Cass. Sez. III n. 9984 del 5 marzo 2008 (Ud. 15 gen. 2008)
Pres. Lupo Est. Petti Ric. Mancini
Acque. Scarichi esistenti

In tema di inquinamento idrico, l\'intervenuta modifica dei termini di adeguamento degli scarichi esistenti, ancorché non autorizzati, introdotta dall\'art. 10 bis D.L. 25 giugno 2003, n. 147 (conv. con modd. nella L. 1 agosto 2003, n. 200) non ha mutato la definizione legislativa di "scarichi esistenti" oggetto di interpretazione autentica ex art. 1, lett. g) L. 18 agosto 2000, n. 258, in quanto la predetta modifica si riferisce ai soli scarichi esistenti alla data del 13 giugno 1999 per i quali l\'obbligo di autorizzazione è stato previsto solo a seguito della nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152.
In fatto
Con sentenza del 4 dicembre del 2006, il tribunale di Ancona, sezione di Fabriano, condannava Mancini Enrico alla pena di euro 6000 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali, quale responsabile del reato di cui all’articolo 59 comma 1 decreto legislativo n. 152 del 1999, per avere effettuato, senza autorizzazione, uno scarico presso il Fosso delle Grazie, di acque reflue industriali provenienti anche dall’autolavaggio degli automezzi. Fatto accertato in Arcevia il 27 febbraio del 2004.
Con la medesima sentenza il tribunale assolveva il prevenuto dal reato di cui all’articolo 635 c.p. per danneggiamento delle acque del Fosso delle Grazie; da quello di cui all’articolo 674 c.p. per versamento di liquidi, costituiti dai reflui industriali anzidetti, nelle acque superficiali del Fosso delle Grazie nonché dal reato di cui all’articolo 51 comma secondo del decreto Ronchi per avere immesso nelle acque superficiali del Fosso delle Grazie rifiuti speciali costituiti dalle acque di autolavaggio dei mezzi., per l’insussistenza dei fatti.
Il tribunale accertava e riteneva, sia pure con una motivazione sintetica, che le acque scaricate nel Fosso delle Grazie erano sia quelle provenienti dal fronte della cava sia quelle derivanti dall’autolavaggio degli automezzi in un’area attrezzata. Precisava che trattavasi di uno scarico nuovo e che la disciplina transitoria prevista dall’articolo 62 comma 11 non era applicabile alla fattispecie ancorché prorogata perché la proroga riguardava l’adeguamento dello scarico e non l’autorizzazione.
Ricorre per cassazione l’imputato per mezzo del proprio difensore deducendo:
- la violazione della norma incriminatrice per la non configurabilità di uno scarico industriale perché le uniche acque che confluivano nel Fosso delle Grazie erano quelle meteoriche di dilavamento dei piazzali della cava;
- la violazione dell’articolo 62 comma 11 del decreto legislativo n. 152 del 1999 in relazione al decreto legge n. 147 del 2003, convertito nella legge 200 del 2003, ed al decreto legge 144 del 2004, convertito nella legge n. 192 del 2004, in quanto il regime di proroga introdotto con le leggi dianzi richiamate si estendeva anche agli scarichi esistenti ancorché non autorizzati;
- la sussistenza della buona fede del prevenuto per errore inevitabile sull’interpretazione della norma incriminatrice: sostiene che la ditta di cui il ricorrente è il legale rappresentante è subentrata nella gestione del sito a decorrere dal giugno del 2003 e si è immediatamente attivata per ottenere tutte le informazioni sullo stato delle autorizzazioni dalla provincia di Ancona.

In diritto
Il ricorso va respinto con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Con riferimento al primo motivo, per una puntuale comprensione dei termini del problema, occorre richiamare la nozione di acque meteoriche di dilavamento, posto che il ricorrente assume che i reflui in questione sarebbero costituiti appunto da tale tipo di acque. Nella normativa in materia di inquinamento idrico e segnatamente nel decreto legislativo n. 152 del 1999, applicabile alla fattispecie ratione temporis, accanto alla definizione di acque reflue industriali ed a quella di acque reflue urbane si faceva riferimento ad una diversa e distinta tipologia di acque e cioè “alle acque meteoriche di dilavamento” (articolo 2 lettera h decreto legislativo n. 152 del 1999, come modificato dal decreto legislativo correttivo n. 258 del 2000), per distinguerle sia da quelle domestiche che industriali. Le acque meteoriche di dilavamento, pur essendo riconducibili ad un fenomeno naturale, possono comunque essere interessate dall’attività antropica in modo importante ed interagire con l’ambiente in modo pesantemente negativo: le stesse, infatti, in relazione al luogo dove si riversano e alle modalità con cui vengono raccolte, trasportano spesso sostanze inquinanti nei corpi recettori.
Le acque meteoriche di dilavamento sono quindi costituite dalle acque piovane che, depositandosi su un suolo impermeabilizzato (possono essere dilavate solo le superfici impermeabilizzate), dilavano le superfici ed attingono indirettamente i corpi recettori. Quando queste vengono in qualsiasi modo convogliate nella rete fognaria, si mischiano con le acque reflue domestiche e/o industriali. Tali acque non erano definite né disciplinate dalla legge Merli, tuttavia, stante il possibile impatto sull’ambiente quando esse interagivano con altri reflui o con contaminanti derivanti dall’attività antropica, la giurisprudenza aveva avuto modo di occuparsene in più riprese, inquadrandole come “scarico” e stabilendone talora la sottoposizione al regime, anche penale, degli scarichi industriali(cfr Cass n. 12186 del 1 999). Tale concetto, che esclude quindi che possano essere considerate “acque meteoriche” quelle in cui sia rilevante la confluenza con altri reflui o commistione con altre sostanze inquinanti provenienti da un insediamento produttivo, è stato affermato anche nel vigore del D.Lgs. 152/1999, ma prima della modifica introdotta dal D.Lgs. 258/2000. Si è infatti ritenuta la sussistenza del reato di cui all’articolo 59 del decreto legislativo n 152 del 1999, qualora i reflui piovani rappresentassero solo una componente dello scarico. Al contrario il reato non stato considerato integrato qualora lo scarico fosse costituito esclusivamente da acque meteoriche, poiché in questo caso veniva a mancare qualsiasi collegamento, sotto forma di diretta derivazione, dal ciclo produttivo di un insediamento commerciale o industriale. In definitiva le acque meteoriche di dilavamento, non erano in se stesse considerate “scarico” nel concetto previsto e delineato formalmente dall’articolo 2 lettera bb) del D.Lgs. n. 152/1999, prima dell’intervento correttivo attuato con il decreto legislativo n. 258 del 2000. Pur tuttavia, se un’acqua meteorica andava a “lavare”, anche se in modo non preordinato e sistematico (quindi discontinuo), un’area soggetta ad attività produttiva anche passiva, e trasportava con sé elementi residuali di tale attività, cessava la natura pura e semplice di acqua meteorica e l’acqua diventava in qualche modo uno scarico vero e proprio e quindi era assoggettata naturalmente alla disciplina degli “scarichi” con la conseguente necessità dell’autorizzazione. In tal caso, infatti, l’acqua perdeva la caratteristica unica ed esclusiva di acqua meteorica ed andava a fondersi con gli elementi reflui (sistematici o episodici) dell’azienda, fungendo da vettore improprio per la convogliabilità diretta verso il corpo ricettore.
Con le correzioni apportate al decreto legislativo n. 152 del 1999 per mezzo del decreto legislativo n. 258 del 2000 è cambiata la nozione di scarico che è stata limitata a qualsiasi immissione diretta di acque reflue tramite condotta o comunque convogliabili per mezzo di una canalizzazione (art. 2 lettera bb del decreto legislativo n. 152 del 1999) ed è stata altresì puntualizzata con l’articolo 39 la disciplina delle acque meteoriche. Di conseguenza è stato abbandonato l’ampio concetto di scarico presupposto dalla legge 10 maggio del 1976 n. 319 che comprendeva scarichi di ogni tipo, diretto o indiretto e quindi anche occasionali. A seguito di tale modificazione non costituisce più scarico diretto che richiede la previa autorizzazione quello che non convoglia acque reflue tramite condotta o comunque tramite un sistema stabile di deflusso anche se non necessariamente costituito da tubazioni .A seguito delle modificazioni apportate all’articolo 39 il legislatore ha devoluto alle Regioni il compito di disciplinare le forme di controllo degli scarichi delle acque meteoriche (comma 1 lettera a dell’articolo 39) e quello di indicare i casi in cui possono essere imposte particolari prescrizioni per le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento effettuate tramite altre condotte separate (comma 1 lettera b) ovvero per le acque di prima pioggia o di lavaggio qualora vi sia rischio per l’ambiente (comma 3). Nello stesso tempo il legislatore ha vietato comunque lo scarico e l’immissione diretta di acque meteoriche nelle acque sotterranee (comma 4), specificando tuttavia che il divieto generale di scarico sul suolo o negli strati superficiali del sottosuolo non si applica agli “scarichi di acque meteoriche convogliate in reti fognarie separate” (art. 29 comma 1 lettera e). In ogni caso le acque meteoriche che non rientravano nella regolamentazione regionale non erano soggette ai vincoli ed alle prescrizioni del decreto legislativo n. 152 del 1999. In tale situazione le acque meteoriche di dilavamento, se non erano canalizzate, non avevano la natura di scarico per il quale era prevista l’autorizzazione penalmente sanzionata, ma potevano essere sottoposte alle norme sui rifiuti allorché con il dilavamento delle superfici su cui cadevano producessero rifiuti liquidi.
Attualmente la disciplina delle acque meteoriche di dilavamento è interamente contenuta nell’art. 113 del D.Lgs. 152/2006, il quale riproduce sostanzialmente il contenuto dell’art. 39 del D.Lgs. 152/1999, come modificato dal D.Lgs. n. 258/2000.
L’art. 2 del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152 (come modificato dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258), distingueva - a sua volta - le acque reflue in “domestiche”, industriali ed “urbane”, inquadrando le stesse secondo la loro tipologia qualitativa piuttosto che in relazione alla natura dell’attività esercitata nell’insediamento di provenienza. Tale articolo definiva:
- “acque reflue domestiche” quelle provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche;
- “acque reflue industriali” quelle, di qualsiasi tipo, scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgevano attività commerciali (anche produttive di servizi) o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento.
Entrambe le tipologie di reflui potevano derivare, dunque, da attività di servizi, sicché l’elemento determinante di distinzione, più che nella natura dell’attività dal cui ambito fuoriusciva lo scarico, andava individuato nella derivazione prevalente delle acque reflue dal metabolismo umano e da attività domestiche o da attività industriali.
Pertanto nella nozione di “acque reflue industriali” - anche dopo le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 258/2000 - rilevava la diversità del refluo rispetto alle acque domestiche e perciò in essa rientravano, in definitiva, tutti i reflui derivanti da attività che non riguardavano strettamente la coabitazione e la convivenza di persone. Risultava così confermata l’interpretazione consolidata, nella giurisprudenza di questa Corte, in relazione alle previsioni della legge n. 319/1976 (cfr Cass., Sez. III. 15 novembre 1999, rie. Podella e 16 giugno 1999, n. 225, Giantin) e tale interpretazione valeva pure per le acque reflue provenienti da attività artigianali e da attività di prestazione di servizi (cfr, per le lavanderie, Cass., Sez. III, 15 gehnnaio 2001, n. 248, rie. P.M. in proc. Giovannelli; per gli impianti di autolavaggio, Cass. n. 21004 del 2003, P.M. in proc. Panizza; Cass., Sez. III, 3 maggio 2000, n. 1709, rie. Bontempi; Cass. sez III n. 985 del 2004, Manziano; per le officine meccaniche, Cass., Sez. Un: 17 gennaio 2001, n. 324, rie. Ciccottelli ed altro e 17 gennaio 2001, n. 338, ric. Padovani ed altri).
La disciplina delle acque reflue industriali dianzi richiamata non è cambiata a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 152 del 2006. Tuttavia, per quanto rileva nella fattispecie, deve essere segnalata al riguardo una importante modifica introdotta con la nuova definizione di acqua reflua industriale dall’art. 74 lettera h) del D.Lgs. 152/2006. Mentre infatti nel regime del D.Lgs. 152/1999 le acque di dilavamento sembravano apparentemente escluse dalla nozione di scarico anche ove si trattasse di acque che avessero raccolto sostanze inquinanti provenenti da insediamenti industriali, la nuova disciplina ridefinisce la acque reflue industriali come “qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello stabilimento”. La nuova definizione, come la precedente, esclude dalle acque reflue industriali quelle meteoriche di dilavamento, precisando però che devono intendersi per tali anche quelle contaminate da sostanze o materiali non connessi con quelli impiegati nello stabilimento. Sembrerebbe perciò che quando le acque meteoriche siano, invece, contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento, non debbano più essere considerate come “acque meteoriche di dilavamento”, con la conseguenza che dovrebbero essere considerate reflui industriali. In particolare, mentre in precedenza appariva evidente l’intento del legislatore di espungere il più possibile dal D.Lgs. 152/1999 le acque meteoriche in mancanza di apposita disciplina regionale e, stante il chiaro tenore letterale della norma, non pareva più possibile l’equiparazione delle acque di dilavamento (seppure contaminate) delle aree esterne di un’azienda alle acque industriali, con il D.Lgs. 152/2006 le acque di dilavamento contaminate dall’attività produttiva tipica dell’insediamento da cui provengono sembrano doversi ritenere assimilate a quelle industriali, e quindi soggette al relativo regime normativo. Inoltre con il decreto legislativo n. 152 del 2006 sono state modificate sia la definizione di scarico che quella d’inquinamento. Per quanto concerne la definizione di scarico è stato eliminato il riferimento alla “immissione diretta tramite condotta” (cfr art. 74 lettere ff decreto legislativo n. 152 del 2006).
Questo collegio, nonostante il mancato riferimento nella definizione di scarico all’immissione tramite condotta e nonostante qualche imprecisione terminologica, ritiene che si possa escludere un ritorno allo scarico indiretto che era previsto dall’articolo 1 lettera a) della legge Merli, articolo che non è stato riproposto nel decreto legislativo n. 152 del 2006. Quindi, anche in base al citato decreto legislativo, per scarico si deve intendere l’immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema di canalizzazione. Tale interpretazione, prospettata anche dalla dottrina, si impone per evitare i contrasti e le incertezze sorte in passato sulla nozione di scarico.
Alla stregua delle considerazioni sopra svolte deve essere ribadita la configurabilità del reato. Invero nella fattispecie non si dubita dell’esistenza di una canalizzazione che convogliava le acque nel Fosso delle Grazie. Il ricorrente ha escluso la configurabilità del reato, non per la mancanza di una canalizzazione (se fosse mancata la canalizzazione sarebbe stato configurabile il reato di abbandono di rifiuti di cui all’articolo 51 del decreto Ronchi poiché questo rappresentava all’epoca del fatto la disciplina generale in materia di rifiuti sia liquidi che solidi), ma perché ha ritenuto che le acque immesse nel Fosso delle Grazie fossero acque meteoriche di dilavamento e non reflui industriali. Invece dalla sentenza impugnata risulta che erano immesse nel canale non solo le acque meteoriche che dilavavano i materiali lapidei trasportando terriccio, ma anche quelle provenenti dall’autolavaggio degli automezzi in un’area attrezzata e per queste ultime non sussistono dubbi, per la consolidata giurisprudenza di questa sezione sopra richiamata, in ordine all’inclusione nelle acque reflue industriali. D’altra parte lo stesso ricorrente ammette e riconosce, sia pure in maniera riduttiva, che venivano lavati i pneumatici degli automezzi.
Per quanto concerne il secondo motivo, si rileva che secondo la costante giurisprudenza di questa corte per scarico nuovo si deve intendere anche quello già esistente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 152 del 1999, ma non in regola con l’autorizzazione prevista dalla previgente normativa (cfr Cass. sez. III n. 2230 del 2006, Cass. sez.. 3^ 16 febbraio 2000 n. 1774, Scaramazza rv. 215610), in quanto la disciplina transitoria di cui all’art. 62 undicesimo comma d.l.vo n. 152 del 1999 e successive modificazioni si applica solo agli scarichi esistenti autorizzati.
Infatti “scarichi esistenti” secondo l’interpretazione autentica data dal legislatore con l’articolo 1 lettera g) del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 258, sono quelli di acque reflue urbane “che alla data del 13 giugno 1999 sono in esercizio e conformi al regime autorizzativo previgente ovvero gli scarichi di acque reflue domestiche che alla data del 13 giugno 1999 sono in esercizio e conformi al regime autorizzativo previgente; gli scarichi di acque reflue industriali che alla data del 13 giugno 1999 sono in esercizio e già autorizzati”.
La disciplina, a parere del collegio, non è mutata neppure dopo l’intervenuta modifica dei termini di adeguamento, di cui all’art. 62 undicesimo comma d.l.vo n 152 del 1999, operata dall’art. 10 bis della legge di conversione n. 200 del 2003 del d.l. n. 147 del 2003 recante “proroga di termini e disposizioni urgenti ordinamentali”. Infatti, la dizione dell’art. 10 bis cit., secondo cui “i termini di cui all’art. 62 comma 11, del decreto legislativo 11 maggio 1999 n. 152, relativo agli scarichi esistenti, ancorché non autorizzati, (sottolineatura dell’estensore) sono differiti fino ad un anno a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” (cioè fino al 3 agosto 2004) non ha fatto venir meno la definizione legislativa degli scarichi esistenti su descritta. Invero la proroga del termine di “adeguamento degli scarichi esistenti” disposta con l’articolo 10 bis dianzi citato deve essere intesa come l’espressione sintetica di una pluralità di situazioni, sicché l’inciso “ancorché non autorizzati” non si riferisce in maniera indiscriminata a tutti gli scarichi , ma riguarda quelli esistenti il 13 giugno 1999, ma non autorizzati, in quanto per essi l’obbligo di autorizzazione è stato introdotto solo successivamente in virtù della nuova disciplina predisposta dal d.l.vo n. 152 del 1999. Invero l’articolo 62 comma 11, come risulta dal tenore letterale della norma, riguardava esplicitamente anche gli scarichi per i quali l’obbligo di autorizzazione preventiva era stato introdotto dal decreto legislativo n. 152 del 1999.
Tale interpretazione prospettata dalla dottrina e recepita da questa corte a partire dalla decisione n. 985 del 2004, deve essere ribadita, perché, in tema di eccezioni ad una regola generale, non è possibile fornire un’interpretazione estensiva, ma occorre preferirne una restrittiva. Peraltro, in assenza di un’abrogazione espressa della nozione di scarico esistente di cui all’art. 2 lett. cc- bis) del d.l.vo n. 152 del 1999, non è possibile attribuire ad una disposizione con un contenuto specifico e limitato la possibilità di introdurre un’abrogazione implicita.
Infondato è anche il terzo motivo. Alla stregua della sentenza costituzionale n. 364 del 1988, l’errore sul precetto è inevitabile nei casi di impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato. Tale situazione deve ritenersi sussistente per il cittadino comune, specialmente se sfornito di specifiche competenze, allorché egli abbia assolto il dovere di conoscenza con l’ordinaria diligenza attraverso la corretta utilizzazione dei mezzi di informazione, d’indagine e di ricerca dei quali disponga. Non ricorre invece nell’ipotesi di colui il quale esercita professionalmente una determinata attività perché questi ha uno specifico dovere d’informazione particolarmente rigoroso, tanto che risponde anche in caso di culpa levis nello svolgimento della sua attività.