lavoro e problemi sanitari, tra insorgenza di particolari tipi di tumore e l’aver maneggiato certe sostanze, o addirittura solo per aver vissuto in prossimità dei camini delle aree industriali.

Quel che è certo è che in Italia il sistema delle bonifiche è assolutamente bloccato. Dal 1998, anno in cui la legge 426 ha definito i primi 15 siti di interesse nazionale da bonificare (tra cui Porto Marghera, Brindisi, il litorale domitio-flegreo con le discariche dell’ecomafia campana, etc.), ben poco si è mosso, a parte qualche intervento a Cengio. L’unica grande novità consiste  nell’approvazione del decreto ministeriale 471/99 atteso da tempo. Alla fine del 2001 è stato poi varato il piano nazionale di bonifica che porta a 40 il numero dei siti di interesse nazionale, stanziando per essi circa 1000 miliardi di lire. Peccato che il numero delle aree inquinate del Belpaese sia ben più nutrito. Una stima di massima sul numero dei siti inquinati in Italia prevede infatti: i 40 siti già previsti nel piano nazionale delle bonifiche; tra i 5.000 e i 7.000 serbatoi di carburanti; circa 4.500 siti nelle regioni del Nord e in Toscana (tra discariche autorizzate, siti industriali e sversamenti) a diversa priorità di intervento; circa 2.500 discariche abusive nel Centro-Sud (il cui rischio reale è molto variabile); circa 1.000 - 2.000 siti potenzialmente inquinati dagli insediamenti industriali e artigianali del centro-sud; le tante discariche utilizzate o autorizzate prima della metà degli anni ’80 (prima dell'approvazione del DPR 915/82, prima legge sui rifiuti in Italia) che in alcuni piani regionali sono già inserite e in generale presentano problemi di un certo rilievo per la bonifica.

In totale si può azzardare una stima di almeno 15.000 siti da bonificare. Da qui la nota dolente dei costi per le bonifiche. I 1.000 miliardi di lire stanziati dal Ministero dell’ambiente per i siti previsti dal Piano nazionale di bonifica sono ovviamente insufficienti. La sola caratterizzazione (analisi ambientale complessiva) del fiume Bormida inquinato dall’ACNA di Cengio per esempio, è costata al Commissario delegato 4 miliardi di lire. E’ ovvio sottolineare che tutti i siti di interesse nazionale hanno bisogno di questa caratterizzazione, prevedendo per le situazioni gravi come quella di Porto Marghera  costi ancora più elevati.

Ai 1.000 miliardi di lire per i siti nazionali vanno sommati comunque i soldi messi a disposizione dalle Regioni per interventi su siti inquinati pubblici o senza più “padrone”. Per cui, si può ipotizzare che il totale dei finanziamenti tra enti locali, Regioni, Province, Comuni e ARPA, arriverà ai 10mila miliardi per i prossimi 2/3 anni, per un totale di finanziamento pubblico pari a 11mila miliardi di lire.

Per quanto riguarda invece il finanziamento privato, obbligatorio in caso di contaminazione in base al principio del "chi inquina paga", il costo degli interventi limitato ai 40 siti nazionali, dovrebbe aggirarsi intorno ad una cifra pari a circa 5-6 volte il finanziamento pubblico, e quindi a oltre 5 -6.000 miliardi di lire. Le spese dei privati per i siti di loro competenza che invece non rientrano nei 40 nazionali, possono essere stimate in una cifra tra i 5.000 e i 10.000 Miliardi di lire, per un totale di investimenti privati pari a circa 15.000 miliardi di lire.

Complessivamente, nei prossimi tre anni per gli oltre 15.000 siti inquinati stimati del nostro Paese, verrebbero stanziati quindi circa 11.000 miliardi di lire di finanziamento pubblico, a cui si dovrebbero aggiungere circa 15.000 miliardi di lire dagli industriali responsabili della contaminazione, per un totale di spesa di oltre 25.000 miliardi di lire. Cifra che difficilmente verrà raggiunta.

Del resto, se il progetto delle bonifiche riuscisse finalmente a partire, la ricaduta su occupazione e professionalità tecniche sarebbe estremamente positiva: si innescherebbe un meccanismo virtuoso nelle attività di bonifica e ripristino (dalla consulenza alla progettazione dell’intervento), nella costruzione di impianti di trattamento, nell’attività di controllo di competenza del pubblico (verifiche sul campo, valutazione di istruttorie e attività di laboratorio), nelle attività dei laboratori privati, che potrebbe muovere un mercato di oltre 5.000 posti di lavoro, tra tecnici e laureati.

Purtroppo, nonostante il numero dei siti inquinati sia fin troppo grande, le risorse finanziarie disponibili risultano carenti.

Al riguardo, va segnalato che per gli interventi di bonifica e ripristino dei 40 siti identificati dal ministero dell'Ambiente - il Petrolchimico di Porto Marghera, le raffinerie di Gela, i poli industriali e petrolchimici di Brindisi, Taranto, Gela ma anche l’Acna di Cengio, la discarica di Pitelli, solo per citare i più noti - la Finanziaria appena approvata, registra una riduzione di circa 100 miliardi.

Per correre ai ripari sarebbe utile riproporre per le bonifiche in Italia un sistema simile a quello del Superfund utilizzato negli Usa.

Nel 1980, in seguito a una serie di disastri ambientali, il governo degli Stati Uniti d’America emanò infatti una legge per le bonifiche il cui fondo iniziale, il Superfund appunto, era di circa 1,6 miliardi di dollari. Questo fondo fu creato grazie a una tassa speciale imposta ai produttori di sostanze chimiche e petrolifere che, sei anni dopo, fu estesa a ogni tipo di azienda che produceva rifiuti tossici, in percentuale dell’utile. Tutte le aziende quindi, se superano certe dimensioni, devono pagare una quota per il fondo, anche se le aziende petrolifere e chimiche hanno tassazioni maggiori.

Gli 8,5 miliardi di dollari del fondo attuale vengono usati per varie finalità: per intervenire immediatamente nei casi di rischio per la salute umana, per le attività di caratterizzazione iniziale dei siti in modo da stabilire le priorità d'intervento, per risanare i cosiddetti siti “orfani”, cioè quelli in cui è davvero impossibile individuare un responsabile, ma anche per recuperare i soldi, visto che quando si decide di partire subito con le operazioni di bonifica e ricorrere poi in tribunale per il risarcimento, le spese legali sono notevoli.

Va sottolineato che i siti industriali in attività e quelli di gestione dei rifiuti pericolosi non vengono inseriti nell’elenco del Superfund. In caso di contaminazione di tali siti infatti è il responsabile della contaminazione a pagare di tasca propria la bonifica, senza alcun finanziamento da parte dello Stato.

Se il sito di smaltimento è abbandonato, se quello industriale non è operativo oppure se il sito è operativo ma l’azienda ha fallito, entra in gioco invece il Superfund.

Confrontando Usa e Italia sulla questione delle bonifiche, vediamo che negli Stati Uniti c’è un sistema normativo flessibile e pragmatico, che fa la selezione dei siti mediante la valutazione del rischio, per cui se l’area contaminata è gestita da un operatore in attività e la contaminazione è attuale o pregressa, lo Stato non ci mette una lira e gli interventi sono interamente a carico del privato. Quindi c’è più flessibilità nell’individuazione dei siti da bonificare e degli interventi da realizzare, mentre c’è una piena responsabilità finanziaria del privato.

Certo, il modello degli Stati Uniti funziona proprio grazie all’esistenza di una struttura pubblica, l’Epa appunto, dotata di risorse finanziarie e competenze tecnico-scientifiche tali da impedire scappatoie.

In Italia invece c’è una maggiore rigidità legislativa, poi però lo Stato interviene e cofinanzia anche i casi in cui l’inquinamento è prodotto da un operatore ancora in attività. Qui vale quindi uno strano meccanismo per cui alla rigidità burocratica non corrisponde una severità tale da imporre al privato tutto l’onere economico del risanamento ambientale.

Per continuare il confronto, nel nostro Paese non esiste un’agenzia con la stessa struttura, risorse e compiti dell’Epa statunitense.

L’ipotesi di ragionare anche in Italia su un meccanismo di finanziamento per i siti dismessi, basato su un sistema fiscale simile a quello americano, faciliterebbe di molto il risanamento delle aree inquinate del nostro Paese.

In conclusione, se l'obiettivo principe è quello di bonificare i siti contaminati del nostro Paese riducendo i drammatici rischi ambientali e sanitari, riteniamo fondamentale l'istituzione di un fondo nazionale, realizzato attraverso l'introduzione di un meccanismo tipo quello statunitense che prevede la contribuzione ad un fondo nazionale finanziato mediante tassazione diretta alle imprese, completamente diverso da quello attuale vigente in Italia. E' necessario quindi aumentare il potere di controllo di un organismo terzo, di carattere pubblico, a cui affidare il potere d’intervento nell’individuazione e nella selezione dei siti da bonificare. Vanno poi modificate le procedure di intervento in modo da dividere i siti dismessi e le discariche illegali, per i quali si attinge dal fondo nazionale finanziato dal mondo dell’impresa, dai siti operativi, per i quali l’onere finanziario delle bonifiche sarebbe completamente a  carico dell’impresa.

Parallelamente, è necessario estendere gli studi sullo stato di salute della popolazione anche a tutte le nuove aree considerate o sospettate a rischio, allargando l’osservazione sanitaria anche all’incidenza di altre patologie (malformazioni croniche, funzione tiroidea, et.), considerate attualmente come bio-indicatori e precursori di un possibile maggiore rischio di effetti sanitari a più lunga latenza (morti per tumore, etc.).

 

 


 

PORTO MARGHERA

 

“Marghera sensa fabriche sarìa più sana,

‘na giungla de’ panoce, pomodori e marijuana”

(dalla canzone “Marghera” dei  Pitura Freska)

 

Una sentenza di assoluzione a dir poco scandalosa. Non poteva che essere questo il commento di Legambiente dopo la conclusione del processo ai vertici delle aziende del petrolchimico di Porto Marghera, svoltosi per far luce sulle morti di alcuni operai del reparto Cvm (Cloruro vinile monomero) e sul danno ambientale causato alla laguna di Venezia. Del resto dopo circa quattro anni di processo e dopo le raccapriccianti deposizioni degli operai sopravvissuti e dei familiari di quelli ormai deceduti, ci si aspettava un finale completamente diverso. Soprattutto da parte di chi come Legambiente, parte civile al processo insieme ad altre associazioni ambientaliste, per anni si è battuta contro la folle politica industriale delle aziende del petrolchimico veneziano.

Sullo stato dell’arte delle bonifiche degli innumerevoli siti contaminati di Porto Marghera il commento non è poi così diverso. Gli interventi di bonifica da tempo annunciati non sono mai partiti per una serie di intoppi burocratici assolutamente privi di senso. Dalla firma dell’Accordo di programma sulla chimica a Porto Marghera dell’ottobre ’98 sono passati più di tre anni durante i quali in pratica nulla è stato fatto. Nel frattempo è stato approvato il decreto ministeriale sulle bonifiche (dicembre ’99) e un’integrazione all’accordo che comprendesse le novità inserite nel decreto (dicembre 2000), che doveva essere ratificata da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che ancora non è stato varato.

L’unica novità da segnalare è la transazione di oltre 271 milioni di euro conclusa tra Montedison e Ministero dell’ambiente, a cui si è ipotizzato possa seguire quella con Enichem di circa 206 milioni di euro. Facciamo fatica a capire il motivo per cui la transazione farà desistere il Ministero dal ricorrere in appello contro la sentenza assolutoria del processo su Porto Marghera, così come già dichiarato dallo stesso Ministro. Non è chiaro cosa centrino i miliardi che Montedison ed Enichem devono pagare per risanare i siti contaminati dalle loro attività produttive, con il ricorso in appello in un processo svoltosi non solo per i danni arrecati all’ambiente, ma anche per determinare le eventuali responsabilità penali nelle morti degli operai del petrolchimico.

La storia di Porto Marghera è tristemente nota all’Italia intera. Così come è noto l’articolo 15, III comma, delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore di Venezia del 1962, che condannò Marghera ad essere quel girone dantesco che è stato per decenni. Secondo quell’articolo “...nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose, che producono vibrazioni o rumori”. E così in effetti è stato. 

L’elenco delle attività produttive che nei trent’anni in cui è rimasta in vigore questa norma sono state realizzate a Marghera è impressionante: uno dei più grandi poli chimici del nostro paese, alluminio, cantieristica navale, petrolifero - raffinazione, siderurgia, energia elettrica, commercio di prodotti petroliferi. Il polo chimico ha prodotto quasi tutte le sostanze a partire dalle materie prime, prodotti intermedi, prodotti finali. A partire dal 1951 con i reparti cloro - soda che producono cloro, soda caustica e ipoclorito. L’anno successivo inizia la produzione di trielina, acetilene e quindi cloruro di vinile monomero (CVM) e polivinilcloruro (PVC). E’ a Marghera che verrà avviata la produzione della plastica in Italia. Ma si producono per decenni anche fibre acriliche e fertilizzanti, ammoniaca ed etilene, acido fosforico e fluoridrico, solo per citarne alcune.

Fino alla fine del 1988, lo smaltimento dei rifiuti prodotti nella zona industriale è avvenuto prevalentemente scaricando i cosiddetti gessi in mare. Dopo l’esportazione internazionale di rifiuti con le “navi dei veleni”, nello stabilimento Petrolchimico sono tuttora stoccati in 6 zone all’aperto e senza particolari cautele circa 20.000 fusti di rifiuti tossici.

Il 21 giugno 1989 partecipano all’assemblea degli azionisti Montedison molti rappresentanti di Legambiente. Una lunga discussione che inchioda l’assemblea per undici ore ad ascoltare le ragioni del popolo inquinato.

Nell’esaminare le politiche Montedison i riferimenti a Marghera appaiono nell’intervento di Ermete Realacci che cita i buoni risultati ottenuti con la fermata degli scarichi a mare, frutto della pressione ambientalista, invita a destinare i dividendi dell’anno in corso per risanare i problemi ambientali che gli impianti Montedison hanno determinato. Renata Ingrao sottolinea la pericolosità del cloruro di vinile monomero come cancerogeno e chiede che si intervenga sugli impianti. Duccio Bianchi richiama Montedison ad applicare le leggi sullo smaltimento dei rifiuti, poiché è accertato che non le applica, chiede l’impegno a regolarizzare lo smaltimento dei rifiuti e a bonificare le aree contaminate e chiede spiegazioni sul perché Montedison continui ad investire in inceneritori piuttosto che in produzioni pulite. Ivo Conti insiste sulla necessità di chiarire la situazione degli impianti di Marghera, poco chiara in particolar modo per lo smaltimento dei rifiuti tossico nocivi. Gianni Tamino esprime preoccupazioni per la compatibilità di settori quali il cloro soda e le eccedenze di cloro.

Le forti preoccupazioni, i dubbi, gli interrogativi sui danni della chimica italiana Legambiente li riaffermò nel maggio 1991, quando, con il dossier ”Enichem. Ambiente, sicurezza, salute dei cittadini. La faccia dimenticata dell’industria chimica italiana”, ribadisce che i passaggi da Montedison a Enichem attraverso Enimont hanno lasciato cittadini e ambiente preda di un’industria chimica rovinosa e spendacciona.

Era già chiaro a Legambiente che “nelle industrie chimiche, ma non solo in queste, si sono verificati negli scorsi decenni importanti fenomeni di contaminazione del suolo e del sottosuolo. Nelle attuali aree industriali si trovano, spesso senza alcuna autorizzazione o conoscenza, depositi o discariche di rifiuti tossici. I terreni, inoltre, sono stati contaminati da sversamenti, perdite di routine, incidenti”. In quell’occasione si affermò con forza la necessità di misure legislative, finanziarie e tecniche per affrontare il problema delle bonifiche, che avrebbero dovuto essere a carico dei proprietari delle aree e dei riutilizzatori.

Il quadro di Porto Marghera vedeva un settore chimico colpito dalla ristrutturazione con un calo di oltre 5000 posti di lavoro fra il 1980 e il 1987 e quasi 7000 occupati nel 1990. Le società principali insediate nel Petrolchimico erano EVC, Montedipe, Montefluos, Enimont Anic, Crion, CPM, Marghera. Le produzioni “forti”: cracking (etilene e propilene), PVC, isocianati, caprolattame, fibre. Un complesso che vedeva in funzione “circa 2.000 camini o sfiati che emettono 240.000 tonnellate all’anno di sostanze varie, tra cui alcune riconosciute cancerogene dall’OMS (come CVM, nitrile acrilico, ammine aromatiche)”. “Attualmente soltanto pochi camini sono dotati di apparecchiature di controllo in continuo delle emissioni, mentre sarebbe necessario estendere l’uso di strumenti di controllo con blocco automatico degli impianti quando le emissioni superano i valori limite di legge”.

Quanto a produzione e smaltimento di rifiuti il dossier notava che “fino a tutti gli anni ’70 lo smaltimento dei rifiuti prodotti nella zona industriale è avvenuto in maniera molto sbrigativa, prima scaricando tutto in mare, poi progressivamente sempre più lontano dalla costa e poi scaricando a terra un po’ ovunque in una miriade di siti incontrollati. Una recente indagine con fotografie da satellite ha consentito di individuare nella provincia di Venezia circa 200 discariche abusive, alcune delle quali di grandi dimensioni e con rifiuti industriali. Dei numerosi siti conosciuti come discariche abusive di rifiuti tossici non è mai stato avviato un piano di bonifica”. “Le emissioni in acqua attualmente ammontano a 20.000 tonnellate/anno e comprendono solventi clorurati, oli minerali, cianuri, solfiti, fluoruri, acido cianidrico, fosfati, mercurio, piombo, zinco, cromo”. “La regione Veneto nel Piano direttore per il disinquinamento della laguna del dicembre 1989 riconosce che ”l’inquinamento da metalli pesanti e composti tossici (fenoli, cianuri, solfuri, tensioattivi) è oggi presente nei sedimenti di tutta la laguna””.

Uno dei coautori del dossier per il capitolo di Marghera è Gabriele Bortolozzo, ex-operaio del Petrolchimico che, accortosi della morte per cancro di quattro dei suoi cinque compagni di lavoro addetti alla ripulitura delle autoclavi nella produzione del CVM, dedica tutto se stesso alla ricostruzione dei disastri ambientali e dell’annientamento delle vite di tanti operai.

Nel 1994 Gabriele Bortolozzo pubblica il dossier “Il cancro da cloruro di vinile al Petrolchimico di Porto Marghera”. Lo stesso dossier viene depositato come esposto-denuncia presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Venezia.

“Gli operai delle imprese appaltatrici addetti all’insacco del PVC in polvere erano 98 tra il 1975 e il 1980, si tratta di una mansione estremamente gravosa e nociva. Nel giugno 1994, 28 di loro mancano all’appello: sono i morti per “tutte le cause”, pari al 28,57% degli addetti; 23 di essi sono deceduti per tumori di vario tipo: l’82,14% dei lavoratori deceduti nel medesimo periodo nel gruppo a rischio. Molti sono stati colpiti all’apparato respiratorio (laringe-polmoni). Più precisamente i tumori si riferivano: 10 ai polmoni, 3 alla laringe, 2 al fegato, 1 al pancreas, 6 in sedi non precisate, 1 caso di leucemia…tra il 1975 e il 1980 l’organico al reparto CV6 era di 108 lavoratori. Ne sono deceduti, a tutto giugno 1994, per “tutte le cause”, 24, pari al 22,22% degli addetti, mentre 15 sono morti di tumore, il 62% di tutti i lavoratori deceduti nel gruppo a rischio, prevalentemente colpiti al fegato”. L’esposto di Gabriele Bortolozzo trova pronto ad avviare le indagini il sostituto procuratore Felice Casson.

Mentre partono gli accertamenti per avvalorare le tesi di Bortolozzo, Legambiente nel luglio 1996 ricorda il ventennale dall’incidente all’Icmesa con il dossier “A vent’anni dall’incidente di Seveso. Industria, ambiente, salute”. Un inevitabile posto fra le aree a rischio esaminate lo trova Porto Marghera. Alla costante pericolosità delle produzioni, delle emissioni in aria e acqua oggetto di “un’indagine della Magistratura di Venezia per appurare se le morti per tumore si possano attribuire al ciclo di lavorazione PVC - CVM e se l’azienda (allora Montedison), nonostante fossero noti i rischi per i propri dipendenti, non intervenne per tutelarne la salute”, vennero aggiunti i rischi di un transito intenso di navi con prodotti chimici e petroliferi, “un traffico valutabile intorno ai 2 milioni di tonnellate/anno di prodotti vari che sono quasi tutti o tossici o infiammabili o esplosivi”.

Il 12 dicembre 1996 il giudice Casson deposita il rinvio a giudizio nei confronti di Eugenio Cefis, Giuseppe Medici, Mario Schimberni, Alberto Grandi, Giorgio Porta, Pier Giorgio Gatti, Italo Trapasso, Lorenzo Necci, Antonio Sernia e altri.

Ognuno imputato per reati diversi:

-                                  “…dal 1970 fino al 1988 effettuavano (o facevano effettuare) scavi e realizzavano (o facevano realizzare) bacini e discariche, all’interno dell’insediamento produttivo petrolchimico di Porto Marghera o in sua prossimità, in cui venivano abusivamente smaltiti, abbandonati, scaricati, depositati e comunque stoccati rifiuti di vario genere e in particolare rifiuti speciali tossico-nocivi”;

-                                  ”effettuavano lo scarico dei fanghi e degli altri sottoprodotti di risulta dei trattamenti, attraverso gli scarichi 2 e 15, con concentrazioni di nitrati e clorurati superiori ai limiti previsti dal Dpr 962/73”;

-                                  “consentivano la dispersione nel sottosuolo e nelle acque sottostanti di sostanze tossico-nocive e di acque di rifiuto non trattate”;

-                                  “omettevano di adottare tutte le misure urgenti e necessarie al fine di evitare il deterioramento della situazione igienico-sanitaria-ambientale di tutti i siti… e comunque delle falde acquifere sottostanti e delle acque confinanti”;

-                                  “pur essendo consapevoli del grado elevatissimo di tossicità e nocività dei residui scaricati, ma disinteressandosene ed anzi accettandone il rischio, contribuivano a dare origine e ad incrementare il progressivo avvelenamento delle acque di falda sottostanti la zona di Porto Marghera (acque utilizzate anche per uso domestico e agricolo), in cui sono state rinvenute tracce di solventi clorurati, solventi aromatici, idrocarburi aromatici, fenoli, ammoniaca, ammine aromatiche, piombo, cadmio, zinco, mercurio e arsenico in valori superiori ai limiti consentiti e determinavano altresì un inquinamento grave dei sedimenti e delle acque nei canali e negli specchi lagunari e i conseguenti successivi adulterazione e avvelenamento di ittiofauna e molluschi… con particolare riferimento alle tracce di sostanze pericolose tossico-nocive e cancerogene nei medesimi rinvenute… con particolare riferimento alle diossine”;

-                                  “con le aggravanti… per aver commesso i reati per motivi futili (il profitto economico)”;

-                                  “con più azioni e omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, agendo nonostante la previsione dell’evento, per colpa cagionavano il delitto di strage e disastro, mediante azioni e omissioni che cagionavano pericoli per la pubblica incolumità, sia all’interno che all’esterno dei reparti CVM-PVC, tanto che ne derivavano la morte e la malattia di un numero allo stato ancora imprecisabile di persone”;

-                                  “gli imputati erano venuti a conoscenza dei risultati delle indagini scientifiche a livello mondiale e dell’esito degli accertamenti sulla pericolosità del CVM-PVC, riferito dal prof. Piero Luigi Viola della Solvay di Rosignano (fin dal 1969), nonché comunicato per iscritto (fin dall’ottobre 1972) e più volte verbalmente dal prof. Cesare Maltoni di Bologna, accertamenti tutti che segnalavano il pericolo tossicologico e anche cancerogeno derivante dalla lavorazione e dalla trattazione in qualsiasi forma del CVM-PVC, pericolo confermato successivamente nella G.u.c.e. del 10.12.76 e dall’indagine epidemiologica effettuata dall’Università di Padova nel 1975-76 a Porto Marghera, conclusasi con la relazione finale datata 12 marzo 1977, che segnalava una “situazione sanitaria complessiva grave”;

-                                  “la colpa (progressiva nel tempo) è consistita in imprudenza, negligenza, imperizia… per non aver - pur in presenza delle conoscenze mediche e scientifiche di cui sopra - adottato nell’esercizio dell’impresa tutte e immediatamente le misure necessarie per la tutela della salute dei lavoratori… per eliminare totalmente e immediatamente le fughe di gas CVM e di dicloroetano nell’ambiente di lavoro e nell’ambiente esterno… per non aver curato che i lavoratori usassero tutti i mezzi necessari di protezione individuale… per non aver predisposto misure di sicurezza per tutte le fasi del ciclo produttivo… per non aver fornito informazioni dettagliate e tempestive ai propri dipendenti… per i periodi di tempo di rispettiva competenza i dirigenti e amministratori della holding Enichimica-Enichem e delle sue varie società “figlie”, pur in presenza di sempre maggiori conoscenze mediche e scientifiche, continuavano ad omettere di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie per la tutela della salute dei lavoratori dipendenti e di quelli delle ditte d’appalto”.

Il 21 marzo 1997 si apriva il processo per la strage di lavoratori e il disastro ambientale in laguna. Legambiente aveva aperto la discussione con il dossier “I crimini di Porto Marghera”. L’emergenza sanitaria veniva così delineata: “I lavoratori del petrolchimico per primi sono stati sottoposti per anni ad esposizioni di cloruro di vinile che hanno pesantemente sfondato i limiti di tollerabilità massima per il corpo umano, con concentrazioni che sono arrivate oltre le 1.000 parti per milione. Tanto per avere un termine di raffronto si può fare riferimento alle indicazioni dell’organismo americano che controlla gli ambienti di lavoro (OSHA) che già nel 1974 imponeva concentrazioni massime di CVM di 1 ppm nell’arco delle otto ore lavorative, mentre il legislatore italiano (e solo nel 1981) ha imposto il limite di 3 ppm come media annuale, permettendo così esposizioni a picchi ben più alti. Gli operai dei reparti CVM-PVC corrono un rischio 7,5 volte maggiore del normale di contrarre un tumore al fegato e 600 volte più alto di contrarre una rara forma di tumore epatico, l’angiosarcoma del fegato”.

La questione “salute” viene ripresa dal dossier “Porto Marghera: la bonifica innanzitutto. E dopo?” presentato all’apertura del processo. Le indagini di Gabriele Bortolozzo, quelle della Procura, lo studio dell’Istituto Superiore di Sanità permettevano di dare un quadro sanitario interno al Petrolchimico: “Non tutti gli operai segnalati lavoravano effettivamente a contatto con il CVM, i morti segnalati alla magistratura erano 145 e, di questi, 102 decessi possono essere correlati alla esposizione al CVM (si tratta infatti di tumori del fegato, del cervello, del sistema linfoemopoietico e del polmone per i quali lo IARC dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce un rapporto diretto e dimostrato con l’esposizione a CVM); compaiono fra le persone segnalate patologie che con ogni probabilità sono causate dal lavoro a Marghera, anche se non legate direttamente al CVM. Ad esempio si registra un eccesso di tumori vescicali (correlabile ad esposizione alle ammine aromatiche utilizzate a Marghera nel reparto TDI e forse in altre lavorazioni) rispetto alla frequenza di questa patologia nel resto del Veneto. Si notano anche alcuni casi di carcinoma alla pleura e al polmone correlati con esposizione ad amianto. E ancora le conclusioni evidenziano che fra gli insaccatori di CVM c’è un’anomala frequenza di tumore al polmone e che i casi di epatopatie hanno una frequenza impressionante (ne sono stati accertati 189 su 571 persone di cui si è esaminata la documentazione clinica)… Interessante il raffronto con i risultati delle indagini epidemiologiche condotte dall’ISS… le persone prese in considerazione sono in tutto 1568 per la polimerizzazione e 208 per l’insacco. Al 1995 risultavano ancora vivi 1487 polimerizzatori e 166 insaccatori.  I deceduti sono dunque rispettivamente 168 e 41 (mancano tre polimerizzatori e un insaccatore di cui si è persa ogni traccia)”. Il tasso di mortalità non rivela molto, se si tiene conto di fenomeni ben conosciuti in epidemiologia, come il cosiddetto “effetto lavoratore sano”: “Il discorso – continua il dossier – cambia molto se si verificano le singole cause di morte. I decessi per tumore maligno sono 86 fra i polimerizzatori. Il loro numero giunge addirittura ad essere pari a quello atteso a livello nazionale e soltanto poco più basso di quello regionale. Se si sconta l’effetto lavoratore sano e si considera che un aumento relativo dei morti per tumore è per forza parallelo ad una diminuzione relativa dei morti per quell’altra grande causa che sono le malattie cardiovascolari, si può concludere che la percentuale dei morti per tumore è in realtà aumentata o per lo meno che il profilo delle cause di morte non è normale, essendo alterato il rapporto fra i tumori e malattie cardiovascolari a favore dei tumori. In altre parole, aveva ragione Bortolozzo: quasi tutti gli operai, suoi compagni di lavoro, morirono per tumore…”.

“L’incidenza del tumore al fegato risulta aumentata in maniera statisticamente significativa. La frequenza del tumore aumenta tra gli autoclavisti, i più esposti, ed è particolarmente frequente una rara forma di epatocarcinoma, l’angiosarcoma epatico. Fra gli autoclavisti l’SMR (il tasso standardizzato di mortalità) per angiosarcoma raggiunge la bella cifra di 60.000; in altre parole, questi lavoratori muoiono per angiosarcoma al fegato con una frequenza pari a 600 volte quella attesa. I morti, fra gli autoclavisti, sono 18 in tutto. Se se ne verificano le cause, il risultato è sconvolgente: 9 sono morti per tumore al fegato, 3 per cirrosi epatica, 4 per altri tumori. Uno infine, il cui certificato di morte denuncia un carcinoma allo stomaco, era in realtà affetto da una grave forma di epatopatia. Soltanto uno è morto per cause cardiache. Questi dati sono talmente clamorosi che non hanno bisogno neppure di elaborazioni statistiche: aveva ragione Bortolozzo nell’affermare che i suoi amici autoclavisti morivano tutti per cancro al fegato. Purtroppo Bortolozzo non avrà neppure la soddisfazione di veder confermati i risultati delle sue indagini: morirà in uno strano incidente stradale, il 12 settembre 1995, investito da un camion”.

Lo stesso dossier riprende dal rinvio a giudizio del Pubblico ministero Casson l’inesistente attenzione alle questioni ambientali dimostrata dalle società presenti a Marghera mediante la vicenda dell’incarico affidato da Montedison ed EniChem alla società American Appraisal. Incarico dato per verificare lo stato degli impianti di Marghera, in occasione della progettata costituzione di Enimont al fine dell’accertamento del rispetto delle normative ambientali. L’American Appraisal fa le sue indagini, arriva a delle conclusioni, che mette per iscritto: si scrive che l’Anic produce PVC, i reflui idrici sono acque clorurate, i rifiuti solidi vengono inviati in discariche abusive, gli impianti emettono in atmosfera alte concentrazioni di inquinanti. L’Anic possiede 57 effluenti (43 gassosi, 7 idrici, 2 per rifiuti liquidi, 2 per rifiuti solidi), gli altri impianti di Marghera hanno 208 effluenti (tra cui 162 scarichi in atmosfera) e i rifiuti solidi vengono in parte smaltiti in discariche interne agli stabilimenti (in 17 discariche ben 5 milioni di tonnellate), in parte incendiati, in parte esportati in Spagna e nell’allora Ddr. L’American Appraisal aggiunge: “Situazioni di questo tipo possono causare seri problemi economici e di responsabilità civile e penale per i futuri proprietari delle aree in questione”. La relazione di American Appraisal finisce naturalmente in un cassetto di Enichem da dove uscirà solo per opera della magistratura.

A tre anni dall’avvio del processo, delle centinaia di lavoratori e familiari costituitisi, solo alcuni rimangono come parti civili, con le associazioni ambientaliste, il Comune la Provincia, la Regione e lo Stato. Per tutti gli altri Montedison e Enichem stanzia più di sessanta miliardi per il risarcimento danni.

Ma a questo punto vale la pena riprendere alcune delle deposizioni dei consulenti del pubblico ministero dalle quali emerge il quadro che per anni, invano, gli ambientalisti avevano additato a istituzioni, imprese e sindacati di categoria.

La deposizione Spoladori è per certi versi illuminante: per i rifiuti delle lavorazioni “aree interne del Petrolchimico furono utilizzate per lo smaltimento; nella zona adiacente ai serbatoi di ammoniaca fredda vicino a gruppo di produzione AS vennero scaricate terre rosse derivate dalla lavorazione dell’acido solforico. Altra zona segnalata fu quella adiacente agli ex impianti TDI, quella del laboratorio e dell’ingresso 4 dove sorge l’eliporto. Qui vennero coperti con terreni numerosi fusti, sostanze liquide e tossiche. Le fasi di smaltimento avvennero tra gli anni ‘76 e ’89.

                In aree esterne allo stabilimento, Lughetto di Campagna Lupia e lungo il canale Petroli, sono stati rinvenuti fusti contenenti pece clorurata di derivazione industriale in una vasta discarica nei pressi delle abitazioni. A Mirano sono confluiti rifiuti industriali compresi quelli dell’impianto cloro-soda del Petrolchimico, contenenti alte percentuali di mercurio. Malcontenta, via Molanzani, dove la Montefluos nell’anno ‘89 con autopompa scaricava più volte al giorno gessi in vasche che poi furono interrate. Sotto le linee elettriche che corrono tra Malcontenta e Fusina vennero scavate fosse profonde 3 o 4 metri, dentro le quali prima si scaricavano acque inquinate da CVM, le stesse venivano quindi ricoperte da uno strato di cenere della vicina centrale ENEL, e successivamente si sovrapponeva uno strato di pece del TDI e così via, al fine di coprire il tutto con uno strato di terra. Ciò è continuato fino a quando non è stato costruito il forno inceneritore di pece TDI, intorno agli anni ‘77 e ‘79, anche se gli smaltimenti sono continuati fino al 1983.

                Altra zona segnalata era tra le abitazioni tra la campagna coltivata e il naviglio Brenta. I rifiuti solidi venivano utilizzati come materiali per imbonimenti delle zone barenarie, che progressivamente venivano conglobate con l’espansione della zona industriale. Raggiunta la massima espansione geografica, non avendo più siti interni di rifiuti, venivano innalzati su tutto il territorio, interessando prima le aree limitrofe, poi i siti più distanti, quindi scaricati a mare e anche inviati in paesi del terzo del mondo.

                Altro sistema di smaltimento dei rifiuti di estrema nocività è stato quello di bruciarli direttamente nelle centrali termoelettriche esistenti. Peci della peggiore specie venivano aggiunte al combustibile o gettate nelle caldaie. In questo modo venivano eliminate: 500.000 tonnellate annue che venivano di fatto trasferite nel territorio, di cui in particolare code di distillazione, peci di TDI ad altri impianti, 9.000 tonnellate annue, residui clorurati 11.000 tonnellate annue, ceneri di pirite 7.000 tonnellate annue, gessi da acido fluoridrico 400.000 tonnellate annue. Questo si rinviene soprattutto in particolare dal censimento delle discariche nel territorio provinciale.

Praticamente questi residui di produzione provenivano dall’impianto del CVM, dall’impianto TR, che tratta tetracloroetilene, TS, che è la trielina, e il DL2, che è la produzione di ossido di carbonio. Poi ammine aromatiche e sempre impianto di produzione del TDI, toluene di isocianato, processo di nitrazione del toluene per ottenere il disitoluene; successivamente alla riduzione ottenevano la toluendiammina, fatta reagire con l’ossido di carbonio ottengono il TDI, quindi anche qui c’è un forte residuo di produzione che veniva smaltito nel territorio. Poi avevamo anche EPCB, che provenivano dal fluido elettrico dei trasformatori, impianti, espurghi, trasformatori. Invece le diossine rinvenute nei rifiuti soprattutto e in particolare i policloruribenzidiossine e i forani, comunque parliamo di diossine... Policloruribenzidiossine, questa è una sostanza rinvenuta nei rifiuti. Proviene dal CVM, ma anche da altre produzioni di cloroalifatici, impianti TR, TS, DL2 e di cloroaromatici: cloruro di benzene e cloruro di benzale, presso l’impianto BC1.

Invece per quanto riguarda i metalli pesanti rinvenuti nei rifiuti da noi campionati, in particolare il piombo, si può attribuire la produzione per la stabilizzazione del PVC usato sotto forma di solfito bibasico, di piombo e stearato di piombo. Il mercurio presente in quasi tutti i rifiuti rinvenuti, dall’impianto cloro-soda il cloruro mercurico era usato come catalizzatore nella produzione di dicloroetano, CVM, e nella produzione degli acetati. Il ferro invece, cloruro ferrico, catalizzatore dell’impianto TS e impianto TR. Il rame, catalizzatore cloruro di rame usato nel TD2, produzione di ossido di carbonio. Infine l’arsenico, presente nelle ceneri di pirite, da noi rinvenuto in maniera massiccia su aree che dopo andrò ad elencare; produzione di acido fosforico da Enichem Agricoltura, in particolare Fertimont e Agrimont.

Praticamente il rifiuto da noi rinvenuto in quelle aree era direttamen