Cass.Pen. Sez. III n. 41889 del 16 ottobre 2023 (UP 3 lug 2023)
Pres. Ramacci Rel. Zunica Ric.Santeramo
Ambiente in genere.Procedura estintiva delle contravvenzioni ambientali

In tema di reati ambientali, il danno previsto dall’art. 318 bis del d. lgs. n. 152 del 2006, ostativo all’estinzione delle contravvenzioni in materia ambientale, non si identifica con il “danno ambientale” di cui all’art. 300 del medesimo decreto, che ha natura ben più ampia e consistente, potendo invece il danno ex art. 318 bis avere dimensioni e consistenza minori e riguardare, oltre le risorse naturali, anche quelle urbanistiche o paesaggistiche protette.

RITENUTO IN FATTO

               1. Con sentenza del 12 aprile 2022, il Tribunale di Taranto condannava Giuseppe Santeramo, riconosciute le attenuanti generiche, alla pena di mesi 7 di arresto ed euro 7.000 di ammenda, in quanto ritenuto colpevole dei reati di cui all’art. 256 commi 1 e 2 del d. lgs. n. 152 del 2006, reato contestatigli perché, quale legale rappresentante della Satramet s.r.l., autorizzata per le attività di messa in riserva (R13) e di recupero dei materiali e composti metallici (R14) di rifiuti non pericolosi, gestiva illecitamente ingenti quantità di rifiuti metallici, pericolosi e non pericolosi, depositandoli in modo incontrollato sul piazzale dell’impresa, su aree non autorizzate a tale scopo e/o destinate allo stoccaggio di diverse tipologie di rifiuti; fatti accertati a Laterza il 4 giugno 2018.
      Con sentenza resa in data 21 ottobre 2022, la Corte di appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, riduceva la pena a carico dell’imputato nella misura di mesi 3 di arresto ed euro 1.600 di multa, confermando nel resto la decisione di primo grado.
         2. Avverso la sentenza della Corte di appello pugliese, Santeramo, tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi (il quarto motivo si ripete due volte).
        Con il primo, è stata eccepita l’inosservanza degli art. 318 bis ss. del d. lgs. n. 152 del 2006, evidenziandosi che, contrariamente a quanto sostenuto nella pronuncia impugnata, le prescrizioni impartite dalla P.G. ai sensi della richiamata normativa sono state eseguite dall’imputato, come si evince dal verbale di riapposizione dei sigilli dei Carabinieri del N.O.E. del 25 gennaio 2019, non avendo tuttavia l’organo accertatore ammesso il contravventore al pagamento in sede amministrativa di una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda.
La difesa di Santeramo, peraltro, lungi dall’attendere inerte l’apertura del dibattimento senza avanzare la richiesta di ammissione all’oblazione speciale prevista dalla normativa speciale, si allineava fedelmente all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 7678 del 13 gennaio 2017) e alla prima udienza del 2 aprile 2019 richiedeva che fossero restituiti gli atti al P.M. al fine di completare l’iter di cui all’art. 318 bis del d. lgs. n. 152 del 2006, riproponendo l’istanza alle successive udienze del 12 novembre, 17 dicembre 2019 e 25 febbraio e 15 dicembre 2020, udienza in cui la propria istanza veniva disattesa, pur non essendovi alcuna ragione ostativa, atteso che dalla condotta ascritta all’imputato non è dipeso alcun concreto e attuale pericolo per l’ambiente e, soprattutto, l’area interessata dal deposito non è soggetta ad alcun vincolo.
        Con il secondo motivo, si contesta la violazione dell’art. 431 cod. proc. pen., rimarcandosi che la condanna dell’imputato è stata fondata su alcuni atti di indagine (processo verbale delle operazioni compiute, verbale di acquisizione documenti e annotazione di P.G. sulle indagini effettuate) che non erano utilizzabili ai fini del giudizio di responsabilità, a nulla rilevando la mancata richiesta difensiva di esclusione degli atti dal fascicolo per il dibattimento, essendo stati tali atti acquisiti preliminarmente ai soli fini della decisione sulla questione preliminare sull’applicazione degli art. 318 bis ss. del d. lgs. n. 152 del 2006, senza alcun accordo sull’utilizzabilità di tali atti nel giudizio di merito.
        Con il terzo motivo, la difesa deduce l’inosservanza dell’art. 233 cod. proc. pen., il travisamento della consulenza tecnica in atti e la manifesta illogicità della motivazione, in ordine al pericolo concreto del danno ambientale, rilevando che la Corte di appello ha degradato l’elaborato tecnico in atti al rango di mera “memoria difensiva”, senza considerare che tale elaborato è stato acquisito come prova all’udienza del 15 marzo 2022, in luogo dell’esame del consulente; in ogni caso, sottolinea la difesa, a differenza di quanto sostenuto dalla Corte di appello, doveva escludersi ogni pericolo di contaminazione, atteso che l’esistenza di un impianto depurativo a servizio del piazzale evitava che le acque di prima pioggia e di dilavamento potessero scaricarsi in fogna bianca prima di essere depurate.
        Con il quarto motivo, oggetto di doglianza è l’inosservanza dell’art. 131 bis cod. pen,, evidenziandosi che, in difetto di qualsiasi pericolo concreto per l’ambiente, l’asserita natura permanente della contravvenzione contestata non può da sola escludere la particolare tenuità del fatto.
        Il quinto motivo, infine, è dedicato al mancato riconoscimento della diminuente prevista dall’art. 256 comma 4 del d. lgs. n. 152 del 2006, dolendosi la difesa della contraddittorietà della motivazione sul punto della sentenza impugnata, posto che, quantomeno rispetto ai rifiuti non pericolosi, il capo di imputazione elevato a carico dell’imputato addebita a quest’ultimo l’allocazione dei rifiuti in aree del piazzale destinate, secondo le prescrizioni autorizzative, allo stoccaggio di diverse tipologie di materiali, fermo restando che la Corte di appello non ha spiegato in cosa consista la violazione ascritta al ricorrente.
2.1. Con memoria trasmessa il 21 giugno 2023, il difensore di Santeramo, nel replicare alla requisitoria del Procuratore generale, ha insistito nell’accoglimento del ricorso, ribadendone le argomentazioni per ciascun motivo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

     Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
     1. Iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che la doglianza difensiva consiste nella sostanziale riproposizione di una questione (la mancata ammissione dell’imputato alla procedura di cui agli art. 318 bis e ss. del d. lgs. n. 152 del 2006) che ha già trovato una corretta risposta in sede di merito.
Ed invero deve premettersi che il giudice di primo grado, all’udienza del 17 dicembre 2019, rendeva la seguente ordinanza di cui si riportano i passaggi salienti: “rilevato che, in sede di indagini preliminari, sono state impartite le prescrizioni all’odierno imputato, prescrizioni il cui adempimento ha comportato il dissequestro dell’area presso la quale si sarebbe svolto il fatto di cui al capo di imputazione; rilevato che, a seguito dell’adempimento a queste prescrizioni ex art. 318 bis, come prospettato dalla difesa, non è stata ammessa la parte Santeramo Giuseppe al pagamento di una sanzione amministrativa da parte dell’organo accertatore; rilevato che questo Giudice ha concesso un termine per l’esaurimento della procedura di cui all’art. 318 bis; rilevato che il Pubblico Ministero, con provvedimento del 29 maggio 2019, ha dichiarato non luogo a provvedere in ordine alla richiesta di accesso alla procedura prevista dall’art. 318 bis del d. lgs. n. 152 del 2006, preclusa in ragione della natura anche pericolosa dei rifiuti; … rilevato in ogni caso che, sebbene astrattamente le scansioni processuali de quibus possono ricadere entro il modulo procedimentale del 318 bis, è evidente che, sin dall’inizio, il Pubblico Ministero ha prevalentemente ritenuto di autorizzare lo svolgimento di lavori presso l’area di cui al capo di imputazione ai fini di un eventuale dissequestro dell’area, dissequestro poi effettivamente verificatosi; rilevato che questo Tribunale, rilevando l’astratta riconducibilità delle scansioni procedimentali de quibus, ha concesso un termine alla parte istante, ovverosia al signor Santeramo e alla Satramet, per l’eventuale esaurimento di una procedura ex art. 318 bis, rilevando l’astratta possibilità che detta procedura potesse essere portata a termine; rilevato che, come risulta dal disposto degli art. 318 bis e seguenti, la procedura de qua è una procedura destinata a esaurirsi in sede di indagini preliminari, tanto più che le precise scansioni procedimentali previste dal dato normativo sono scansioni che non prevedono mai la partecipazione dell’Autorità giudiziaria, intesa come giudice del dibattimento; … rilevato che, in virtù dell’estraneità del giudice del dibattimento rispetto alla procedura de qua, si deve ritenere che dominus sia il Pubblico Ministero; rilevato che il Pubblico Ministero, anche sulla base della conoscenza dei fatti di questo procedimento, derivatigli dalla disponibilità del fascicolo contenente gli atti delle indagini preliminari, ha ritenuto che la fattispecie concreta oggetto di questo procedimento non sia riconducibile al disposto dell’art. 318 bis in virtù dell’asserita pericolosità dei fatti di cui al capo di imputazione; rilevato che nel caso di specie non solo non sussiste una causa di improcedibilità, perché il mancato esaurimento di una procedura quale quella di estinzione del reato ante processo non è una condizione di procedibilità codificata, ma che qualsivoglia intervento da parte di questo giudice è destinato a comportare una regressione dell’attuale procedimento, rigetta l’istanza di declaratoria di improcedibilità del giudizio e dispone procedersi oltre in virtù dell’assenza di poteri in capo a questo Giudice di sindacato dell’esercizio dei propri poteri del P.M. nell’ambito della procedura di cui agli art. 318 bis e seguenti”; ciò posto, nel successivo sviluppo processuale, la difesa dell’imputato chiedeva quindi un termine per aderire all’oblazione ex art. 162 bis cod. pen.
Quindi, alla successiva udienza del 15 dicembre 2020, il Tribunale, dato atto della richiesta di oblazione proposta dalla difesa, la rigettava, rilevando che i reati contestati erano quelli di cui all’art. 256, comma 1, del d. lgs. n. 152 del 2006, aventi ad oggetto anche rifiuti pericolosi, per cui non era suscettibile di operare l’invocata oblazione, neppure ai sensi dell’162 bis cod. pen.
La Corte di appello (pag. 6 della sentenza impugnata) ha sottolineato sul punto che le richieste avanzate dai difensori dell’imputato erano volte al dissequestro dell’area e al ripristino delle condizioni di svolgimento dell’attività, per come autorizzata, precisando che al giudice di primo grado non era stata mai avanzata la richiesta di ammissione alla procedura dell’oblazione prevista dal testo unico ambientale, essendo stata richiesta solo l’oblazione speciale codicistica, non applicabile tuttavia nel caso di specie, in quanto la fattispecie di cui all’art. 256, comma 2, del d. lgs. n. 152 del 2006 è punita con pena congiunta, essendo parimenti infondata la contestuale eccezione di improcedibilità dell’azione penale.
Orbene, l’impostazione seguita dai giudici di merito appare corretta, dovendosi innanzitutto evidenziare che è senz’altro applicabile anche alla materiale ambientale, stante la identità sia della ratio che del relativo schema procedimentale, il principio già elaborato da questa Corte con riferimento alla normativa antinfortunistica, secondo cui l’omessa indicazione, da parte dell’organo di vigilanza, delle prescrizioni di regolarizzazione non è causa di improcedibilità dell’azione penale, non potendo la formale assenza della procedura estintiva condizionare l’esercizio dell’azione penale nei casi in cui l’organo di vigilanza ritenga di non impartire alcuna prescrizione di regolarizzazione, tenuto conto che l’imputato può comunque richiedere di essere ammesso all’oblazione, sia in sede amministrativa, sia successivamente in sede giudiziaria e nella stessa misura agevolata (cfr. sul punto Sez. 3, n. 7678 del 13/01/2017, Rv. 269140 e Sez. 3, n. 20562 del 21/04/2015, Rv. 263751).
A ciò deve aggiungersi che, al di là dei profili procedimentali già rimarcati dai giudici di merito, resta il dato sostanziale che il ricorrente non ha fornito adeguata prova del requisito fondamentale ai fini dell’operatività del meccanismo delineato dagli art. 318 bis e ss. del d. lgs. n. 152 del 2006, ovvero del fatto che le contravvenzioni per cui si procede non abbiano cagionato un danno o un pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette, non potendosi sul punto sottacere che, come sarà evidenziato nella disamina del terzo e del quinto motivo, la Corte territoriale, con un apprezzamento di fatto non suscettibile di essere messo in discussione in questa sede, ha escluso che il pericolo per l’ambiente cagionato dalle condotte di gestione illecita e di abbandono incontrollato di rifiuti ascritte alla società gestita dall’imputato fosse qualificabile in termini di lieve entità, essendo stata accertata la presenza di batterie esauste e in parte deteriorate, oltre che di molte chiazze di olio minerale percolato, il che non consente di ritenere ravvisabile il presupposto dell’operatività dell’istituto invocato dalla difesa, avendo in tal senso questa Corte chiarito (cfr. Sez. 3, n. 25528 del 11/12/2020, dep. 2021, Rv. 281733) che, in tema di reati ambientali, il danno previsto dall’art. 318 bis del d. lgs. n. 152 del 2006, ostativo all’estinzione delle contravvenzioni in materia ambientale, non si identifica con il “danno ambientale” di cui all’art. 300 del medesimo decreto, che ha natura ben più ampia e consistente, potendo invece il danno ex art. 318 bis avere dimensioni e consistenza minori e riguardare, oltre le risorse naturali, anche quelle urbanistiche o paesaggistiche protette.
Parimenti immune da censure è altresì il rigetto dell’oblazione ex art. 162 bis cod. pen., in quanto la norma incriminatrice prevede la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda, avendo avuto ad oggetto le condotte illecite contestate anche rifiuti pericolosi, dato questo che vale a confermare il giudizio sulla non esiguità del pericolo scaturito dalle violazioni ascritte a Santeramo.
Di qui la manifesta infondatezza della censura difensiva.
      2. Alla medesima conclusione deve pervenirsi rispetto al secondo motivo.
Nel respingere l’eccezione difensiva riguardante l’inutilizzabilità degli atti su cui sarebbe fondata la condanna dell’imputato, la Corte territoriale si è posta in sintonia con la costante affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 24635 del 04/02/2021, Rv. 281781 – 02 e Sez. 6, n. 15968 del 08/03/2016, Rv. 266995), secondo cui l’inutilizzabilità degli atti erroneamente inseriti nel fascicolo del dibattimento non è automatica ma consegue alla tempestiva eccezione di parte, da proporre entro il termine previsto dall’art. 491, comma 2, cod. proc. pen., posto che la legge consente l’acquisizione, su accordo delle parti, di atti ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 431, comma 1, cod. proc. pen.
Dunque, non risultando proposta alcuna eccezione nei termini indicati, gli atti erroneamente inseriti nel fascicolo per il dibattimento sono stati ritenuti inutilizzabili, fermo restando che la doglianza risulta comunque generica, non avendo la difesa specificato l’effettiva rilevanza degli atti processuali inseriti indebitamente nel fascicolo per il dibattimento nella complessiva valutazione delle prove che ha portato all’affermazione della colpevolezza dell’imputato, dovendosi evidenziare che, come si evince dallo stesso ricorso (e in particolare dall’esposizione del terzo motivo di ricorso), tra le prove acquisite, a parte gli atti di P.G. oggetto di censura, vi è anche la deposizione del teste di P.G., maresciallo Panico, il quale ha comunque ricostruito i fatti di causa.
In proposito deve dunque richiamarsi l’affermazione costante di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, Rv. 269218, Sez. 3, n. 3207 del 02/10/2014, dep. 2015, Rv. 262011 e Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Rv. 259452), secondo cui nell’ipotesi, come quella in esame, in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti e ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento, prova di resistenza che nel caso di specie non risulta fornita.
      3. Anche il terzo motivo non è meritevole di accoglimento.
La difesa contesta innanzitutto la valenza dimostrativa attribuita dalla Corte di appello alla consulenza della difesa, senza tuttavia considerare che i giudici di secondo grado non hanno ignorato il contributo del consulente della difesa, ma, in ragione delle prove di segno contrario acquisite, lo hanno ritenuto influente, qualificando il relativo elaborato come una “memoria difensiva” nella misura in cui lo scritto si è rivelato privo “di un accettabile substrato tecnico” (pag. 7 della sentenza impugnata), affermazione questa con cui il ricorso non si confronta.
Alla luce degli accertamenti dei CC di Laterza compiuti presso l’impresa Satramet rappresentata dall’imputato, è stata dunque ritenuta comprovata la presenza sia di batterie esauste e in parte deteriorate contenute in cassoni di plastica, sia di molte chiazze di olio minerale percolato su entrambi i piazzali, non essendo stato stata tale ricostruzione smentita dalle deduzioni del consulente tecnico.
Quanto poi all’ulteriore tema del pericolo concreto del danno ambientale, è stato evidenziato che lo stesso doveva ritenersi sussistente, avendo la Corte di appello rilevato in proposito che lo scarico in fognatura bianca delle acque di prima pioggia e di dilavamento, al cui servizio era asservito l’impianto depurativo, poteva essere contaminato dal percolato delle batterie e/o delle altre parti di veicoli non preventivamente messe in sicurezza, non potendo ritenersi tale affermazione manifestamente illogica, posto che la presenza di un impianto depurativo non è di per sé idonea a escludere il pericolo di inquinamento ambientale, laddove l’impianto medesimo sia destinatario di sostanze inquinanti di profondo impatto e comunque differenti da quelle per cui è stato predisposto.
Anche in tal caso le censure difensive risultano pertanto manifestamente infondate, in quanto non adeguatamente specifiche e comunque dirette a sollecitare differenti valutazioni di merito che non sono consentite in sede di legittimità (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601).
        4. Passando al quarto motivo, deve rilevarsi anche il diniego della causa di non punibilità ex art. 131 bis cod. pen. non presta il fianco alle censure difensive.
Al riguardo, occorre innanzitutto richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 55107 dell’08/11/2018, Rv. 274647 e Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678), secondo cui, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell’offesa deve essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133 comma primo cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente anche la sola indicazione di quelli ritenuti rilevanti.
Tanto premesso, deve osservarsi che la Corte di appello non ha riconosciuto la causa di non punibilità invocata dalla difesa, rimarcando, in maniera sintetica ma non illogica (pag. 7 della sentenza impugnata) “la natura permanente del reato in questione e il pericolo di danno ambientale”, il che ha consentito di escludere la ricorrenza delle condizioni per l’applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., per cui anche in tal caso non vi è spazio per l’accoglimento delle obiezioni difensive, che prospettano un differente apprezzamento di merito, non consentito in questa sede a fronte di un apparato motivazionale scevro da profili di irrazionalità.  
     5. Non meritevole di accoglimento è anche il quinto motivo di ricorso.
Premesso che l’art. 256, comma 4, del d. lgs. n. 152 del 2006 prevede una fattispecie autonoma rispetto ai primi tre commi della medesima norma (cfr. in termini Sez. 3, n. 42394 del 28/09/2011, Rv. 251425 e Sez. 3, n. 34543 del 19/05/2017, Rv. 270964), nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni, occorre evidenziare che la sentenza impugnata (pag. 8) ha ragionevolmente ritenuto non applicabile la fattispecie de qua, “trattandosi di gestione di rifiuti per i quali non era stata concessa autorizzazione”, aggiungendo che, per i rifiuti non pericolosi, “la violazione non riguardava solo le prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzativi”, affermazione questa coerente non solo con le acquisizioni probatorie, ma anche con il tenore della imputazione, che evoca le fattispecie di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 256 con una descrizione ampia della condotta, tale da non precludere la valutazione di fatto operata dalla Corte territoriale.
 6. In conclusione, stante la manifesta infondatezza delle doglianze sollevate e in sintonia con le conclusioni del Procuratore generale, il ricorso proposto nell’interesse di Santeramo deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata equitativamente, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende.
     7. Da ultimo, ai sensi dell’art. 619 cod. proc. pen., deve procedersi alla rettifica della specie della pena pecuniaria come rideterminata nella sentenza impugnata: la Corte di appello, infatti, ha ridotto la pena inflitta a Santeramo a “mesi 3 di arresto e 1.600,00 euro di multa”, ma è evidente che la dizione di multa in luogo di ammenda costituisce un mero errore materiale, avendo il reato per cui è stata inflitta la condanna natura di contravvenzione e non di delitto.
La specie della pena pecuniaria deve intendersi quindi ammenda e non multa.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Visto l’art. 619 cod. proc. pen., rettifica la specie della pena pecuniaria, da intendersi ammenda in luogo di multa.
Così deciso il 03/07/2023