Consiglio di Stato Sez. IV n. 7072 del 19 luglio 2023
Rifiuti.Obbligo di bonifica e messa in sicurezza

La impossibilità di individuare il responsabile della contaminazione di un sito non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi  e ciò vale sia con riferimento agli obblighi di bonifica che con riguardo alle misure di messa in sicurezza di emergenza .



Pubblicato il 19/07/2023

N. 07072/2023REG.PROV.COLL.

N. 00375/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 375 del 2017, proposto da Delta S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Claudio Baleani e Andrea Calzolaio, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Luigi Medugno in Roma, via Panama 58;

contro

Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero della Salute, Ministero dello Sviluppo Economico, Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Regione Marche, Azienda Sanitaria Regionale Unica delle Marche - Asur Marche, Provincia di Macerata, Arpam - Dipartimento Provinciale di Macerata, Comune di Civitanova Marche, Comune di Montecosaro, Comune di Morrovalle, non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) n. 00344/2016, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, del Ministero della Salute, del Ministero dello Sviluppo Economico e di Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2023 il Cons. Luca Monteferrante e uditi per le parti gli avvocati presenti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con ricorso al T.a.r. per le Marche Delta s.p.a. ha chiesto l’annullamento dei provvedimenti ivi in epigrafe specificati, nella parte in cui le hanno prescritto la messa in sicurezza d’emergenza (MISE) e la successiva bonifica, dei terreni di competenza e della falda, nell’ambito delle operazioni generali di bonifica del sito di interesse nazionale del Basso Bacino Fiume Chienti, identificato con D.M. 18.9.2001 n. 468 e successivamente perimetrato con D.M. 26.2.2003.

L’area del sito di interesse nazionale del Basso Bacino Fiume Chienti “… è interessata dalla presenza di numerose aziende del settore calzaturiero, che utilizzano composti organoalogenati per il lavaggio di fondi di calzature in poliuretano. I rifiuti di tali processi, classificati come pericolosi, sono stati sversati sul suolo, nel sottosuolo e nelle acque di falda attraverso pozzi. Gli inquinanti, costituiti prevalentemente da tricloroetano, tricloroetilene e tetracloroetilene, hanno contaminato una vasta area in sinistra idrografica del fiume Chienti, avente un'ampiezza attorno ai 10 km2 (Comuni di Civitanova Marche, Montecosaro, Morrovalle), un'area più limitata in destra idrografica, limitatamente agli ultimi 2 km della foce del fiume (Comune di Porto Sant'Elpidio) ed un'area più ristretta, la cui estensione è da definire, in destra idrografica del fiume (Comune di Sant'Elpidio a Mare)” (cfr. All. E al DM 18.9.2001 n. 468).

In particolare la ricorrente ha contestato le decisioni delle conferenze di servizi che impongono, al proprietario dell’area, interventi di MISE e di bonifica, senza adeguata istruttoria volta ad individuare il responsabile e la provenienza dell’inquinamento che, nel caso specifico, è di tipo diffuso e risalente agli anni 70, pertanto, a suo dire, non imputabile agli attuali operatori economici.

Il T.a.r. per le Marche con sentenza n. 344 del 2016 ha respinto il ricorso ritenendo sufficientemente provato il nesso di causalità con l’attività svolta dalla appellante.

La Delta s.p.a. ha interposto appello avvero la predetta sentenza, chiedendone la riforma.

Si sono costituiti in giudizio i Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, del Ministero della Salute, del Ministero dello Sviluppo Economico, di Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale per resistere all’appello, chiedendone la reiezione.

Alla udienza pubblica del 2 febbraio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

La Delta s.p.a. impugna la sentenza del T.a.r. per le Marche nella parte in cui ha ritenuto legittima la prescrizione impositiva della messa in sicurezza in emergenza e la successiva bonifica disposta con gli atti impugnati in primo grado.

Il T.a.r., prendendo le mosse dalla giurisprudenza comunitaria e, segnatamente, dalla sentenza della Corte di giustizia UE, sezione III del 4.3.2015, ha ritenuto legittimi i provvedimenti impugnati ritenendo comprovato il concorso nella causazione dell’inquinamento della appellante che, al contrario, in presenza di un inquinamento diffuso e storicamente risalente, eccepisce che non vi sarebbe prova del proprio contributo causale.

Al riguardo il T.a.r. ha ritenuto che “La stessa conferenza prende poi atto che le indagini sui suoli hanno evidenziato contaminazione da 1,1 dicloroetilene, mentre sulle acque hanno evidenziato un grave stato di inquinamento della falda per riscontrata contaminazione da ferro, mercurio, piombo, benzene, para-xilene, sommatoria organici aromatici, tricloroetano, cloruro di vinile, 1,2 dicloroetano, 1,1 dicloroetilene, tricoloroetilene, tetracoloroetilene, sommatoria organo alogenati, 1,1 dicloroetano, 1,2 dicloropropano, 1,1,2 tricloroetano. 1,2,3 tricloropropano, 1,1,2,2 tetracloroetano (cfr. pag. 67 cit.).

Va inoltre ricordato che nelle pagg. 20-21 del verbale della conferenza di servizi del 27.12.2007 si richiamano le segnalazioni APAT e ARPAM che individuano il sito della ricorrente come “potenziale sorgente di contaminazione”, nonché i risultati delle analisi di superamento dei valori di concentrazione limite che giustificano la MISE.”.

Con un primo motivo l’appellante deduce la erroneità e la contraddittorietà della sentenza atteso che gli accertamenti eseguiti sarebbero incompleti e mancherebbe un riscontro motivazionale alle giustificazioni introdotte in sede istruttoria e agli elementi che si traggono dalla stessa Conferenza di servizi del 2008 e dal piano di caratterizzazione, sussistendo pertanto il dedotto vizio di eccesso di potere articolato con il ricorso di primo grado.

Osserva al riguardo che:

- moltissimi degli inquinanti rintracciati (ferro, mercurio, piombo, benzene, para-xilene, clororuro di vinile e propano) in falda non sono afferenti all’attività di Delta s.p.a., né sono mai stati utilizzati dalla ricorrente, né hanno alcuna utilità industriale. Dunque, questi inquinanti non rientrano in un quadro di consequenzialità con l’attività di Delta s.p.a.; solo il dicloroetilene sarebbe compatibile con il ciclo di produzione ma, essendo stato rinvenuto a monte e a valle del sito della appellante, non potrebbe essere riferito ad attività inquinanti di Delta s.p.a. che non potrebbe esserne la fonte;

- quanto precede troverebbe ulteriore conferma in una rilevante circostanza sopravvenuta rappresentata dalla sentenza della Corte d’Appello di Ancona n. 1632 pubblicata il 23.12.2016, che ha deciso l’appello proposto dai soccombenti avverso la sentenza del Tribunale di Macerata n. 699/2009 con la quale alcune imprese, tra cui Delta s.p.a., erano state condannate al pagamento dei danni diretti, di immagine e morale verso enti pubblici territoriali per danno ambientale. Le conclusioni della CTU disposta nel corso di quel giudizio e fatte proprie dal collegio sarebbero, per l’appunto, nel senso della impossibilità di riferire la responsabilità dell’inquinamento alle imprese convenute, in mancanza di verifiche istruttorie puntuali e ciò anche in ragione del carattere risalente e diffuso dell’inquinamento.

Reputa il collegio che il motivo sia fondato.

In via preliminare va rammentato che, per principio generale, il giudice può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse e anche altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trarne non solo semplici indizi o elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore di prova esclusiva, il che vale anche per una perizia svolta in sede penale o una consulenza tecnica svolta in altre sedi civili (Cass. 8585/1999; Cass. 15714/2010; Cass. 9843/2014; Cass. n. 9242 del 6 maggio 2016); pertanto le risultanze del processo civile possono essere assunte quali prove dei fatti opposti dalla appellante nel presente giudizio come impeditivi del preteso contributo causale all’inquinamento affermato invece in sede amministrativa.

In secondo luogo deve evidenziarsi che nessuna contestazione, ex art. 64, comma 2, c.p.a., circa le risultanze della CTU è stata mossa dalle amministrazioni pubbliche costituite nel presente giudizio.

Tanto premesso reputa il collegio che quanto evidenziato dal CTU nell’ambito del giudizio civile definito con sentenza della Corte d’Appello di Ancona n. 1632 pubblicata il 23.12.2016 confermi la fondatezza delle critiche mosse dall’appellante circa le carenze dell’istruttoria posta a fondamento dei provvedimenti impugnati in primo grado e sia idoneo ad escludere, effettivamente, con ragionevole probabilità, la sussistenza del nesso causale tra la condotta della odierna appellante e l’inquinamento per cui è causa.

In particolare il CTU ha osservato che “Allo stato attuale nei siti aziendali che all'epoca hanno avuto una contaminazione da 111-tricloroetano, non viene più riscontrata la presenza di tale sostanza né sul suolo-sottosuolo, ne nelle acque di falda. Con i dati reperiti nel periodo, non sono in grado di stabilire le specifiche responsabilità da attribuire alle ditte incriminate. I dati non permettono di attribuire specificatamente la quantità del danno. Alla data di accertamento dei fatti, nell'anno 1991, non sono state fatte indagini mirate ed accurate tali da poter definire l'estensione della contaminazione, (da notare che la falda acquifera del basso Fiume Chienti è lunga 11 Km e larga 4 Km), le possibili sorgenti primarie nonché risalire agli sversamenti accidentali avvenuti sul suolo-sottosuolo all'interno dei siti aziendali e comparti lavorativi.

I componenti del ciclo produttivo non sono stati mai trovati e/o cercati, come risulta dalla relazione su indicata. L'inquinamento allo stato in cui sono riferiti i fatti, agli atti, non è possibile ricondurlo specificatamente ad aziende oggetto del quesito, come non è possibile attribuirlo con certezza ad altre. All'epoca non sono state fatte indagini mirate di quel tessuto produttivo, ci si è limitato a mappare l'esistente di quel periodo, analizzando l'acqua dei pozzi. Tutto era incentrato a verificare la potabilità delle acque. Si ribadisce pertanto che la contaminazione così diffusa non può essere di qualche anno, ma di oltre un decennio, anche tenendo conto che il movimento dell'acqua di falda, da studi fatti si quantifica in circa 700 metri ogni anno, pertanto è molto lento.”.

Ha aggiunto che “Risulta evidente che all'epoca le indagini sono state effettuate per rilevare l'111tricloroetano nei pozzi all'interno e all'esterno dei siti aziendali; con tali dati non è possibile risalire alla potenziale sorgente di contaminazione (es. sversamenti accidentali, rilascio di sostanze inquinanti dagli scarichi aziendali etc) e quindi definire in modo dettagliato un modello concettuale che definisca come sia avvenuto l'inquinamento di tutte le matrici ambientali eventualmente coinvolte.”.

E ancora che “Come accennato l'uso di questo prodotto può risalire alla fine degli anni 70. Da quanto già detto si ha una idea della grande difficoltà di attribuzione dell'inquinamento ai vari opifici che si sono succeduti nel tempo. Le suole in poliuretano venivano prodotte e lavorate da una miriade di terzisti, che, probabilmente operavano al di fuori di ogni regolamento, con tutto ciò che ne consegue.

Un inquinamento così diffuso e capillare non può essere dimostrato attribuendolo a misure della quantità di 111- tricloroetano nei pozzi siti a monte e a valle della aziende superstiti, perché il fatto, così come è descritto, è molto riduttivo dell'entità del fenomeno….. Queste analisi eseguite dai pozzi idrici che attingono nella falda sotterranea contenevano 111-tricloroetano; si doveva analizzare se quest'ultimo era commisto a residui degli altri prodotti di lavorazione come gli oli siliconici etc.; di questi residui di lavorazione non c'è traccia perché, non sono stati analizzati a suo tempo.…….. non si può affermare che vi sia stato sversamento di 111-tricloroetano all'interno dei siti aziendali perché non sono state effettuate le analisi ché lo attesterebbero. Come detto anche in precedenza i monitoraggi e le analisi chimiche sono state effettuate solamente prelevando acqua sotterranea dai

pozzi idrici e piezometri, ma non sono mai stati ricercati i parametri dei contaminanti nella matrice ambientale suolo-sottosuolo all'epoca dei fatti”.

Da quanto precede discende che non è possibile attribuire una specifica responsabilità all’odierna appellante, cui sono state imposte le misure di messa in sicurezza e di bonifica, sia per il carattere diffuso dell’inquinamento, sia perché la contaminazione è avvenuta in un lasso di tempo molto esteso e soprattutto perché gli accertamenti condotti – finalizzati essenzialmente a monitorare la potabilità delle acque – si sono rivelati inidonei ad individuare la potenziale sorgente di contaminazione e quindi a stabilire a chi fosse imputabile l’inquinamento nei termini causali prescritti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE.

Ne discende che, stante la impossibilità riferita dal CTU di individuare il responsabile della contaminazione del sito, avvalorata delle incongruenze istruttorie evidenziate dall’appellante e rimaste incontestate, l’autorità competente non poteva imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi (così Corte di giustizia UE, Sez. III, del 4.3.2015, causa C-534/13 e Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza, 25 settembre 2013, n. 21 nonché Cass. civ., sez. un., 1 febbraio 2023, n. 3077) e ciò vale sia con riferimento agli obblighi di bonifica che con riguardo alle misure di messa in sicurezza di emergenza (Cass. civ., sez. un., 1 febbraio 2023, n. 3077).

Stante il carattere dirimente della doglianza relativa alla mancanza di prova circa il nesso di causalità, può disporsi l’assorbimento dei restanti motivi di appello con cui l’appellante ha dedotto:

- in presenza di un inquinamento diffuso, risalente ad oltre quarant’anni prima della adozione dei provvedimenti impugnati non sarebbe possibile attribuire la responsabilità agli odierni operatori in mancanza di prova circa il loro contributo causale diretto a fronte di una molteplicità di fattori inquinanti (Violazione del d. lgs. n. 152/2006, artt. 240 comma 1 lett. r), 242, comma 4, e ss., 244, 245 co. 2, 303 comma 1, lett. h), 253, dell’art. 2, comma 1, lett. j) del D.M. n. 471/1999, dell’art. 17 del d. lgs. n. 22/97. Violazione dei relativi principi di diritto ed eccesso di potere sotto molteplici profili. Violazione dei principi ravvisati da Corte di giustizia UE, sez. III, del 4.3.2015).

- il progetto preliminare di bonifica generale, oggetto di un accordo tra enti locali, non terrebbe conto delle opere di bonifica in atto, sarebbe fondato su una caratterizzazione delle aree insufficiente e incompleta che coinvolge una esigua minoranza dei siti, non rende chiara la sua effettiva estensione, né il grado di integrazione e di complementarietà con tutte o alcune delle bonifiche che il MATT aveva preteso di imporre, come confermato dalla circostanza che in altri simili contenziosi il T.a.r. ha accolto i ricorsi annullando l’ordine di bonifica.

- la erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che le prove degli inquinanti sarebbero sussistenti nonostante le lacune dell’attività istruttoria.

- violazione di legge ex art. 58 del d. lgs n. 152/99, violazione della legge n. 36/1994, violazione dei relativi principi di diritto – eccesso di potere sotto molteplici profili –proprietà pubblica delle acque di falda: lamenta la omessa pronuncia del T.a.r. in merito alla doglianza relativa al fatto che la proprietà delle acque sotterranee di falda appartiene allo Stato e non ai privati e, trattandosi di proprietà pubblica, il proprietario privato dei suoli non potrebbe essere onerato delle spese di bonifica della falda.

- violazione di legge ex artt. 240 comma, 1 lett. m) del d. lgs. n. 152/2006 e dell’art. 2 del DM 471/99, violazione dei relativi principi di diritto, eccesso di potere sotto molteplici profili – travisamento ed erronea applicazione della disciplina della messa in sicurezza di emergenza (mise): lamenta che nel caso di specie non sussistono i presupposti per disporre la MISE anche perché non ricorrono fenomeni repentini di inquinamento, stante la presenza di inquinanti già diffusi. Le misure imposte, dunque, non sarebbero volte al contenimento di fenomeni di inquinamento improvvisi - peraltro se non impossibile assai difficile per le acque sotterrane - ma ad una bonifica “mascherata” vera e propria. Ciò sarebbe confermato dalla prescrizione dell’impiego delle barriere idrauliche che rappresenta una tecnica di bonifica non di contenimento in emergenza.

- violazione dell’art. 240 lett. b ) - c ) – f) e 242 del d. lgs. n. 152/2006 e dei relativi principi di diritto – eccesso di potere per travisamento dei presupposti e per contraddittorietà, illogicità, difetto assoluto di istruttoria e di motivazione, sviamento – soglie di contaminazione e di rischio (CSC e CSR): nel caso di specie la MISE sarebbe illegittima in quanto sarebbe stata disposta sebbene non risulti l’accertamento del superamento della soglia CSR, quella cioè che consente di definire un sito come contaminato.

Accertata la fondatezza del primo motivo di appello ed assorbite le restanti doglianze, l’appello va dunque scrutinato favorevolmente e, previa riforma della sentenza appellata, il ricorso di primo grado va accolto, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati nella parte in cui hanno posto a carico della appellante obblighi di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica.

Le spese di lite del doppio grado possono essere compensate in ragione della complessità della vicenda.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado e annulla gli atti impugnati nei sensi e nei limiti di cui in motivazione.

Compensa le spese di lite del doppio grado tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati:

Luigi Carbone, Presidente

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Luca Lamberti, Consigliere

Francesco Gambato Spisani, Consigliere

Luca Monteferrante, Consigliere, Estensore