Sulla percentuale di territorio agro-silvo-pastorale di ogni regione destinato a protezione della fauna selvatica, ex Legge 11 febbraio 1992, n. 157 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”, articolo 10 comma 3.

di Fulvio ALBANESE


La Legge 11 febbraio 1992, n. 157 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” recepisce ed attua:
La Convenzione di Parigi del 18 ottobre 1950, introdotta nel nostro ordinamento con legge 24 novembre 1978, n. 812, con la quale si dispone la protezione per tutte le specie di uccelli selvatici almeno durante il loro periodo di riproduzione e di migrazione, e durante tutto l'anno per le specie minacciate di estinzione o d’interesse scientifico.
La Convenzione di Berna del 19 settembre 1979, ratificata e resa operativa con legge 5 agosto 1981, n. 503, che riconosce il ruolo importantissimo della conservazione degli habitat naturali, quali elementi essenziali per la protezione e la preservazione della flora e della fauna selvatiche, e per il mantenimento degli equilibri biologici.
Le direttive 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979, 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE della Commissione del 6 marzo 1991, concernenti la conservazione degli uccelli selvatici.

Partendo da queste norme fondamentali, la legge 157/1992 stabilisce perentoriamente che: “la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell'interesse della comunità nazionale ed internazionale”. Un principio cardine che non può essere sottovalutato o ignorato, dal quale si evince l’aspetto innovativo rispetto alla precedente legge 968/1977 e che ci porta a condividere la tesi di Stefano Maglia: “Lo Stato può derogare a tale principio nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge rilasciando al cacciatore una concessione (la cosiddetta licenza di caccia) al fine di abbattere esclusivamente le specie elencate nei periodi, orari, mezzi stabiliti dalla legge stessa. Ne consegue l’inesistenza in Italia, di un diritto alla caccia: l’esercizio dell’attività venatoria concreta solamente un interesse del cacciatore a non vedersi negato il rilascio della licenza di caccia nel caso in cui possieda tutti i requisiti richiesti dalla legge”.(Corso di Diritto ambientale, ed. La Tribuna 2005 pag. 358). Ulteriore conferma la troviamo nella legge stessa che prescrive: l'esercizio dell'attività venatoria è consentito purchè non contrasti con l'esigenza di conservazione della fauna selvatica.

Naturalmente la tutela della fauna selvatica non può prescindere dalla tutela degli habitat naturali, individuati come ambienti dove le specie migratrici possono sostare, riprodursi ed allevare tranquillamente la loro prole, e la fauna selvatica autoctona ricostituirsi in modo soddisfaciente, come statuito dalla Consulta con due importanti sentenze: “L’ambiente comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali, la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale”, (Corte Cost. Sent. n. 210/1987), “La protezione dell’ambiente come habitat naturale, deriva anzitutto da precetti costituzionali (articoli 9 e 32) per cui assurge a valore primario ed assoluto.” (Corte Cost. sent. n. 641/1987), nelle quali il valore “ambiente” all’interno del quale è compresa la tutela degli habitat naturali, viene elevato a rango costituzionale (ancor prima della modifica dell’articolo 117 della Costituzione, avvenuta ad ottobre 2001).

E’ importante sottolineare che i principi e gli obiettivi contenuti nella legge 157/1992 che tendono alla tutela della fauna selvatica, del loro habitat naturale e in generale della biodiversità presente sul continente europeo trovano nel tempo sempre ampia conferma nelle pronuncie della Corte Costituzionale: “Le disposizioni della legge 11 febbraio 1992, n. 157, sono rivolte ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione della fauna selvatica, nonchè all’esigenza di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, (Corte Cost., Sent. nn. 311 del 2003; 391 e 393 del 2005; 313 del 2006), e andando oltre, il giudice delle leggi arriva a statuire l'affievolimento del tradizionale “diritto di caccia”, subordinandolo all'istanza prevalente della conservazione del patrimonio faunistico: “Il fine pubblico primario e prevalente perseguito dalla legge 157/92 (anche in attuazione di obblighi comunitari ed internazionali) consiste nella protezione della fauna, obiettivo prioritario al quale deve subordinarsi e aderire la regolamentazione dell’attività venatoria”.
(Corte Cost. Sentenze nn. 35/1995 e 169/1999).

La legge 157/1992 inoltre demanda alle regioni l’obbligo di emanare norme relative alla tutela e alla gestione della fauna selvatica in conformità alla stessa legge, alle convenzioni internazionali ed alle direttive comunitarie. Nel dettaglio, il legislatore ha previsto l’individuazione da parte delle regioni, di una quota percentuale (dal 20 al 30) di territorio, definito come superficie agro-silvo-pastorale, da destinare a protezione della fauna selvatica, sulla quale è tassativamente vietata la caccia, così come definita dalla Consulta: “l’attività venatoria viene a caratterizzarsi per il tipo di azioni svolte (abbattimento o cattura di animali e attività preparatorie), per l'oggetto cui l'attività in questione risulta diretta (animali da abbattere o catturare appartenenti alla fauna selvatica), nonché per i mezzi destinati allo svolgimento della stessa attività (armi o animali consentiti dalla legge come strumenti di caccia, (Corte Cost. Sent .n. 468/1999). In dette percentuali sono compresi i territori ove sia comunque vietata l'attività venatoria anche per effetto di altre leggi o disposizioni

Ed è in questo passaggio che alcune regioni nel recepire la norma quadro, e in virtù di un presunto diritto alla caccia che come abbiamo visto deve essere comunque considerato totalmente recessivo rispetto alla conservazione del patrimonio faunistico, stravolgono la ratio del legislatore fissando limiti massimi e inderogabili alla quota percentuale di territorio, definito come superficie agro-silvo-pastorale da destinare a protezione della fauna selvatica, e inserendo in detta percentuale aree decisamente inidonee alla sosta e riproduzione della fauna selvatica.
E’ pur vero che su questo secondo punto la Consulta con la Sentenza n. 448 del 1997 legittima nel computo della quota percentuale, l’inserimento di aree vincolate per effetto di leggi o disposizioni che non presentano finalità di tutela ambientale, quali ad esempio: fasce di rispetto stradali o ferroviarie, centri abitati, ecc. ma possiamo oramai considerare questa pronuncia una “svista”, alla luce della giurisprudenza più recente, pressocchè unanime: “La corretta interpretazione dell’art.10, comma 3 citato deve considerarsi quella per cui nelle percentuali di territorio – che la norma fissa tra il 20 e il 30% - da destinare a protezione della fauna selvatica, vadano computate unicamente le aree in cui la caccia è vietata per ragioni di tutela ambientale, dovendosi invece escludere dal computo complessivo della superficie quelle aree come, ad esempio, i centri abitati o le fasce di rispetto stradali o ferroviarie, che si pongono come meramente inidonee allo scopo, e in cui l’attività venatoria è inibita per motivi di sicurezza.” C.d.S. Sez. VI, Sentenza 21 maggio 2002 n. 4972 - T.A.R. Campania Sez. I - 23 ottobre 2001, n. 4639 - T.A.R. Lombardia Sentenza 24 gennaio 2003 n. 46 - T.A.R. Lazio, Sez. I ter - 21 gennaio 2005, n. 500 - T.A.R. Campania, Sez. I - 27 maggio 2005, n. 7269.

Come già detto alcune regioni hanno legiferato stabilendo quote massime di superficie agro-silvo-pastorale interdetta all’attività venatoria, vediamo due esempi:

Regione Lazio L.R. 2 maggio 1995 n. 17
“Norme per la tutela della fauna selvatica e la gestione programmata dell’esercizio venatorio”
Art. 11
(Pianificazione territorio, destinazioni)
1.Il territorio agro-silvo-pastorale della Regione è destinato per una quota non inferiore al 20 per cento e non superiore al 30 per cento a protezione della fauna selvatica, comprendendo tutte le aree ove sia comunque vietata l'attività venatoria anche per effetto di altre leggi o disposizioni. Detta percentuale deve essere calcolata su base provinciale, in misura che i limiti minimi (20 per cento) e massimi (30 per cento) siano rispettati in ciascuna provincia.

Regione Calabria L.R.17 maggio 1996 n. 9
“Norme per la tutela e la gestione della fauna selvatica e l'organizzazione del territorio ai fini della disciplina programmata dell' esercizio venatorio”
Art 5
(Piano faunistico – venatorio)
1.Il territorio agro - silvo - pastorale regionale è soggetto a pianificazione faunistico - venatoria finalizzata, per quanto attiene alle specie carnivore, alla conservazione delle effettive capacità riproduttive delle loro popolazioni e, per le altre specie, al conseguimento delle densità ottimali ed alla loro conservazione, mediante la riqualificazione delle risorse ambientali e la regolamentazione del prelievo venatorio.
2.La Giunta regionale attua la pianificazione di cui al comma 1 mediante il coordinamento dei piani faunistici - venatori provinciali sulla base di criteri di cui l' INFS garantisce l'omogeneità e la congruità e nel rispetto delle seguenti indicazioni:
a) destinare una quota massima del 24 per cento del territorio agro - silvo - pastorale della provincia a protezione della fauna selvatica, comprendendo in essa tutte le aree ove sia comunque vietata l' attività venatoria anche per effetto di altre leggi o disposizioni.

Queste due leggi regionali nel prescrivere quote massime e inderogabili di territorio all’interno del quale è vietata l’attività venatoria, alterano la ratio legis e operano una grave violazione del dettato comunitario e internazionale.
Fortunatamente in sede di applicazione queste norme palesemente illegittime sono state contestate, ed i giudici amministrativi interpretando correttamente i principi della legge 157 hanno prodotto giurisprudenza importante che definisce l’esatta gerarchia degli interessi, (conservazione della fauna selvatica e presunto diritto di caccia che non a caso l’art. 12 della legge in esame sottopone a regime concessorio da parte della stato, e non a regime autorizzatorio) e puntualizza il diverso grado di tutela a cui l’ordinamento li sottopone.

Una delle prime importantissime sentenze è quella del Tar Lazio n. 231 del 20 febbraio 1998 nel ricorso di una Associazione venatoria contro il Ministro dell’Ambiente per l’annullamento del D.P.R. 5 giugno 1995 d’istituzione del Parco Nazionale del Gargano:
(…) “Con il terzo motivo di gravame la parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 comma 3 della legge 11/2/1992 n. 157, dato che con l’istituzione del Parco lo spazio territoriale entro il quale potrebbe esercitarsi l’attività venatoria si ridurrebbe al 35% a fronte del 70% stabilito dallo stesso articolo della citata, costringendo i cacciatori ad operare in ambiti ristrettissimi.
Il motivo è infondato.
Le norme invocate da parte ricorrente (art. 8 legge n. 394 e art. 10 legge n. 157/1992) operano su diversi piani, in via parallela e disgiunta, con la conseguenza che la prima non può ritenersi incisa o limitata dalle prescrizioni della seconda.
D’altra parte la rilevata relazione disgiuntiva delle due norme è di tutta evidenza ove sol si consideri il caso, sia pur a titolo esemplificativo, dell’evenienza che venga individuata come area protetta di rilievo internazionale o statale, l’intero territorio di una Regione da perimetrare per il Parco nazionale: è fuor di luogo che il citato art. 10 sull’attività venatoria non può costituire norma impeditiva all’istituendo Parco nazionale (cfr. Tar Lazio, Sez. II bis Sentenza n. 1093/1995).
Ne consegue che la quota dal 20 al 30 per cento, ex art. 10 della L. 157/92, da destinare a protezione non è definita come quota massima, come invece, esplicitamente avviene al comma 5 dell’art. 10 per la quota massima globale del 15% di territorio da destinare a caccia riservata a gestione e a centri privati di riproduzione della fauna selvatica allo stato naturale, di modo che la ratio legis non può identificarsi nel volere costituire un limite inderogabile al territorio da proteggere ma, piuttosto, qualora non vi siano aree di particolare valore naturalistico o specie comprese tra quelle oggetto di tutela, destinare, comunque, una superficie compresa nei limiti del 20-30 %, alla tutela della fauna." (…)

Il Tar Lazio con questa sentenza interpreta correttamente la filosofia della legge quadro, ed esplicita in modo inequivocabile la volontà del legislatore: la conservazione della fauna selvatica, patrimonio indisponibile dello stato e della comunità internazionale, è la finalità primaria alla quale deve adeguarsi qualsiasi altra attività. Si stabilisce inoltre un principio sostanziale: la quota dal 20 al 30 per cento, ex art. 10 della L. 157/92, da destinare a protezione non può essere definita come quota massima.

Questo autorevole pronunciamento viene ripreso in seguito dal Tar Basilicata, con la Sentenza 30 gennaio 2003 n. 199 nel ricorso di alcune Associazioni venatorie contro il calendario venatorio 2001/2001 e l’ampliamento dell’Oasi di San Giuliano:
(…) "Al fine del decidere appare necessaria una breve ricognizione del quadro normativo di riferimento, costituito dalla legge cornice nazionale 11 febbraio 1992 n. 157 e dalla legge regionale della Basilicata 9 gennaio 1995 n.2. Il suddetto sistema normativo si impernia sui due principi fondamentali: 1. La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell'interesse della comunità nazionale ed internazionale. 2. L'esercizio dell'attività venatoria è consentito purché non contrasti con l'esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole. A tal fine l'art. 10 della legge nazionale introduce lo strumento dei Piani faunistico venatori stabilendo che “tutto il territorio agro silvo pastorale nazionale è soggetto a pianificazione faunistico venatoria finalizzata... al conseguimento della densità ottimale e alla sua conservazione mediante la riqualificazione delle risorse ambientali e la regolamentazione del prelievo venatorio. In particolare, ai sensi del terzo comma dell’art.10, il territorio agro silvo pastorale di ogni Regione è destinato per una quota dal 20 al 30 per cento a protezione della fauna selvatica. In dette percentuali sono compresi i territori ove sia comunque vietata l'attività venatoria anche per effetto di altre leggi o disposizioni nonché, a seguito del richiamo all’ottavo comma, lett. a), b) e c) dello stesso art.10, le oasi di protezione, destinate al rifugio, alla riproduzione ed alla sosta della fauna selvatica, le zone di ripopolamento e cattura, ecc..
La L. reg. Basilicata n.2 del 1995 riproduce pedissequamente le previsioni nazionali, non discostandosi da esse, per quanto attiene alla funzione di pianificazione faunistico venatoria, ma specificando che la quota del 30% sottratta alla caccia è riferita al territorio agro silvo pastorale di ciascuna Provincia. Anche il Legislatore regionale ha individuato nelle oasi zone da sottrarre alla caccia.
(…) Lo stesso giudice delle leggi (14 maggio 1999 n.169) ha affermato che la «L. 11 febbraio 1992 n. 157 …, nel dettare nuove norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio, ha espressamente disposto (art. 1, quarto comma) l'integrale recepimento ed attuazione, “nei modi e nei termini previsti” dalla medesima, delle direttive comunitarie concernenti la conservazione degli uccelli selvatici (79/409/C.E.E. del 2 aprile 1979, 85/411/C.E.E. del 25 luglio 1985 e 91/224/C.E.E. del 6 marzo 1991), con i relativi allegati. Appare da ciò chiaro l'intento del Legislatore nazionale di adeguare all'ordinamento comunitario un quadro di disciplina che, come risulta già dalla sentenza di questa Corte 27 ottobre 1988 n.1002, si è venuto componendo nel tempo sulla base di principi, riconfermati dalla più recente normativa, che sono quelli dell'appartenenza della fauna selvatica al patrimonio dello Stato (art. 1, primo comma, della cit. legge); dell'affievolimento del tradizionale “diritto di caccia”, che viene subordinato all'istanza prevalente della conservazione del patrimonio faunistico e della salvaguardia della produzione agricola (art.1, secondo comma);….».
Ad avviso della Corte costituzionale, dunque, la legge (anche in attuazione di obblighi comunitari e internazionali) si pone come fine pubblico primario e prevalente la protezione della fauna, obiettivo prioritario al quale deve subordinarsi e aderire la regolamentazione dell'attività venatoria. Sulla base di questo principio è legittima la creazione di una riserva naturale a protezione della flora e della fauna in essa esistente anche se ciò sacrifica, in parte (e non completamente), il diritto alla caccia.
Una riprova della correttezza di questo assunto è nella stessa legge quadro sulla caccia n.157 del 1992 che, se da un lato (art.10, terzo comma) limita le aree che possono essere inibite all’esercizio venatorio al 30% del territorio agro silvo pastorale, dall’altro lato (art.21, primo comma, lett. b), nell’indicare i “divieti” opposti ai cacciatori, espressamente esclude «l'esercizio venatorio nei parchi nazionali, nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali conformemente alla legislazione nazionale in materia di parchi e riserve naturali», in tal modo sottintendendo che in nessun caso è comunque consentito cacciare in dette zone. E’ dunque possibile oltrepassare il limite del 30%, ma a condizione che ciò sia giustificato da un’inderogabile esigenza di tutelare specie animali e vegetali protette.
Tale conclusione trova conferma nel testo letterale della norma. Ed invero, la quota di territorio, dal 20 al 30%, prevista dal terzo comma dell'art. 10 L. n.157 del 1992, da destinare a protezione, non è definita come quota massima, come invece esplicitamente previsto dal successivo quinto comma per la quota “massima globale” del 15% di territorio da destinare a caccia riservata a gestione privata e a centri privati di riproduzione della fauna selvatica allo stato naturale. Il combinato disposto dei commi terzo e quinto autorizzano dunque ad affermare che la ratio legis non può identificarsi nel voler costituire un limite inderogabile al territorio da proteggere ma, piuttosto, qualora non vi siano aree di particolare valore naturalistico o specie comprese tra quelle oggetto di tutela, nel destinare, comunque, una superficie compresa nei limiti del 20-30%, alla tutela della fauna (cfr. T.A.R. Lazio, II Sez., 19 febbraio 1998 n.231)".(…)

Il suddetto principio continua a fare giurisprudenza con la sentenza del Tar Calabria sezione II, Sentenza 6 maggio 2005 n. 1168, sul ricorso della Provincia di Reggio Calabria contro la Regione Calabria per l’annullamento della Deliberazione con la quale si individua la: “Perimetrazione del Parco naturale regionale delle Serre”:
(…) "Va tuttavia valutata la censura di violazione delle norme di cui alla L. n. 157 del 1992 e della L.R. n. 9 del 1996 che disciplinano rispettivamente a livello nazionale e regionale le aree destinate alla tutela della fauna selvatica e alla caccia. La censura tenderebbe a dimostrare una sorta di invasione di campo tra due settori dell’attività amministrativa che dovrebbero rimanere separati, quello relativo alla tutela delle aree protette sotto il profilo ambientale e quello relativo alla tutela della fauna selvatica.
Il raccordo tra le due normative è offerto dalla Legge quadro sulle aree protette n. 394 del 1991. Stante l’art. 22 recante la rubrica “norme quadro” non si possono istituire aree protette regionali nel territorio di un parco nazionale o di una riserva naturale statale (comma 5) e nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali regionali l’attività venatoria è vietata, salvo gli eventuali prelievi faunistici ed abbattimenti selettivi necessari per ricomporre squilibri ecologici. La norma prosegue stabilendo che detti prelievi ed abbattimenti devono avvenire in conformità al regolamento del parco o, qualora non esista, come nel caso in esame, alle direttive regionali per iniziativa e sotto la diretta responsabilità e sorveglianza dell’organismo di gestione del Parco e devono essere attuati dal personale da esso dipendente o da persone da esso autorizzate scelte con preferenza tra cacciatori residenti nel territorio del parco. All’art. 12 la Legge quadro stabilisce poi che la tutela dei valori naturali ed ambientali affidata all’Ente parco è perseguita attraverso lo strumento del piano per il parco che deve in particolare disciplinare e) indirizzi e criteri per gli interventi sulla flora, sulla fauna e sull’ambiente naturale in genere.
Risulta di tutta evidenza che il legislatore ha voluto assegnare una priorità alla tutela dell’ambiente rispetto alla tutela della flora e della fauna in esso insediato, come d’altra parte a rigor di logica dovrebbe avvenire, atteso che senza un habitat in cui farli vivere, flora e fauna di certo non proliferano.
Le interferenze tra i due settori sono dunque destinate a comporsi con il piano del parco, che tuttavia nel caso in esame non è ancora stato stilato, mentre è già presente il Piano Faunistico Venatorio Regionale, del quale, proprio nel corso dell’istruttoria per la perimetrazione definitiva del Parco delle Serre, si è rilevato l’errore nel computo della SASP.
(…) La doglianza che la perimetrazione del Parco delle Serre vada ad influire in maniera deteriore sulla percentuale di cacciatori per ettaro nella Provincia di Reggio Calabria, avendo ricompreso nel suo territorio anche i Comuni reggini di Bivongi e di Stilo al momento appare priva di una sua tangibile consistenza, poiché il provvedimento di perimetrazione del Parco non ha intaccato l’indice di densità venatoria determinato dal Piano Faunistico, né avrebbe potuto farlo, mancando ad esso la natura di strumento pianificatorio, unico mezzo atto ad incidere su situazioni preesistenti con l’imposizione di vincoli, che allo stato costituiscono soltanto un indirizzo per la futura attività pianificatoria dell’organismo di gestione del Parco.
Per effetto di tali osservazioni viene meno anche la censura di eccesso di potere per contraddittorietà legata alla affermazioni regionali circa la superabilità o meno del limite della SASP, che sarebbero contenute nella delibera giuntale n. 965 del 2003. Il limite del 26% della Superficie agro-silvo-pastorale è insuperabile, ma nel senso che esso è determinato da una norma e che quindi va rispettato, la delibera non lo viola, non avendo essa alcuna efficacia dispositiva in ordine a tale materia, essendosi piuttosto limitata a rilevare un errore nel calcolo della SASP che dovrà essere eliminato o rettificato in sede di revisione del Piano Faunistico.
E comunque non può non condividersi quanto riportato nella delibera n. 965 del 2003 con riferimento alla sentenza del TAR del Lazio, sez. II bis n. 231 del 19 febbraio 1998 che, riprendendo quanto già sostenuto in altro precedente caso, ha affermato, con posizione del tutto condivisibile, che la quota dal 20 al 30 per cento ex art. 10 della L. n. 157 del 1992 da destinare a protezione non è definita come quota massima, come avviene invece al comma 5 dell’art. 10 per la quota massima globale del 15% del territorio da destinare a caccia riservata a gestione privata, e che la ratio legis non può identificarsi nel volere costituire un limite inderogabile al territorio da proteggere, ma piuttosto nel destinare, comunque, una superficie compresa nei limiti del 20-30% alla tutela della fauna.
In conclusione nel ribadire che nel conflitto tra tutela ambientale e tutela dell’attività venatoria il legislatore sembra assegnare una preponderanza alla prima in virtù del disposto di cui agli articoli 12, comma 1, lett. e) e 22, comma 6 della L. n. 394 del 1991, preponderanza da intendersi nel senso che la prima non può ritenersi incisa o limitata dalle prescrizioni della seconda (T.A.R. Lazio, sezione II bis n. 231 del 1998 cit.) i provvedimenti impugnati vanno esenti da censure, con la conseguenza che il ricorso va rigettato." (…)

Tale giurisprudenza si consolida infine, con le due sentenze sempre del Tar Calabria sez. I, Sentenze del 15 luglio 2005 nn. 1646 e 1647, sul ricorso di alcune Associazioni venatorie contro il Ministero dell’Ambiente e la Regione Calabria per l’annullamento del D.P.R. 14 novembre 2002 di istituzione del “Parco Nazionale della Sila e dell’ente Parco”:
(…) "Con l’istituzione del Parco Nazionale della Sila, esteso 67.000 ettari, con un incremento di 50.000 ettari rispetto al preesistente parco Nazionale della Calabria, si arriverebbe al 40% del territorio, con ulteriore incisione del diritto al prelievo venatorio.
Risulterebbe, inoltre, superato l’analogo limite del 24% del territorio provinciale posto dalla richiamata legge regionale. Il superamento sarebbe dimostrato dalle prescrizioni già a suo tempo imposte alle Province di Cosenza e Reggio Calabria dall’Assessorato all’Agricoltura, proprio a causa del superamento del limite, in sede di approvazione dei piani faunistico – venatori provinciali.
Il nucleo centrale delle argomentazioni di parte ricorrente, come risulta da quanto sopra esposto, ruota essenzialmente attorno all’argomento secondo cui la perimetrazione del Parco Nazionale della Sila, sul cui territorio è vietata la cattura, uccisione e danneggiamento delle specie animali, importerebbe il superamento del limite del 30%, a livello regionale, e del 24%, a livello provinciale, del territorio agro silvo pastorale sottratto all’attività venatoria, imposti, rispettivamente, dalla legge statale e dalla legge regionale. Ciò implicherebbe la violazione delle norme di legge statale e regionale, in quanto si tratterebbe di limiti massimi comunque invalicabili.
Ritiene il Tribunale che le argomentazioni di parte ricorrente non siano condivisibili.
La legge 8 ottobre 1997 n. 344 ha previsto l’istituzione con decreto del Presidente della Repubblica, sentita la regione e previa consultazione delle province e comuni interessati, del parco Nazionale della Sila. Ciò anche sulla scorta delle previsioni dell’art. 77, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 112, che definisce di rilievo nazionale i compiti e le funzioni in materia di parchi naturali, attribuiti allo Stato dalla legge 6 dicembre 1991 n. 394.
Le funzioni esercitate mediante il provvedimento impugnato, disciplinate dalle norme or ora richiamate, non attengono sicuramente in via esclusiva alla tutela di interessi inerenti all’esercizio dell’attività venatoria, quanto ad interessi connessi alla difesa di valori rilevanti sul piano paesaggistico ed ambientale. Ciò, beninteso, non nel senso che gli interessi rilevanti nella disciplina della caccia siano estranei alla tutela ambientale, ma piuttosto nel senso che gli interessi sottesi all’istituzione del Parco si collocano in una prospettiva di tutela del territorio e dell’ambiente assai più ampia, nella quale il divieto di caccia ha un rilievo importante, ma non esclusivo.
Tale notazione assume carattere pregnante, giacché induce all’ovvia constatazione che l’esercizio delle funzioni relative alla tutela degli indicati interessi non può essere in alcun modo pregiudicata dagli interessi rilevanti unicamente in ambito faunistico venatorio.
La fissazione di limiti percentuali di territorio (provinciale o regionale) sottratto all’attività venatoria assume sicura rilevanza nell’esercizio delle funzioni attinenti alla materia faunistico-venatoria e, innanzi tutto, di quelle di programmazione che si esplicano mediante la predisposizione dei piani faunistici cui fa riferimento parte ricorrente. Tali limiti non condizionano, però, l’esercizio delle altre funzioni attinenti ad interessi coinvolgenti i territori su cui si esplica l’attività venatoria e, quindi, quelle riguardanti la difesa e valorizzazione dei beni ambientali.
La stessa cosa, del resto, potrebbe dirsi a proposito dei compiti e funzioni inerenti alla tutela di altri interessi pubblici, che ben possono interessare aree su cui, in astratto, è esercitabile la caccia, quali, tra gli altri, a titolo di esempio, quelli concernenti la difesa militare, la sicurezza, la tutela del suolo.
La funzione che si esplica nella perimetrazione del territorio dei parchi non soggiace, pertanto, ai limiti ed alle prescrizioni in materia di caccia, ricavabili dalle norme di cui alla legge n. 157/92, che non pongono certamente un limite massimo al territorio da proteggere, ma impongono di destinare comunque, anche in assenza di aree di particolare valore naturalistico, una determinata superficie di territorio a protezione della fauna (TAR Lazio, Sez. II bis 19 febbraio 1998 n. 231)
In quest’ottica appare pienamente condivisibile l’affermazione, di cui alla sentenza ora citata del TAR Laziale, secondo cui la previsione di cui all’art. 10 della legge n. 157 del 1992 non implica affatto che una percentuale determinata del territorio debba essere inderogabilmente aperta all’attività venatoria.
La problematica del rispetto degli indicati limiti percentuali, pertanto, non ha riflessi al di fuori dell’ambito di attività di programmazione in materia venatoria e non condiziona le funzioni inerenti la tutela di interessi pubblici diversi." (…)

Alla luce pertanto del principio fondamentale della preminenza della conservazione della fauna selvatica e del suo habitat, sancito dalla legge 157 del 1992, e rafforzato dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa suesposta, nei confronti di un azzardato diritto di caccia, possiamo ipotizzare un recepimento da parte delle regioni del comma 3 dell’art. 10 della norma quadro, così formulato:

Il territorio agro-silvo-pastorale della regione è destinato per una quota dal 20 al 30 per cento a protezione della fauna selvatica, in dette percentuali sono compresi i territori ove sia comunque vietata l'attività venatoria per effetto di altre leggi o disposizioni a carattere prettamente ambientale.
La quota percentuale di cui al precedente comma, non è definita come quota massima e non può costituire un limite inderogabile al territorio da proteggere, ma deve essere semmai intesa, come quota da destinare comunque a protezione della fauna selvatica, qualora non vi siano aree di particolare valore naturalistico o ambientale.


Fulvio Albanese