I beni culturali, il patrimonio immateriale ed i vincoli di destinazione d’uso (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752)

di Michele Ricciardo CALDERARO

pubblicato su giustiziainieme.it. SI ringraziano Autore ed Editore

Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La nozione di bene culturale. - 3. Il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale secondo l’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023 ed il Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752. - 4. Osservazioni conclusive.

  1. Il caso di specie.

La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752, che si annota interviene nel dibattito, sempre di attualità, che si sviluppa intorno al concetto ed alla individuazione del bene culturale, ed in particolare del patrimonio immateriale [i] che può essere oggetto di tutela da parte dell’ordinamento.

Il problema, come si vedrà, concerne l’eventuale esistenza del potere del Ministero della Cultura di apporre un vincolo di destinazione d’uso ad un bene culturale per tutelare il patrimonio immateriale, in specie le attività culturali.

Partiamo, tuttavia, dall’inizio. La controversia attiene il ristorante il “Vero Alfredo”, fondato nel 1908 in Roma, via della Scrofa, trasferitosi nel 1950 nella sede di Piazza Augusto Imperatore, in uno dei locali posti al piano terra del complesso immobiliare denominato Palazzo dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, dichiarato di interesse storico artistico nel 2006, ai sensi dell’art. 10, co. 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.

Tale edificio, in origine di proprietà pubblica, è stato trasferito al Fondo Comune di Investimento Immobiliare di Tipo Chiuso (FIP) ai sensi del decreto legge n. 351/2001, convertito in L. n. 410/2001, per essere successivamente alienato a società private, nel rispetto delle disposizioni del Codice dei beni culturali.

Difatti, tenuto conto che l’immobile rientrava tra i beni vincolati ex lege , ai sensi degli artt. 10, co. 1 e 5, e 12, co. 1, del Codice (trattandosi di immobile di proprietà pubblica, opera di autore non più vivente e risalente ad oltre 50 anni), è stata chiesta l’autorizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (oggi Ministero della cultura) ai fini dell’alienazione.

Il Ministero ha subordinato l’autorizzazione ad alcune prescrizioni, richiedendo, in particolare, la conservazione delle attuali destinazioni d’uso degli immobili e, comunque, vietando la destinazione ad usi, anche a carattere temporaneo, non compatibili con l’interesse culturale accertato o tali da creare pregiudizio alla conservazione e al pubblico godimento.

Il Ministero, inoltre, ha comunicato alla società proprietaria dell’immobile ed alla società che gestisce il locale ricettivo l’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale ai sensi dell’art. 14, d.lgs. n. 42 del 2004 avente ad oggetto il locale ristorante, le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati al suo interno, in quanto ritenuti di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d), Codice beni culturali, anche in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7- bis del medesimo Codice in relazione alla tutela delle espressioni di identità culturale collettiva.

Nelle more, la società proprietaria ha agito in executivis per ottenere il rilascio dell’unità immobiliare, condotta sine titulo da “L’Originale Alfredo”, nuova denominazione del “Vero Alfredo”.

Ma il Ministero della Cultura non si è fermato qui perché, con il decreto ministeriale n. 50 del 13.7.2018, non si è limitato a dichiarare l’interesse particolarmente importante dell’immobile, ovvero il ristorante, con le opere e gli elementi di arredo ivi conservati, ma ha pure richiamato, quale parte integrante della dichiarazione di interesse culturale, la relazione storico-critica e il repertorio fotografico predisposti durante l’istruttoria; infatti, si è riconosciuto l’interesse culturale “nella continuità ininterrotta dell’unione tra locale ristorante, arredi ed opere artistiche, tradizione enogastronomica e sociabilità che, dai primi anni cinquanta ad oggi, hanno reso il ristorante uno spazio fisico e simbolico di accoglienza e di incontro di “mondi” e individui dalla provenienza geografica e sociale estremamente diversificata; un teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati significativi da parte di personaggi illustri italiani e stranieri e di gente comune”.

La conseguenza, per il Ministero, è che inevitabilmente il “Vero Alfredo” debba essere tutelato ai sensi degli articoli 7- bis e 10, co. 3, lett. d) del Codice dei beni culturali, quale “espressione di identità culturale collettiva”, evidenziando come il patrimonio immateriale de “Il Vero Alfredo” sia costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.

Quest’ultimo decreto del Ministero della Cultura è stato impugnato dalla Società proprietaria dell’immobile dinnanzi al T.A.R. Lazio, sede di Roma, che, con sentenza n. 5864 del 19 maggio 2021, ha ritenuto fondati i motivi del ricorso e ha conseguentemente annullato l’atto impugnato.

Secondo il T.A.R. Lazio, difatti, non potrebbero essere vincolate le attività svolte nell’immobile in questione mediante l’assoggettamento dei locali ad un vincolo di destinazione d’uso, in quanto ciò che potrebbe essere vincolato sarebbe soltanto il bene immobile, in presenza delle condizioni, diverse ed ulteriori, prescritte dagli artt. 10 e 13 del Codice per dichiararlo “bene culturale”, idonee a giustificare un vincolo a tutela della conservazione del bene, ma non anche dell’attività svolta al suo interno.

Di conseguenza, seguendo il ragionamento del giudice di primo grado, non sarebbe possibile, sulla base delle previsioni codicistiche, vincolare il bene, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività, impedendo qualunque uso alternativo della cosa stessa; una tale politica, a prescindere dall’arbitrarietà per mancanza di base giuridica, se non per il contrasto con l’intenzione del legislatore delegato, quanto meno per la totale estraneità allo spirito delle Convenzioni internazionali in materia, risulterebbe insostenibile in quanto intrinsecamente irragionevole e sproporzionata.

Avverso questa decisione è stato proposto appello al Consiglio di Stato, in via principale dalla Società che gestisce il locale ricettivo ed in via incidentale dal Ministero della Cultura.

Data l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia di ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha deferito, ex art. 99, co. 1, Cod. proc. amm., la questione all’Adunanza Plenaria che si è espressa in tema con la sentenza n. 5 del 13 febbraio 2023.

Per poter definire la questione attinente ai vincoli di destinazione d’uso è necessario primariamente, tuttavia, delineare la nozione di bene culturale e comprendere come vi rientri anche il patrimonio immateriale[ii].

2. La nozione di bene culturale.

Al riguardo, si può iniziare da due definizioni particolarmente significative[iii].

La prima, più specifica, di stampo gianniniano, definisce il bene culturale come quel bene immateriale di proprietà pubblica, ovvero rientrante nel dominio dell’Amministrazione, inerente a una o più cose e distinto dal bene patrimoniale privato di cui quelle stesse cose costituiscono il supporto materiale[iv].

Più generale e meno tecnica, e forse anche per questo meno criptica, è la definizione fornita invece dalla Commissione Franceschini nel 1967, Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose d’interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio, allorquando affermò che “appartengono al patrimonio culturale della nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggettati alla legge i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà[v].

Questa affermazione di principio, che doveva rientrare in una riforma organica della materia attinente la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, rimase in realtà tale perché non si trasformò in alcun atto avente forza di legge, ma fu un primo passo importante, almeno a livello terminologico in quanto consentì di superare la nozione invalsa sino ad allora di “cose d’arte” propugnata da una certa visione elitaria e fortemente idealizzata dei beni da tutelare che si ritrova nelle due più importanti leggi dell’inizio del XX secolo dedicate agli strumenti di tutela della cultura, ovvero la legge Rosadi, legge 20 giugno 1909, n. 364, e la legge Bottai, legge 1° giugno 1939, n. 1089[vi].

Sulla scorta dei lavori della Commissione Franceschini si giunge, poi, nell’ambito dei programmi di decentramento amministrativo, al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che, ripartendo le funzioni amministrative tra Stato ed enti territoriali in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali, definisce questi ultimi come “quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge[vii].

Siamo dinnanzi ad una definizione più ampia, ove il proprium del bene culturale viene individuato nel carattere di testimonianza avente valore di civiltà[viii], cioè espressione di una determinata cultura formatasi nel tempo. In linea generale, quindi, il riferimento alla civiltà deve essere inteso come “insieme dei modi di pensare e di sentire e vivere dei gruppi sociali nel tempo e nello spazio[ix].

Si supera, quindi, distintamente la nozione fortemente restrittiva di “cosa d’arte” del periodo fascista[x], che richiamava un bene la cui fruizione era limitata a pochi eletti, per una definizione maggiormente inclusiva, che trova un primo passaggio nel Testo Unico per i beni culturali ed ambientali, d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, e poi il suo approdo definitivo nel Codice dei beni culturali, adottato con d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, c.d. Codice Urbani.

Il Codice compie una scelta definitoria ben precisa ma particolare rispetto al passato: sceglie, difatti, di fornire prima, in via generale, una definizione di patrimonio culturale e poi di specificare in che cosa consistano i beni culturali[xi].

Il legislatore del Codice, difatti, mediante un’operazione di sintesi del tutto innovativa nel nostro ordinamento, ha cercato di ricondurre ad una categoria unitaria il patrimonio culturale (non più solamente storico-artistico), i beni culturali ed i beni paesaggistici[xii].

Non si tratta però di una nuova categoria giuridica, perché le due tipologie di beni rispondono a regole diverse, quanto piuttosto di un’efficace espressione verbale, con la quale si vuole evidenziare che i beni culturali e quelli paesaggistici confluiscono in una medesima funzione, che è quella di contribuire a tutelare e valorizzare l’identità culturale del Paese[xiii]. In altri termini, quest’espressione rappresenta l'intima connessione tra i beni culturali ed il paesaggio, per cui i primi non possono essere adeguatamente apprezzati senza il secondo[xiv].

La nozione richiama d’altronde similari espressioni utilizzate in fonti internazionali, con particolare riferimento alla Convenzione di Parigi del 1972 sulla protezione del patrimonio mondiale, culturale e naturale, e soprattutto con riguardo alla Convenzione di Faro approvata dal Consiglio d’Europa il 27 ottobre 2005 sul valore dell’eredità culturale per la società ove si parla espressamente di cultural heritage[xv].

È ancora oggi questione dibattuta se la traslitterazione corretta di cultural heritage sia quella di patrimonio culturale [xvi] ma è indubbio che il richiamo deve correre ad una nozione certamente ampia in cui l’ambiente è parte indefettibile della cultura[xvii], tant’è che oggi vi è chi preferisce parlare di patrimonio culturale UNESCO [xviii] al cui interno sarebbe individuabile altresì un “patrimonio culturale urbanistico”[xix], comprensivo tanto delle testimonianze di civiltà (beni culturali), quanto dei caratteri identitari del territorio (paesaggio culturale), sia nelle loro componenti materiali che immateriali, tutelati come patrimonio universale dell'umanità e che si servono delle limitazioni urbanistiche per conseguire un grado rafforzato di tutela[xx].

Al di là delle teorie sulla correttezza ed utilità dell’espressione patrimonio culturale[xxi], che comunque ci fornisce un indizio non trascurabile sulla dimensione transgenerazionale ed in perenne divenire della cultura e dell’ambiente[xxii]e che è stata ancora di recente utilizzata dal legislatore nel Codice del terzo settore, d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117[xxiii], occorre tenere in considerazione che il quadro definitorio del Codice dei beni culturali si inserisce nei principi fissati dalla Costituzione che, all’art. 9, modificato peraltro da ultimo dalla legge costituzionale n. 1 del 2022[xxiv], stabilisce che la Repubblica tutela il paesaggio ed il patrimonio storico e artistico della Nazione[xxv].

Sulla necessità di tutela del patrimonio culturale del Paese, in qualunque modo si preferisca intenderlo, non si possono aver dubbi[xxvi].

I beni classificabili come culturali sono molteplici, tutte resmateriali in cui “il profilo ideale che è oggetto di protezione si è talmente immedesimato della materia in cui si esprime da restarne definitivamente prigioniero, così che esso si pone come oggetto di protezione giuridica inscindibile dalla cosa che lo racchiude[xxvii].

Il patrimonio immateriale[xxviii], come si vedrà anche in seguito, non rimane però del tutto privo di tutela[xxix]perché l’art. 7- bis del Codice [xxx] aggiunge, difatti, che “le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10”.

Ciò che emerge dagli articoli 2 e 10 del Codice è che l'essere testimonianza di civiltà rappresenta il catalizzatore che determina l'inerenza dell'interesse pubblico culturale non già alla cosa in quanto tale, ma al suo significato, sicché esso trascende la soddisfazione del singolo proprietario, per riguardare l'intera collettività, come interesse alla conservazione ed alla fruibilità del bene culturale attraverso la cosa oggetto di vincolo e tutela. Si parla, al riguardo, di nozione “aperta” di bene culturale, la quale nondimeno si specifica tecnicamente con il c.d. criterio reale e normativo, sicché non esistono testimonianze aventi valore di civiltà che non siano “cose”, individuate come bene culturale dalla legge o in base alla legge[xxxi].

La nozione di cultura nel corso degli ultimi anni, peraltro, ha subito un’importante evoluzione in senso ampliativo, tant’è che il Consiglio di Stato, di recente, ha affermato che, stante il carattere ampiamente discrezionale del potere conferito all'autorità preposta alla tutela, anche lo sport può essere ricondotto al concetto di cultura menzionato nell'art. 10, co. 3, lett. d), Codice dei beni culturali, ai fini dell'assoggettamento a tutela come bene culturale[xxxii].

Occorre fare attenzione, tuttavia: il Codice dei beni culturali non assoggetta qualsiasi testimonianza avente valore di civiltà al proprio regime di tutela e valorizzazione, come avrebbe voluto in origine la Commissione Franceschini, ma solamente “se è [...] considerabile sulla base di una qualificazione, ossia di una fissazione di fattispecie operata dal legislatore[xxxiii], rispondendo, così, ad uno stretto principio di tipicità ed alla conseguente tipizzazione dei beni considerabili come culturali da parte del Codice, che però, specialmente per quanto attiene al patrimonio immateriale, non è pienamente allineato alle fonti internazionali in un’ottica di integrazione tra gli ordinamenti amministrativi sovranazionali e quelli nazionali[xxxiv].

Ovviamente, come è noto, la disciplina giuridica di riferimento è differente se il bene culturale è di proprietà pubblica o privata[xxxv].

È necessario, peraltro, ricordare che alcune categorie di beni di proprietà pubblica, ed in particolare gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico e le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie, archivi e biblioteche, qualora appartengano allo Stato o ad un altro ente pubblico territoriale, rientrano nella categoria dei beni demaniali[xxxvi], nello specifico di quella del demanio accidentale[xxxvii], ed ai sensi degli articoli 822 e seguenti del Codice civile [xxxviii] sono di regola inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi[xxxix], se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge. Al riguardo il Codice dei beni culturali del 2004 detta delle prescrizioni particolari, tanto che si potrebbe affermare che per i beni culturali vige una regola di inalienabilità relativa o limitata[xl].

Tale classificazione del Codice civile [xli] può risultare, almeno secondo taluni, in parte superata, specialmente con riferimento ai beni paesaggistici e culturali, per l’introduzione di una nuova categoria, quella dei beni comuni, avvenuta in particolare grazie all’opera ermeneutica della dottrina e della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Quest’ultime, in una pronunzia sulle valli da pesca venete, con un principio espresso in un obiter dictum hanno affermato che “là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, "comune" vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini[xlii].

Si tratta, quindi, come era già stato affermato nel 2007 dalla Commissione Rodotà insediata per la riforma della disciplina dei beni pubblici[xliii], di cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali ovvero al libero sviluppo della persona[xliv], indipendentemente dalla classificazione operata dal legislatore, che sono comuni a tutta la collettività[xlv]. Tra questi beni comuni certamente vi possono rientrare i beni paesaggistici e culturali[xlvi], i quali però, al di là di ogni dibattito definitorio in tema[xlvii], devono ricevere un adeguato livello di tutela dall’ordinamento proprio per la loro caratteristica intrinseca di costituire testimonianza avente valore di civiltà.

Il problema sorge allorché questa testimonianza presenta carattere immateriale e non riguarda in via diretta un bene. Occorre comprendere se il Codice, data la sua rigida impostazione sulle res, consenta una tutela del patrimonio immateriale, certamente voluta invece dalle Convenzioni internazionali; il Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza Plenaria, è quindi intervenuto in tema.

3. Il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale secondo l’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023 ed il Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752.

La questione sottoposta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria, su cui è stata a chiamata a pronunziare il principio di diritto, difatti, attiene al rapporto tra poteri di tutela del Ministero della Cultura e patrimonio culturale immateriale.

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato si è chiesta se, in presenza di beni culturali ex art. 10, co. 3, lett. d), Codice beni culturali, ovvero di “cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte, della scienza, della tecnica, dell'industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell'identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”, che rappresentino (altresì) una testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7 bis dello stesso Codice, il potere ministeriale di tutela possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso della res a garanzia non solo della sua conservazione, ma pure della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa costituisce testimonianza.

Ciò ricordando in generale che solo in casi eccezionali il legislatore ha attribuito al Ministero il potere di imporre misure volte a tutelare l'uso del bene rispetto all'ordinario regime vincolistico che è finalizzato alla mera conservazione in buono stato dei beni culturali con mero divieto di usi non compatibili, ovvero limitato ad indicare in negativo, non a prescrivere in positivo[xlviii].

Il Codice dei beni culturali, difatti, prevede una specifica ipotesi al riguardo, allorquando all’art. 51 vieta di modificare la destinazione d’uso degli studi d’artista se, considerati nel loro insieme, siano dichiarati di interesse particolarmente importante per il loro valore storico[xlix].

Tale potere eccezionale[l], tuttavia, come chiarito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 185 del 2004, deve essere esercitato nel rispetto dei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, anche al fine di evitare i cd. "effetti perversi" derivanti dall'eccesso di attività vincolistica, che rischia di essere controproducente rispetto agli stessi obiettivi perseguiti[li].

Questo potere, quindi, pur con tutti i limiti segnalati anche dalla giurisprudenza costituzionale, esiste nel nostro ordinamento, occorre però comprendere se può trovare applicazione al di là dell’ipotesi particolare espressamente prevista per gli studi d’artista.

L’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 5 del 2023, in modo risoluto ha chiarito che il vincolo di destinazione d'uso del bene culturale può essere imposto allorquando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui emerga l'esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell'integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato[lii].

Ciò a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza[liii].

Il regime vincolistico, dunque, secondo l’Adunanza Plenaria, può concernere non solo il bene materiale ma, proprio attraverso il vincolo su quest’ultimo, indirettamente anche l’attività, testimonianza di un determinato costume o civiltà, che abbia una particolare rilevanza dal punto di vista storico-culturale.

Di conseguenza, rientrano nel potere conformativo attribuito all'Amministrazione anche i c.d. locali storici che, oltre a qualificare spesso in maniera determinante il tessuto urbano del centro storico (che può essere definita come l’anima di una città, alla continua ricerca del suo equilibrio, tra la conservazione del passato e l'elaborazione del nuovo), costituiscono un importante elemento di memoria storica e una testimonianza culturale, la cui tutela e valorizzazione concorre a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio[liv].

Come già ricordato dal Consiglio di Stato nel 2019, difatti, se è vero che l'attività dei negozi storici di per sé non può essere oggetto di vincolo culturale, quest'ultimo ben può essere apposto nei confronti degli immobili nei quale i suddetti negozi sono ospitati, in quanto in tal caso il valore culturale dei beni è ravvisabile nel collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia e della civiltà[lv]. La tutela può dunque essere estesa dal bene alla sua destinazione quando la rilevanza storico, artistica e culturale del bene sia anche la conseguenza dello svolgimento di una determinata attività.

Si tratta di resupposti totalmente differenti dalla sentenza di primo grado del T.A.R. Lazio, secondo cui sarebbe impossibile, sulla base delle previsioni del Codice, vincolare il bene, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività, impedendo qualunque uso alternativo della cosa stessa: una tale scelta risulterebbe insostenibile in quanto irragionevole e sproporzionata.

Ciò sulla base di un consolidato ma oramai risalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, anche dello stesso Consiglio di Stato, secondo cui non sarebbero possibili, in ossequio alle norme previste nel nostro ordinamento, vincoli culturali di mera destinazione, specialmente per attività di natura commerciale o imprenditoriale[lvi].

La sentenza del Consiglio di Stato che si commenta, però, in conformità ai principi espressi dall’Adunanza Plenaria, è di tutt’altro avviso, superando un orientamento che, occorre ricordarlo, si era originariamente formato sulla legge Bottai del 1939 ove la nozione di bene culturale assunta come parametro di riferimento non teneva in considerazione l’ampliamento della stessa dovuta alle Convenzioni internazionali[lvii].

Difatti, secondo la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, il giudice di prime cure ha errato nel ritenere che il provvedimento impugnato in primo grado, nell’imporre un vincolo di destinazione d’uso, fosse privo di base legale, atteso che quest’ultima è da rinvenire in una lettura sistematica del Codice dei beni culturali e, segnatamente, nel combinato disposto degli artt. 7- bis e 20, per cui le espressioni di identità culturale collettiva debbono essere tutelate e, più in generale, i beni culturali non possono essere adibiti ad usi incompatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione[lviii].

Questo vincolo non si appunta sull’attività commerciale e imprenditoriale in sé considerata ma su come la stessa è esercitata in relazione ai beni che ne sono testimonianza materiale.

Ne discende che esso non si sostanzia nell’obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività né nell’attribuzione di una “riserva di attività” in favore di un determinato gestore (l’attuale, o diverso) ma vale, piuttosto, a precludere, in negativo, ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res (intesa nel suo complesso, come locali e arredi) nonché ad imporre, specularmente, in positivo, la continuità del suo uso attuale, cui la cosa è stata storicamente adibita (id est, nel caso di specie, lo svolgimento di un’attività di ristorazione aperta al pubblico con caratteristiche tradizionali della cucina italiana).

Un bene culturale non può essere adibito ad un uso piuttosto che all’altro indifferentemente: il vincolo di destinazione esiste nel senso che l’uso deve essere compatibile con la natura di testimonianza storica, artistica di una determinata civiltà[lix]. Qualsiasi attività incompatibile sarebbe contraria agli stessi dettami dell’art. 9 della Costituzione per cui la Repubblica tutela e “promuove lo sviluppo della cultura[lx].

In questo caso, l’espressione di identità culturale collettiva deve essere individuata nelle modalità con cui la cultura ed il costume italiano (e romano) di un certo periodo storico, coincidente con la c.d. “Dolce Vita”, sono rappresentati a livello nazionale ed internazionale ed il “Vero Alfredo” ne è una delle rappresentazioni più significative.

Ciò giustifica l’apposizione su di esso, a differenza degli altri locali tradizionali del centro storico di Roma, in aggiunta a quelli esistenti sui singoli beni che lo compongono, di un vincolo di destinazione d’uso, proprio perché, anche ad esito di un’indagine tecnico-scientifica di carattere demoetnoantropologico, esso è divenuto, al di là dell’intrinseco valore artistico e culturale della sua struttura e degli arredi e opere artistiche ivi contenute, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, luogo di convivialità e incontro tra personalità di spicco italiane e straniere.

4. Osservazioni conclusive.

Principio fondante del nostro ordinamento, ribadito anche dal Codice, è quello per cui la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale.

Questo, primariamente, è costituito da tutti quei beni mobili ed immobili che “presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.

Il legame con la res, nel senso proprio del termine, è imprescindibile.

Ma l’ordinamento, così come chiarito dall’art. 7- bis del Codice, tutela, e non potrebbe che essere così, anche le espressioni di identità culturale collettiva, testimonianze quindi di una determinata civiltà, contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005[lxi].

Questo, aggiunge la medesima norma del Codice, laddove le espressioni di identità culturale siano rappresentate, nell’ottica di corporalità del bene, da testimonianze materiali e sussista un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.

Ora, è noto, perché lo si evince dalla Relazione illustrativa al Codice, che nell’art. 7- bis la ratio della previsione che prescrive la condizione della "materialità" dell'oggetto da tutelare è quella “di evitare interpretazioni fuorvianti sia degli obblighi assunti in via pattizia con altri Stati, sia, e per converso, dei confini fra la tradizionale tutela relativa alle "cose" di interesse storico ed artistico e la salvaguardia afferente a manifestazioni e valori della cultura immateriale”.

È evidente, di conseguenza, che le attività tradizionali, che costituiscono espressioni di identità culturale collettiva, possono essere tutelate come "beni" di interesse culturale a condizione che si traducano in un'entità materiale e che queste abbiano un valore sotto il profilo di quell'interesse storico, artistico, archeologico, etnologico o, per lo meno "testimoniale" contemplato dall'art. 10 del Codice[lxii].

Non è, dunque, l’attività a poter essere tutelata in via diretta.

Ma essa, quale testimonianza di uno specifico costume che si è formato e consolidato in una società nel corso degli anni, può essere soggetta ad un vincolo di destinazione d’uso qualora sia necessario preservare il bene cui inerisce e che ne rappresenta la testimonianza materiale.

Qui abbiamo la vera novità della pronunzia che si commenta e che costituisce la prima vera, significativa applicazione dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 5 del 2023.

Si supera l’orientamento invalso secondo cui sarebbe stato illegittimo il provvedimento di dichiarazione di interesse culturale di un immobile che, in assenza degli stringenti presupposti di legge e in violazione dei principi di proporzionalità [lxiii] e ragionevolezza, avesse preteso di imporre il vincolo di destinazione d'uso all'attività svolta nel locale[lxiv], data l’impossibile adattabilità di questo vincolo alla tutela funzionale di attività imprenditoriali in determinati immobili.

La pronunzia del Consiglio di Stato in commento, al di là delle peculiarità del caso di specie, merita di essere condivisa in quanto, pur rimanendo delineata l’alterità formale tra bene ed attività culturale, si orienta nel senso che quest’ultima, seppur in via indiretta, debba trovare una forma di tutela, sempreché dal raffronto tra l'interesse espresso dal vincolo e le esigenze di garantire nella realtà economica la sopravvivenza stessa dalla res cui l’attività è collegata emergano caratteristiche degne di conservazione e di tutela per l’ordinamento giuridico[lxv].

Certo, data l’impostazione formale del Codice e la sua non perfetta coincidenza con le Convenzioni internazionali in materia di patrimonio culturale immateriale, sarebbe auspicabile uno specifico intervento di riforma del legislatore[lxvi], ricordando d’altronde che la sede per l'introduzione di questi strumenti normativi di tutela avrebbe già dovuto essere quella del Codice delle attività culturali, che, secondo il disegno dell'originaria legge di delega del 2002, si sarebbe dovuto accompagnare alla codificazione della disciplina sui beni culturali.

Sono oramai trascorsi più di vent’anni e così non è ancora stato, ma l’intervento chiarificatore, che potremmo definire di interpretazione estensiva in conformità all’art. 9 della Costituzione, del Consiglio di Stato è un primo passo importante, da implementare seguendo però una nozione corretta di patrimonio culturale ove si possa accertare sempre una testimonianza avente valore di civiltà, anche sotto forma di una “espressione di identità culturale collettiva”.

[i] Altresì definibile come patrimonio intangibile: v., al riguardo, l’ampio studio monografico di M. Timo, L’intangibilità dei beni culturali , Torino, Giappichelli, 2022.

[ii] Secondo A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali , in Aedon, 2014, "sembra possibile affermare che il valore immateriale consente di affermare l'esistenza di uno statuto giuridico minimo, comune, discendente dalla nozione di bene culturale. Questo statuto comune consente, innanzitutto, sotto un profilo metodologico di cercare i tratti comuni delle varie discipline di tutela e valorizzazione di questi beni, da apprezzare a prescindere dal loro supporto materiale. [...] sicché mi sembra che si debba superare la radicale contrapposizione tra beni culturali materiali ed immateriali, accettando una visione liminale che cerchi di trovare i tratti comuni, aperta a statuti pluralistici, fondata sulla sostenibile leggerezza del valore immateriale dei beni culturali (materiali e immateriali)".

[iii] In tema di beni culturali è da sempre presente una particolare esigenza definitoria: così G. Morbidelli, L'azione regionale e locale per i beni culturali in Italia , in Le Regioni, 1987, 942 ss.

[iv] Così M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 13 ss.

[v] I lavori della Commissione Franceschini sono stati pubblicati con il titolo Per la salvezza dei beni culturali , 3 voll., Roma, 1967.

[vi] Su cui cfr. S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini (1975), in Id., L'amministrazione dello Stato. Saggi, Milano, Giuffrè, 1976, 153 ss.

[vii] In tema cfr. S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 673 ss.; G. Sciullo, Beni culturali e principi della delega , in Aedon, n. 1/1998; G. Pitruzzella, Art. 148 e art. 149 , in G. Falcon (a cura di), Lo Stato autonomista, Bologna, Il Mulino, 1998, 491 ss.

[viii] Su questa nozione cfr. C.E. Gallo, S. Foà, I beni culturali, in P. Falcone, A. Pozzi (a cura di), Il diritto amministrativo nella giurisprudenza, I beni, i mezzi, la giustizia , Torino, Utet, 1998, Vol. II, 67 ss.; B. Cavallo, La nozione di bene culturale tra mito e realtà: rilettura critica della prima dichiarazione della Commissione Franceschini , in Aa. Vv., Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, Giuffrè, 1988, Vol. II, 113 ss.; M. Cantucci, Beni culturali e ambientali, in Noviss. Dig. It., Appendice A-Cod., Torino, Utet, 1980, 722 ss.

[ix] Secondo l’autorevole insegnamento di M.S. Giannini, I beni culturali, cit., 9.

[x] Per un approfondimento v. M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Roma, Società Editrice del Foro italiano, 1952.

[xi] Sul punto cfr. S. Foà, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: la tutela dei beni culturali , in Giorn. dir. amm., 2004, 473 ss.

[xii] Per una ricostruzione sul punto cfr. il volume di C.C. Amitrano, M. Ricciardo Calderaro, La gestione del patrimonio culturale tra customer experience e tecnologie digitali , Napoli, Jovene, 2024, spec. 9 ss.

[xiii] V. in tema S. Amorosino, Introduzione al diritto del paesaggio, Bari, Laterza, 2010, 3 ss.; E. Boscolo, La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio ‘a strati' , in Riv. giur. urb., 2009, 61 ss.

[xiv] In questi termini A. Bartolini, Beni culturali (diritto amministrativo), in Encicl. dir. , Milano, Giuffrè, Annali VI, 2013, spec. 96 ss.; S. Settis, Paesaggio, Costituzione e cemento , Torino, Einaudi, 2010.

[xv] In tema cfr. S. Foà, Dalla Convenzione europea al Codice dei beni culturali e del paesaggio. Obiettivi di tutela e valorizzazione , in R. Ferrara, M.A. Sandulli (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente , Milano, Giuffrè, 2014, Vol. III, 431 ss.

[xvi] Contra, sulla traduzione di cultural heritage in patrimonio culturale cfr. G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro “sul valore del patrimonio culturale per la società”: politically correct vs. Tutela dei beni culturali? , in Federalismi, n. 8-2021, 224 ss.

[xvii] In tema cfr. L. Casini, Patrimonio culturale e diritti di fruizione, in Riv. trim. dir. pubbl. , 2022, 657 ss.; M. Brocca,Patrimonio culturale e sviluppo dei territori: la componente del paesaggio tra impostazione codicistica e nuove traiettorie normative, in Ist. del federalismo, 2018, 857 ss.

[xviii] Cfr. C. Tubertini, A 50 anni dalla Convenzione Unesco del 1972 sulla protezione del patrimonio culturale mondiale: riflessioni alla luce dell’esperienza italiana , in Aedon, 2022, 147 ss.

[xix] Sul punto v. M. Cammelli, Politiche urbane e protezione del patrimonio culturale, in Aedon, 2022, 66 ss.; A. Crosetti, Governo del territorio e tutela del patrimonio culturale: un difficile percorso di integrazione , in Riv. giur. edil., 2018, 81 ss.

[xx] Così A. Bartolini, Patrimoni culturali e limitazioni urbanistiche, in Dir. amm. , 2022, 995 ss. Oppure, ancora, chi parla genericamente di patrimoni culturali come M. Cammelli, G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare , in Aedon, fasc. n. 1-2022 e, da ultimo, D. Siclari, Perché non possiamo non parlare di patrimoni culturali in Italia , in Dir. e proc. amm., 2023, 1 ss.

[xxi] Su cui si rinvia a P. Stella Richter, La nozione di patrimonio culturale, in Foro Amm. CdS , 2004, 1280 ss.; da ultimo cfr. C. Videtta, La dimensione del patrimonio culturale tra frammentazione delle conoscenze e unità del sapere , in Nuove autonomie, 2023, 199 ss.

[xxii] V. P. Chirulli, Il governo multilivello del patrimonio culturale, in Dir. amm. , 2019, 697 ss. La tematica ambientale è profondamente interconnessa con quella dei beni culturali, come nel caso della promozione delle energie rinnovabili: v., ad esempio, A. Persico, Promozione dell’energia rinnovabile e tutela del patrimonio culturale: verso l’integrazione delle tutele (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167) , in Giustiziainsieme, 1° dicembre 2022.

[xxiii] Cfr. R. Spagnuolo Vigorita, Il patrimonio culturale nelle disposizioni del codice dei contratti pubblici e nel codice del terzo settore , in Munus, 2018, 405 ss.; sul punto v. anche C. Napolitano, Il Tar Lazio e la tutela del patrimonio culturale , in Giustiziainsieme, 3 luglio 2020.

[xxiv] In letteratura, mentre alcuni hanno accolto con favore la novella degli artt. 9 e 41 Cost., come I.A. Nicotra, L'ingresso dell'ambiente in Costituzione, un segnale importante dopo il Covid , in Federalismi, 30 giugno 2021, altri hanno sollevato dubbi sui contenuti della legge di riforma costituzionale come G. Severini, P. Carpentieri, Sull'inutile, anzi dannosa, modifica dell'art. 9 della Costituzione , in GiustiziaInsieme, 22 settembre 2021 o C. Sartoretti, La riforma costituzionale “dell’ambiente”: un profilo critico , in Riv. giur. edil., 2022, 119 ss., che evidenzia come “tuttavia, se l'idea del nostro Parlamento di fare assurgere la tutela dell'ambiente al rango di principio costituzionale codificato è certamente apprezzabile sotto il profilo delle ragioni che lo hanno spinto a questa decisione, desta invece alcuni dubbi e certune perplessità con riguardo ai contenuti dei novellati artt. 9 e 41, e solleva soprattutto un interrogativo di fondo circa la reale necessità di una siffatta riforma costituzionale”. Su questa riforma v. ancora M. Bertolissi, Amministratori, non proprietari dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi , in Federalismi, n. 6-2023, 24 ss.; P. Lombardi, Ambiente e generazioni future: la dimensione temporale della solidarietà , in Federalismi, n. 1-2023, 86 ss.; M. Poto, La tutela costituzionale dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni , in Resp. civ. e prev., 2022, 1057 ss.; G. Amendola, L’inserimento dell’ambiente non è né inutile né pericoloso , in GiustiziaInsieme, 25 febbraio 2022; R. Montaldo, La tutela costituzionale dell’ambiente nella modifica degli artt. 9 e 41 Cost.: una riforma opportuna e necessaria , in Federalismi, n. 13-2022, 187 ss.; L. Cassetti, Riformare l’art. 41 della Costituzione: alla ricerca di “nuovi” equilibri tra iniziativa economica privata e ambiene? , in Federalismi, n. 4-2022, 188 ss.; R. Fattibene, Una lettura ecocentrica del novellato articolo 9 della Costituzione , in Nomos, n. 3-2022. Cfr. altresì F. Fracchia, L’ambiente nell’art. 9 della Costituzione: un approccio “in negativo” , in Dir. econ., 2022, 15 ss.

[xxv] Si rinvia anzitutto a M.S. Giannini, Sull'articolo 9 Cost. (la promozione culturale), in Aa. Vv., Scritti in onore di Angelo Falzea, Milano, 1991, 435 ss.

[xxvi] Anzi, occorre implementarla: v. sul punto M. Timo, Implementare la resilienza del patrimonio culturale , in Dir. econ., 2022, 409 ss.

[xxvii] Così T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, Giuffrè, 2001, 47.

[xxviii] Su questo cfr. C.A. D’Alessandro, Il patrimonio culturale immateriale. Il lungo cammino per la sua tutela giuridica e l’apporto culturale di Claude Lévi-Strauss , in Società e diritti, fasc. 13-2022, 136 ss.; F. Ferrara, Il patrimonio culturale immateriale. Considerazioni per un alternativo modello di tutela e valorizzazione , in Ambientediritto.it, fasc. 3-2021, 96 ss.; G. Soricelli, Beni culturali immateriali e diritto al bene culturale: prospettive per una ricerca , in Federalismi, fasc. n. 15-2019, 2 ss.; A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia , in Aedon, fasc. 1-2019, 83 ss. Si v. anche le riflessioni di A. Lalli, L’immateriale dei beni culturali nell’era digitale: valori culturali ed economici , in Dir. e proc. amm., 2022, 671 ss.

[xxix] Come ricordato, da ultimo, da Cons. Stato, Sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752, in Guida dir. , 2023, 31 ss.

[xxx] Introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. c), del d.lgs. 26 marzo 2008, n. 62.

[xxxi] In termini T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 12 ottobre 2021, n. 2212, in Foro amm. , 2021, 1504 ss.

[xxxii] Così Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2023, n. 2561, in Foro it., 2023, 6, III, 287 ss.

[xxxiii] Cfr. C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2011, spec. 23 ss.

[xxxiv] In generale si consenta il rinvio a M. Ricciardo Calderaro, L’integrazione amministrativa e la tutela dei diritti. Problemi e prospettive alla luce della crisi sistemica dell’Unione Europea , Torino, Giappichelli, 2020.

[xxxv] Cfr., ad esempio, C. Videtta, Riflessioni sulla verifica dell’interesse culturale alla luce delle esigenze di semplificazione delle procedure di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico espresse dal decreto c.d. “Semplifica Italia” , in Dir. econ., 2014, 309 ss.; in giurisprudenza di recente v. Cass. civ., Sez. II, 28 giugno 2023, n. 18423, in Guida dir., 2023, 29 ss.

[xxxvi] Si deve partire certamente da O. Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico. Capitolo III: Teoria , in Riv. it. sc. giur., XXV, 1898, 1-55; G. Salemi, Natura giuridica dell’uso comune dei beni demaniali , Sassari, Tip. Gailizzi, 1923; P. Bodda, In tema di proroga legale delle concessioni di beni demaniali , in Riv. dir. comm., 1950; A. Barucchi, Riflessioni in tema di beni demaniali e di alcuni loro usi , in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 329 ss.

[xxxvii] Cfr. le riflessioni di A. Romano, Demanialità e patrimonialità: a proposito dei beni culturali , in V. Caputi Jambrenghi (a cura di), La cultura e i suoi beni giuridici , Milano, Giuffrè, 1999, 406 ss.

[xxxviii] In tema si v. anzitutto A.M. Sandulli, Beni pubblici, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1959, vol. V, 277 ss.

[xxxix] Cass. civ., Sez. II, 23 maggio 2023, n. 14105, in Giust. civ. Mass., 2023, ricorda, in tema, come l'immobile di proprietà di un Comune che, sebbene non iscritto nell'elenco di cui all'art. 4, co. 1, della l. n. 1089 del 1939, sia riconosciuto di interesse storico, archeologico o artistico, è soggetto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 822 e 824 cod. civ., al regime del demanio pubblico, con la conseguenza che non può essere sottratto alla propria destinazione, né può essere oggetto di usucapione, indipendentemente dal momento in cui sia apposto il vincolo, atteso che quest'ultimo ha una mera efficacia dichiarativa, volta ad attestare in capo all'immobile una prerogativa già esistente.

[xl] Così A. Crosetti, D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino, Giappichelli, 2014, 81 ss.

[xli] Su cui, in generale, cfr. V. Cerulli Irelli, Beni pubblici, in Dig. disc. pubbl ., Torino, Utet, 1987, Vol. II, 275 ss.

[xlii] Cass. civ., Sez. Un., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Giust. civ., 2011, 3, I, 595 ss. Al riguardo v. il commento di F. Cortese, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici , in Giorn. dir. amm., 2011, 1170 ss.

[xliii] Da ultimo v. di S. Rodotà, I beni comuni e l’inaspettata rinascita degli usi collettivi , in Riv. critica dir. priv., 2022, 11 ss.

[xliv] Cfr. al riguardo S. Foà, I beni pubblici, in C.E. Gallo (a cura di), Manuale di diritto amministrativo , Torino, Giappichelli, 2023, spec. 367.

[xlv] V., in tema, V. Cerulli Irelli, Proprietà, beni pubblici, beni comuni, in Riv. trim. dir. pubbl. , 2022, 639 ss.; G. Arena, Da beni pubblici a beni comuni, in Riv. trim. dir. pubbl. , 2022, 647 ss.; M. Cafagno, Beni comuni, norme, comportamenti, in Riv. quad. dir. ambiente, 2022, 181 ss.; G. Fidone, Dai beni comuni all’amministrazione condivisa , in Dir. e proc. amm., 2022, 435 ss.; U. Mattei, L’innesto della giustizia ecologica nel codice civile. Eguaglianza e beni comuni fra legge e diritto , in Quest. Giust., 2020, 53 ss.; V. Molaschi, Economia collaborativa e beni comuni: analogie, differenze e intersezioni nella prospettiva di uno sviluppo urbano sostenibile , in Dir. econ., 2020, 345 ss.; E. Boscolo, I beni ambientali (demaniali e privati) come beni comuni , in Riv. giur. amb., 2017, 379 ss.

[xlvi] Sul punto cfr. S. Marotta, Per una lettura sociologica-giuridica dei beni culturali come beni comuni , in Munus, 2016, 439 ss.; V. Caputi Jambrenghi, Bene comune (obblighi e utilità comuni) e tutela del patrimonio culturale , in GiustAmm, 2015.

[xlvii] Per una critica della categoria cfr. G. Perlingieri, Criticità della presunta categoria dei beni c.d. “comuni”. Per una “funzione” e una “utilità sociale” prese sul serio , in Rass. dir. civ., 2022, 136 ss. Si v. anche S. Staiano, “Beni comuni” categoria ideologicamente estenuata , in Dir. e soc., 2016, 415 ss.

[xlviii] L’orientamento della pronunzia in commento, come detto, è innovativo rispetto a quanto sostenuto anche dal Consiglio di Stato in passato. Cons. Stato, Sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933, in www.giustizia-amministrativa.it aveva affermato, ad esempio, che per i beni culturali in senso proprio non è consentito, di regola, il vincolo di mera destinazione d'uso, salvo che per gli studi d'artista, in ragione della specifica previsione dell'art. 51, co. 1, Cod. beni culturali, con la conseguenza che deve ritenersi di dubbia legittimità anche il vincolo di destinazione merceologica per i negozi storici, dato che sotto il profilo della tutela costituiscono un minus rispetto ai beni culturali.

[xlix] Come chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2017, n. 5737, in Foro amm., 2017, 2401 ss., lo speciale vincolo previsto dall'art. 51, co. 1, Codice beni culturali, per gli studi d'artista, comporta sia il divieto di modificare la destinazione d'uso dello studio ove l'artista ha operato sia il divieto di rimuoverne il contenuto, costituito da opere, documenti, cimeli e simili, qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico.

[l] Che sussiste, in attuazione dell’art. 9 Cost., per rendere immodificabili l'ambiente e i luoghi nei quali effettivamente operò l'artista, al fine di conservare intatta la testimonianza dei valori culturali in esso insiti, testimonianza che giustifica il valore storico del bene: così T.A.R. Abruzzo, Sez. L’Aquila, Sez. I, 14 febbraio 2013, n. 121, in Foro amm. TAR, 2013, 2, 573 ss.

[li] Corte cost., 24 giugno 2004, n. 185, in Giur. cost., 2004, 5, 3278 ss.

[lii] Pronunzia commentata da G. Botto, Tutelare il valore culturale immateriale: il vincolo di destinazione d’uso , in Giorn. dir. amm., 2023, 517 ss., secondo cui quanto affermato dall’Adunanza Plenaria “pone le basi per una notevole valorizzazione della disciplina vivente in chiave evolutiva, affermando la possibilità di implementare i principi maturati a livello internazionale e sovranazionale tramite un'interpretazione della disciplina nazionale alla loro luce”.

[liii] Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5, in Foro amm., 2023, 2, II, 162 ss.

[liv] In tema v., ad esempio, G.P. Cirillo, Il diritto al borgo come una delle declinazioni del diritto alla bellezza e come luogo “dell’altrove” , in Giustiziainsieme, 30 marzo 2023; P. Carpentieri, Valore culturale dei centri storici “vs.” concorrenza e mercato , in Riv. giur. edil., 2019, 425 ss.; A. Sau, La rivitalizzazione dei centri storici tra disciplina del paesaggio, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale , in Le Regioni, 2016, 955 ss.; C. Videtta, I “centri storici” nella riforma del Codice dei beni culturali , in Riv. giur. edil., 2010, 47 ss.

[lv] Cons. Stato, Sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933, in www.giustizia-amministrativa.it.

[lvi] Ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198, in Foro amm.CdS, 2011, 2511 ss.; Cons. Stato, Sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009, in Foro amm. CdS, 1515 ss.

[lvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266, in Cons. Stato, 1998, I, 1346 ss.

[lviii] Anche Cass. pen., Sez. III, 29 settembre 2011, n. 42065, in Dir. & Giust., 2011 ha ricordato che gli interventi che incidono sulla conservazione e l'integrità del bene storico sono possibili e, dunque, autorizzabili, esclusivamente qualora essi mirino a valorizzare o meglio utilizzare il bene protetto, anche mediante modifiche d'uso che ne salvaguardino, pur in una prospettiva di adeguamento al mutare delle esigenze, la natura e il valore.

[lix] In tema cfr. altresì P. Marzaro, Vincolo culturale di destinazione d’uso: il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni della p.a. e il rischio dell’”effetto paradosso” , in Aedon, 2023.

[lx] Si rinvia anzitutto a M.S. Giannini, Sull'articolo 9 Cost. (la promozione culturale) , in Aa. Vv., Scritti in onore di Angelo Falzea, Milano, 1991, 435 ss.

[lxi] Su questa cfr. G. Poggeschi, LaConvenzione sulla protezione e la promozione della diversità e delle espressioni culturalidell'Unesco entra a far parte del corpus legislativo italiano. Una novità nel panorama degli strumenti giuridici internazionali?, in Aedon, n. 2/2007.

[lxii] L. Casini, “Giochi senza frontiere?”: giurisprudenza amministrativa e patrimonio culturale , in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 914 ss., sottolineando il ruolo di “custode” del giudice amministrativo in materia di beni culturali, osserva come questo “ha spesso avallato e condiviso alcune scelte coraggiose dell'amministrazione, specialmente quando si è trattato di applicare in modo estensivo la disciplina di tutela anche ad attività o comunque a situazioni di confine: si pensi alle pronunce in materia di locali storici o sulla tutela del decoro”.

[lxiii] Su questo principio si rinvia a L. Lamberti, F.G. Scoca, Valutazioni tecniche, tutela del patrimonio culturale e principio di proporzionalità , in Federalismi, fasc. n. 22-2023, 224 ss.

[lxiv] Così, ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 19 maggio 2021, n. 5864, in Riv. giur. edil., 2021, 4, I, 1355 ss. Contra, però, in senso quasi anticipatorio Cons. Stato, Sez. VI, n. 4147/2005, in www.giustizia-amministrativa.it, con riferimento al caso della Chincagliera La Coroncina, che ha ritenuto legittimo il provvedimento di vincolo impugnato in quanto con esso “non si è provveduto a tutelare l'attività commerciale, determinandone l'inamovibilità, ma si è disposto l'assoggettamento alla disciplina di cui alla l. n. 1089 del 1939 dei locali in cui l'attività stessa è situata. Ciò non comporta l'immodificabilità dell'esercizio commerciale ma impone l'esercizio d'attività compatibili con le caratteristiche storiche ed architettoniche dell'immobile”.

[lxv] In questo senso si esprimeva già Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003, in Riv. giur. edil., 2015, 3, I, 446 ss.

[lxvi] Il problema era già stato evidenziato da A.L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna (sempre più solo) italiana , in Foro amm. CdS, 2008, 2261 ss.

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Pubblicato il 10/07/2023

N. 06752/2023REG.PROV.COLL.

N. 06626/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6626 del 2021, proposto da
L'Originale Alfredo All'Augusteo S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giorgio Orsoni e Fabio Cintioli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fabio Cintioli in Roma, via Vittoria Colonna, n. 32;

contro

Ministero della Cultura, Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, in persona del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
Atlantica Properties S.p.A., non costituita in giudizio;

nei confronti

Edizione Property S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Filippo Brunetti, Alfredo Vitale e Andrea Costa, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sede di Roma (Sezione Seconda Quater), 19 maggio 2021, n. 5864.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’appello incidentale proposto dal Ministero della Cultura;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Edizione Property S.p.A. e del Ministero della Cultura;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 31 maggio 2023 il Cons. Giovanni Gallone e uditi per le parti gli avvocati Fabio Cintioli, l'avv. dello Stato Paolo Gentili e l’avv. Filippo Brunetti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. La società L’Originale Alfredo all’Augusteo S.r.l. (per brevità, anche L’Originale Alfredo) è titolare del ristorante “il Vero Alfredo”, fondato nel 1908 in Roma, via della Scrofa, trasferitosi nel 1950 nella sede di Piazza Augusto Imperatore, in uno dei locali posti al piano terra del complesso immobiliare denominato Palazzo dell’Istituto Nazionale di Previdenza sociale, dichiarato di interesse storico artistico, ai sensi dell’art. 10, comma 1, D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, con D.D.R. 22.8.2006.

2. Tale edificio, in origine di proprietà pubblica, è stato trasferito al Fondo Comune di Investimento Immobiliare di Tipo Chiuso (FIP) ai sensi del decreto legge n. 351/2001, convertito in L. n. 410/2001, per essere successivamente acquistato in blocco dalla società Atlantica Properties s.p.a. (per brevità anche “Atlantica”) con atto notarile del 28.9.2016.

Tenuto conto che l’immobile rientrava tra i beni vincolati ex lege, ai sensi degli artt. 10, commi 1 e 5, e 12, comma 1, D. lgs. n. 42/04 (trattandosi di immobile di proprietà pubblica, opera di autore non più vivente e risalente ad oltre 50 anni), ai fini dell’alienazione, è stata chiesta l’autorizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (oggi Ministero della cultura, per brevità anche “Ministero”), rilasciata con nota n. 2594 del 25 marzo 2005.

L’Amministrazione ha subordinato l’autorizzazione a talune prescrizioni, richiedendo, in particolare, la conservazione delle attuali destinazioni d’uso degli immobili e, comunque, vietando la destinazione ad usi, anche a carattere temporaneo, non compatibili con l’interesse culturale accertato o tali da creare pregiudizio alla conservazione e al pubblico godimento; i cambiamenti di destinazione d'uso rispetto all'attuale avrebbero dovuto essere preventivamente autorizzati dal competente organo periferico.

3. Il locale per cui è causa, facente parte dell’edificio in parola, destinato ad attività di ristorazione, risultava condotto dalla società L’Originale Alfredo in virtù di un contratto di locazione concluso con l’I.N.P.S. Gestione Immobiliare IGEI S.p.A. in liquidazione, mandataria dell’I.N.P.S. – Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, precedente proprietaria: tale contratto è stato disdettato per la data del 31 ottobre 2015.

4. La società Atlantica S.p.A., subentrata nella titolarità del complesso immobiliare, tenuto conto del mancato spontaneo rilascio - alla scadenza del rapporto contrattuale - dell’unità immobiliare detenuta da L’Originale Alfredo, ha intimato alla conduttrice sfratto per finita locazione.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2373 del 31 gennaio 2018 (doc. 4 allegato al ricorso di primo grado), ha dichiarato che il contratto locatizio era cessato alla scadenza del 31 ottobre 2015, ha condannato la conduttrice al rilascio dell’unità immobiliare detenuta, nonché ha fissato per l’esecuzione il termine del 2 marzo 2018.

5. Il Ministero, con nota n. 1926 del 20 marzo 2018 (doc. 5 ricorso di primo grado), richiamando un’istanza del 15 novembre 2017 presentata dalla Sig.ra Di Lelio (legale rappresentante della società L’Originale Alfredo) e alcuni sopralluoghi svolti dai funzionari responsabili dell’istruttoria, ha comunicato alle società Atlantica e L’Originale Alfredo l’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale ai sensi dell’art. 14 D. Lgs. n. 42 del 2004 relativo al locale ristorante, alle opere di Gino Mazzini e agli elementi di arredo conservati al suo interno, in quanto ritenuti di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), D. lgs. n. 42 del 2004, anche in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7-bis del medesimo decreto in relazione alla tutela delle espressioni di identità culturale collettiva.

6. Nelle more, la società proprietaria ha agito in executivis per ottenere il rilascio dell’unità immobiliare, condotta sine titulo da L’Originale Alfredo.

7. Il Ministero, con nota n. 5155 del 19 aprile 2018 (doc. 7 allegato al ricorso di primo grado), venuto a conoscenza della pendenza del procedimento esecutivo, ha comunicato alle società Atlantica S.p.A. e L’Originale Alfredo, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma e al Funzionario UNEP della Corte di Appello di Roma che, a seguito dell’avvio del procedimento di dichiarazione di interesse culturale, ai sensi dell’art. 14, comma 4, D. Lgs. n. 42 del 2004, avrebbero trovato applicazione in via cautelare le disposizioni previste dalla Parte II, Titolo I, Capo II, Capo III (Sezione I) e Capo IV (Sezione I), D. Lgs. n. 42/04; per l’effetto, l’Amministrazione statale ha chiesto, alla Procura della Repubblica e all’Ufficiale Giudiziario presso la Corte d’Appello, “la sospensiva dell’esecuzione per il rilascio dell’immobile, essendo in contrasto con le menzionate misure cautelari e potendo arrecare danno ai beni oggetto del citato procedimento”.

8. Il Ministero, con decreto n. 1088 del 18 giugno 2018 (non impugnato), ha dichiarato di particolare interesse culturale l’archivio ed i libri firma presenti nel locale destinato all’attività di ristorazione; con decreto n. 50 del 13 luglio 2018 (impugnato in primo grado), ha dichiarato “l’immobile (Ristorante) denominato “Il Vero Alfredo”, con le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati all’interno, sito in Roma, piazza Augusto Imperatore, 30 […] di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d) e in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7 bis del d. lgs.vo 22 gennaio 2004, n. 42 e ss.mm.ii.”, con conseguente sua sottoposizione “a tutte le disposizioni di tutela contenute nel predetto decreto legislativo”.

9. Il Tribunale di Roma, adito dalla società L’Originale Alfredo in sede di opposizione ex art. 615 c.p.c., con provvedimento del 1 agosto 2018 (doc. 6 ricorso di primo grado), ha rigettato l’istanza di sospensione dell’esecuzione, rilevando, tra l’altro, che lo status di negozio storico di eccellenza posseduto dal locale in parola e la disciplina di cui al D. Lgs. n. 42 del 2004 non risultavano ostativi al rilascio dell’immobile.

10. Con il decreto ministeriale n. 50 del 13.7.2018, il Ministero non si è limitato a dichiarare l’interesse particolarmente importante dell’immobile (Ristorante) con le opere e gli elementi di arredo ivi conservati, ma ha pure richiamato, quale parte integrante della dichiarazione di interesse culturale, la relazione storico-critica e il repertorio fotografico predisposti durante l’istruttoria.

10.1 Detta relazione storico-critica assume particolare importanza (doc. 3 ricorso di primo grado), influenzando la perimetrazione della portata oggettiva e soggettiva del vincolo di tutela apposto dal Ministero.

In tale relazione, in particolare, si dà atto che:

- il locale per cui è causa ha conservato nel tempo la distribuzione interna e l’allestimento originario, comprensivo degli arredi e dei bassorilievi d’epoca, in linea con il gusto del periodo che concepiva la decorazione plastica come parte integrante dell’architettura;

- la realizzazione delle raffigurazioni a stucco a decorazione degli interni è stata commissionata allo scultore Gino Mazzini, avvicinatosi sin dai primi del secolo a una visione prettamente simbolista dell’arte, riproposta come leitmotiv stilistico nella realizzazione dei bassorilievi all’interno del ristorante (rileggendo soggetti aulici e celebrativi e riproponendoli in chiave popolare);

- sono ascrivibili alla mano dello scultore, in particolare, quattro bassorilievi componenti il ciclo delle stagioni (suddiviso tra la sala “Dolce Vita” e “Celebrities”), l’insegna del ristorante Alfredo Re delle fettuccine, la scultura di Ninfa e il bassorilievo raffigurante la celebrazione del fondatore del ristorante; su progetto dello scultore sono stati realizzati la balaustra metallica del coretto per l’orchestra (infissa su un pilastrino in gesso di gusto floreale, decorata con note dorate corrispondenti al motivo della celebre aria verdiana della Traviata “Amami Alfredo”) e il bancone bar in marmo e ottone all’ingresso della sala “Dolce Vita”;

- appartengono all’arredo originario anche le lampade a sospensione e le applique in vetro opalino e ottone - che mostrano un’armoniosa inclinazione per le geometrie moderniste e i materiali in stile Art Decò - la fontana (in vetro opalino) al centro della sala Celebrities, mentre sono stati nel tempo rinnovati la boiserie di radica (con conservazione del disegno e delle dimensioni dei pannelli originari) e i tendaggi;

- il locale ha aperto al pubblico nel 1950, dapprima come Alfredo, successivamente come l’Originale Alfredo (fino a circa il 1990) e, infine, come il Vero Alfredo, mantenendo inalterati i caratteri stilistici originari;

- il ristorante, “per il suo carattere e la sua singolarità”, è stato frequentato da personalità dello spettacolo e della vita culturale e politica, come attestato da 403 foto apposte sulle pareti, che insieme ai 58 libri-firme delle Celebrities (capi di Stato, reali, intellettuali, personaggi dello spettacolo di fama nazionale e internazionale, sportivi), rilegati per annata, sono stati dichiarati di interesse storico particolarmente importante con dichiarazione del 18.6.2018, n. 1088 (non impugnata); all’interno di alcune vetrine sono presenti anche alcuni cimeli storici e oggetti ricevuti in dono.

10.2 Sulla base di tali rilievi fattuali il Ministero ha riconosciuto l’interesse culturale “nella continuità ininterrotta dell’unione tra locale ristorante, arredi ed opere artistiche, tradizione enogastronomica e sociabilità che, dai primi anni cinquanta ad oggi, hanno reso il ristorante uno spazio fisico e simbolico di accoglienza e di incontro di “mondi” e individui dalla provenienza geografica e sociale estremamente diversificata; un teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati significativi da parte di personaggi illustri italiani e stranieri e di gente comune”.

Secondo quanto ritenuto dall’Amministrazione statale, la frequentazione del locale da parte di soggetti e gruppi sociali tra i più diversificati, ha dato vita ad un insieme estremamente ricco e composito di storie e di memorie – tramandate dalle narrazioni e dai gesti di camerieri, cuochi e gestori – la cui preservazione consente uno sguardo inedito sul costume e sulla vita della città di Roma, a partire dal dopoguerra, passando per gli anni della “Dolce Vita” fino ai recenti sviluppi del turismo internazionale e di massa, nonché su aspetti peculiari della costruzione dell’immaginario dell’italianità all’estero, in particolare negli Stati Uniti e in America Latina.

10.3 A supporto di tale valutazione, il Ministero:

- ha elencato alcuni frequentatori illustri del locale, segnalando, tra l’altro, la dedica e il disegno apposti da Walt Disney, un’annotazione critica di Palmiro Togliatti (fonte di dibattito in una pagina di uno degli album), il disegno del proprio profilo apposto da Hitchcock, nonché i versi composti in onore di Alfredo e delle sue fettuccine da Aznavour;

- ha rappresentato che nel locale: a) si esibivano alla fine degli anni Cinquanta il chitarrista Spina e il violinista Cioppettini, noti jazzisti; b) sono state girate, nei primi anni Settanta, una scena del film Polvere di Stelle, recentemente, una scena del film To Rome with Love, avendo Woody Allen scelto tale sede in ragione del valore simbolico che il luogo incorporava in relazione al mondo del cinema hollywoodiano e alla costruzione dell’immaginario della “Dolce Vita”; c) è stata tenuta la conferenza stampa di presentazione del film “La Scomparsa di Patò” alla presenza del cast completo e di Andrea Camilleri, autore dell’omonimo romanzo;

- ha segnalato la notorietà all’estero del Il Vero Alfredo, già consolidata in Europa e negli Stati Uniti, e proseguita negli anni ’70 e ’80 tramite la prassi dei festival e l’apertura di alcuni ristoranti in franchising in Ameria Latina (in particolare, in Brasile e in Messico);

- ha valorizzato la personalità istrionica del fondatore Alfredo Di Lelio, costituente tutt’oggi l’elemento di attrazione per gli avventori;

- ha evidenziato il successo di una formula gastronomica e di ospitalità, perpetuatasi attraverso immutate prassi di attività che, ancorché ammantata di mondanità e lustro spettacolare, è profondamente nutrita di elementi della tradizione popolare, italiana e specificamente romana;

- ha precisato che la socialità goliardica costituisce uno dei tratti più fortemente caratterizzanti l’atmosfera del locale in continuità tra passato e presente, espressa ad esempio dalla gestualità del ristoratore e del direttore di sala, che mescolavano le fettuccine di fronte ai clienti al ritmo della tarantella prima di servirle; rito ancora oggi rinnovato dai camerieri.

10.4 Alla luce di tali considerazioni, l’Amministrazione ha ritenuto che il Vero Alfredo debba essere tutelato “ai sensi dell’art. 10 comma 3 lett. d) del D. Lgs. n. 42/2004 e anche ai sensi dell’art. 7-bis del suddetto Codice, quale “espressione di identità culturale collettiva”, espressamente evidenziando come il patrimonio immateriale de “Il Vero Alfredo” sia costituito dall’insieme de “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”, come definito nell’art. 2 della Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”.

In particolare, si farebbe questione di “attività dell’esercizio […] portata avanti con continuità dal 1948 ad oggi dalla famiglia Di Lelio, in qualità di affittuaria e unico gestore dei locali, mantenendo inalterate nel tempo le condizioni strutturali e architettoniche degli interni, la continuità merceologica e le caratteristiche morfologiche degli arredi e delle testimonianze presenti all’interno dei locali”.

10.5 Infine, l’Amministrazione ha valorizzato le delibere comunali con cui il ristorante:

- è stato inserito nell’istituendo Albo dei Negozi Storici di Eccellenza di Roma come “attività storica”, in quanto attività commerciale gestita dalla stessa famiglia da almeno tre generazioni, per oltre 70 anni, nello stesso settore merceologico e nello stesso locale all’interno del perimetro della città storica (delibera consiliare n. 10 del 2010);

- ha ricevuto l’attribuzione del riconoscimento di “attività storica di eccellenza” e l’iscrizione dell’attività dell’albo dei negozi storici di eccellenza (determinazione dirigenziale n. 913 del 2012).

10.6 L’esigenza di sottoporre a tutela il ristorante è stata, in conclusione, individuata nella conservazione, “oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale”.

11. La società Atlantica S.p.A., ricorrendo dinnanzi al T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, ha impugnato il decreto ministeriale n. 50 del 13 luglio 2018 e gli atti connessi domandandone l’annullamento.

11.1 A sostegno del ricorso di primo grado ha dedotto le censure così rubricate:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 10, c. 3, lett. d) e 7-bis del d.lgs. 42/2004. Violazione degli artt. 41 e 42 della costituzione. violazione dei principi di riserva di legge e di stretta legalita’ e dell’art. 282 c.p.c.. Violazione e falsa applicazione delle deliberazioni n. 10/2010 e n. 36/2006 del comune di Roma. eccesso di potere per irragionevolezza e sproporzione. Sviamento;

2) violazione e falsa applicazione dell’art. 10, c. 3, lett. d) e dell’art. 7-bis del d.lgs. n. 42/2004. Eccesso di potere per difetto dei presupposti e sproporzione, difetto di motivazione e di istruttoria, contraddittorietà;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 7-bis del d.lgs. 42/2004 e dell’art. 2 della convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (Parigi, 17 ottobre 2003). Eccesso di potere per difetto di istruttoria, di motivazione e dei presupposti.

12. Ad esito del relativo giudizio il T.A.R. adito, con sentenza n. 5864 del 19 maggio 2021, ha ritenuto fondato il ricorso con riguardo a tutti e tre i motivi di gravame disponendo, per l’effetto, l’annullamento degli atti impugnati.

12.1 Il giudice di prime cure ha, in particolare, rilevato che:

- dalla completa lettura del provvedimento emergeva l’imposizione di un vero e proprio vincolo di destinazione dei locali in cui si svolgono attività tradizionali “espressione di identità culturale collettiva”;

- l’esigenza di rispettare i principi di proporzionalità e ragionevolezza richiederebbe di limitare la portata del vincolo di destinazione d’uso dei beni per i quali tale possibilità è espressamente prevista dal legislatore all’art. 11, comma 1, lett. b), e 51 d.lgs. n. 42 del 2004 (studi d’artista) e varrebbe, a maggior ragione, per quelli di cui all’art. 11, comma 1, lett. c), e 52, comma 1-bis, per i quali il legislatore prevede un mero intervento inteso a sostenere le attività private secondo moduli di azione consensuale, mediante l’adozione di misure promozionali, con l’esclusione della possibilità di imporre divieti o obblighi di prosecuzione di determinate tipologie di attività o settori merceologici negli immobili;

- non potrebbero, dunque, essere vincolate le attività svolte in tali immobili mediante l’assoggettamento dei locali ad un vincolo di destinazione d’uso, in quanto quel che potrebbe essere vincolato sarebbe soltanto l’immobile, in presenza delle condizioni, diverse ed ulteriori, prescritte dagli artt. 10 e 13 del Codice per dichiararlo “bene culturale”, idonee a giustificare un vincolo a tutela della conservazione del bene, non dell’attività ivi svolta;

- parimenti, l’art. 7-bis del d.lgs. n. 42 del 2004 non includerebbe l’universo delle attività artigianali e commerciali tradizionali, ma si riferirebbe ad un insieme ben più circoscritto, a quelle che costituiscono “espressioni di identità culturale collettiva”, rappresentanti non solo un quid pluris, ma anche qualcosa di ontologicamente diverso già a partire dal riconoscimento - richiedente necessariamente la partecipazione di quelle stesse Comunità di cui quell’attività costituisce l’espressione e che attribuiscono ad essa quel valore identitario alla base della loro protezione - secondo un processo “bottom up” che caratterizza la natura necessariamente sussidiaria dell’intervento pubblico in tale settore;

- non sarebbe, dunque, possibile, sulla base delle previsioni codicistiche, vincolare il bene, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività, impedendo qualunque uso alternativo della cosa stessa; una tale politica, a prescindere dall’arbitrarietà per mancanza di base giuridica, se non per il contrasto con l’intenzione del legislatore delegato, nonché per la totale estraneità allo spirito delle Convenzioni internazionali in materia, risulterebbe insostenibile in quanto intrinsecamente irragionevole e sproporzionata;

- si sarebbe, inoltre, di fronte a misure dirigistiche, comportanti limitazioni extra legem alla libertà d’impresa ed alla proprietà privata, nell’illusione di contrastare le tendenze del “mercato” derivanti dalle modificazioni del turismo;

- nella specie, sarebbe pure ravvisabile un contrasto tra il provvedimento di vincolo e la relazione di accompagnamento, che testimonierebbe l’oggettiva difficoltà del passaggio dalla fase del “riconoscimento” dell’espressione di “identità culturale collettiva” di una determinata attività alla fase dell’individuazione della “modalità di tutela” della stessa, ove quest’ultima sia costituita da una “cosa materiale”;

- l’incertezza e l’incoerenza della motivazione del provvedimento impugnato, pure riverberandosi in un vizio inficiante l’operato dell’Amministrazione nello specifico caso di specie, sarebbe infatti soprattutto il risultato emblematico della criticità dell’impostazione generale di una linea d’azione che intende tutelare l’attività mediante il tradizionale vincolo come “bene culturale” della res in cui la prima si è concretizzata;

- l’assoggettamento a tutela del Ristorante Alfredo genererebbe pure perplessità sotto il profilo della rispondenza dell’esercizio in parola a quei caratteri di rappresentatività e rarità necessari per assoggettare a vincolo un bene culturale anche di tipo immobile, emergendo caratteristiche, come descritte nella Relazione illustrativa del provvedimento di vincolo, tipiche di molti ristoranti del centro storico.

13. Con ricorso notificato il 14 luglio 2021 e depositato il 16 luglio 2021 L’Originale Alfredo all’Augusteo S.r.l. ha proposto appello avverso la sentenza n. 5864 del 19 maggio 2021 del T.A.R. per il Lazio – sede di Roma chiedendone, previa sospensione dell’efficacia ex art. 98 c.p.a., la riforma.

13.1 A sostegno del suddetto appello principale ha dedotto i motivi così rubricati:

1) Violazione di legge – Violazione art. 9 Cost. – Violazione artt. 10, co. 1,3, lett. d) e 5, art. 7-bis, art. 11 e art. 52, co. 1bis Dlgs 42/04 – Eccesso di potere – Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto – Contraddittorietà;

2) Violazione di legge – Violazione artt. 10, co. 1,3, lett. d) e 5, art. 7-bis, art. 11 e art. 52, co. 1bis Dlgs 42/04 – Eccesso di potere – Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto – Carenza di interesse – Difetto di motivazione;

3) Violazione di legge – Violazione artt. 10, co. 1,3, lett. d) e 5, art. 7-bis, Dlgs 42/04 – Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato – Eccesso di potere – Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto – Carenza di interesse – Difetto di motivazione – Illogicità;

4) Violazione di legge – Violazione artt. 10, co. 1,3, lett. d) e 5, art. 7-bis, Dlgs 42/04 – Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato – Eccesso di potere – Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto – Carenza di interesse – Difetto di motivazione – Illogicità.

14. In data 20 luglio 2021 si è costituito in giudizio, a mezzo dell’Avvocatura erariale, il Ministero della cultura.

15. Con ricorso notificato il 20 luglio 2021 e depositato il 24 luglio 2021, lo stesso Ministero della cultura ha proposto appello incidentale autonomo avverso la sentenza n. 5864 del 19 maggio 2021 del T.A.R. per il Lazio – sede di Roma chiedendone, previa sospensione dell’efficacia ex art. 98 c.p.a., la riforma con reiezione del ricorso di primo grado proposto da Atlantica Properties S.p.A..

15.1 A sostegno del suddetto appello incidentale ha dedotto un unico, articolato motivo di gravame, sostenendo la legittima applicazione degli artt. 7-bis e 10 D.Lgs. n. 42/04 e l’insindacabilità del giudizio dell’amministrazione statale, nonché contestando i singoli capi della sentenza impugnata.

16. Il 6 agosto 201 si è costituita in giudizio la società Edizione Property S.p.A., subentrata nella posizione della ricorrente in primo grado, resistendo alle avverse impugnazioni e chiedendone la reiezione previo rigetto della proposta istanza cautelare.

17. Ad esito dell’udienza in camera di consiglio del 9 settembre 2021 questa Sezione, con ordinanza cautelare n. 4747 del 10 settembre 2021, “considerata la gravità del danno derivante a parte appellante dall’esecuzione della sentenza qui impugnata”, ha accolto l’istanza cautelare e sospeso l’esecutività della sentenza impugnata.

18. In data 14 marzo 2022 l’appellante in via principale e l’appellata Edizione Property S.p.A. hanno depositato memorie difensive.

19. Il 24 marzo 2022 le predette hanno depositato memorie in replica.

20. Ad esito dell’udienza pubblica del 14 aprile 2022 questa Sezione, preso atto dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia di ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso, ha disposto, con ordinanza collegiale n. 5357 del 2022, il deferimento all’Adunanza plenaria ex art. 99, comma 1, c.p.a. per la soluzione dei seguenti quesiti:

“1) se, in presenza di beni culturali per “riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell'industria e della cultura in genere” ex art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04, il potere ministeriale di tutela ex artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04, possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso del bene culturale, funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici; in caso affermativo, se ciò possa avvenire soltanto qualora la res abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione e un suo stretto collegamento per un'iniziativa storico-culturale di rilevante importanza ovvero ogniqualvolta le circostanze del caso concreto, secondo la valutazione (tecnico) discrezionale del Ministero, adeguatamente motivata nel provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale sulla base di un’approfondita istruttoria, giustifichino l’imposizione di un siffatto vincolo di tutela al fine di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato;

2) se, in presenza di beni culturali ex art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04 che rappresentino (altresì) una testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, il potere ministeriale di tutela ex artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04. D. Lgs. n. 42/04, in combinato disposto con l’art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso della res a garanzia non solo della sua conservazione, ma pure della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa costituisce testimonianza”.

21. A seguito della remissione all’Adunanza plenaria operata da questa Sezione, in data 11 novembre 2022 l’appellante in via principale e l’appellata Edizione Property S.p.A. hanno depositato memorie difensive. Egualmente ha provveduto in data 12 novembre 2022 il Ministero appellante in via incidentale.

21.1 Le medesime parti hanno depositato in data 23 novembre 2022, memorie in replica.

22. Ad esito dell’udienza pubblica del 14 dicembre 2022, con sentenza n. 5 del 13 febbraio 2023, l’Adunanza plenaria ha enunciato i seguenti principi di diritto:

1) “ai sensi degli articoli 7 bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il «vincolo di destinazione d’uso del bene culturale» può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato”;

2) “ai sensi degli articoli 7 bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il «vincolo di destinazione d’uso del bene culturale» può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza”.

22.1. L’Adunanza plenaria ha, quindi, disposto la restituzione del giudizio ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., a questa Sezione perché decida sugli appelli proposti e provveda anche sulle spese di giudizio.

23. In data 28 aprile 2023 l’appellante in via principale, l’appellante in via incidentale e la Edizione Property S.p.A. hanno depositato memorie difensive.

23.1 Il 10 maggio 2023 Edizione Property S.p.A. e l’appellante in via principale hanno depositato memorie in replica.

24. Non si è costituita in giudizio Atlantica S.p.A.

25. All’udienza pubblica del 31 maggio 2023 la causa è stata introitata per la decisione.

DIRITTO

1. È possibile procedere all’esame contestuale dell’appello principale proposto da L’Originale Alfredo all’Augusteo S.r.l. e dell’appello incidentale autonomo proposto dal Ministero della cultura, recando le stesse censure in massima parte coincidenti.

1.1 Essi sono fondati e meritano accoglimento.

2. Con il primo motivo dell’appello principale si censura la sentenza impugnata nella parte in cui il T.A.R. per il Lazio ha accolto il primo motivo del ricorso di primo grado osservando che:

- il legislatore avrebbe attribuito al M.I.B.A.C. il potere di imporre misure volte a tutelare l’uso di un bene soggetto a vincolo solo in casi del tutto eccezionali (come nel caso previsto dal combinato disposto degli artt. 11 e 51 del d.lgs. n. 42 del 2004 per la tutela degli “studi d’artista”) e, in ogni caso, nel rispetto del limite dei principi di ragionevolezza e proporzionalità;

- nel caso di specie troverebbe applicazione il regime di cui al combinato disposto degli artt. 11 e 52, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004 che contempla un sistema di “misure premiali, con l’esclusione della possibilità di imporre divieti o obblighi di prosecuzione di determinate tipologie di attività o settori merceologici negli immobili” in quanto “non possono essere vincolate le attività svolte in tali immobili mediante l’assoggettamento dei locali ad un vincolo di destinazione d’uso; quel che può essere vincolato è l’immobile, ove sussistano le condizioni, diverse ed ulteriori, prescritte dall’art. 10 e 13 del Codice per dichiararlo «bene culturale», che appunto costituisce un vincolo a tutela della conservazione del bene, non dell’attività svolta”;

- questa ricostruzione troverebbe conferma nell’introduzione della disciplina “dei nuovi beni culturali intangibili”, che avrebbe comportato all’interno del d.lgs. n. 42 del 2004 la configurazione di un sistema di protezione “binario” composto, da un lato, “dalle tradizionali misure autoritative vincolistiche previste a tutela del bene culturale, che hanno ad oggetto l’immobile in cui si svolgono” le attività quali quelle elencate all’art. 52, comma 1-bis del d.lgs. n. 42 del 2004 e, dall’altro lato, “le classiche misure promozionali utilizzate per il sostegno delle attività (artigianali e commerciali) ivi svolte, riconosciute di valore culturale, in quanto espressione dell’identità collettiva ai sensi dell’articolo 7-bis” del medesimo d.lgs. n. 42 del 2004;

- più segnatamente, l’art. 7- bis del d.lgs. n. 42 del 2004, ove tutela le attività tradizionali che costituiscono “espressioni di identità culturale collettiva”, non farebbe altro che ribadire, come già previsto dall’art. 10 del medesimo d.lgs., che possono essere oggetto di tutela le “attività” che abbiano “un valore sotto il profilo di quell’interesse storico-artistico-archeologico-etnologico”, a condizione che esse si traducano in una “entità materiale”;

- la nozione di “espressione di identità culturale collettiva” delle Convenzioni UNESCO, cui fa riferimento il citato art. 7-bis, non solo non coinciderebbe con l’oggetto della tutela delineato dall’art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004, sul piano “ontologico”, costituendone un quid pluris, ma, se ne differenzierebbe oltretutto sul piano “procedimentale”, in relazione al suo riconoscimento, in quanto richiederebbe necessariamente a tal fine la partecipazione di quelle stesse Comunità di cui l’attività che si intende tutelare costituisce l’espressione, laddove, nel caso della tutela generale prevista dall’art. 10, il relativo procedimento di individuazione dell’interesse culturale sarebbe, invece, rimesso esclusivamente alla sola Autorità; vi sarebbe, pertanto, una profonda differenza tra ciò che viene individuato come “espressione di identità culturale collettiva” e i “beni culturali” individuati dal Codice, a cui dovrebbe corrispondere per i primi una “diversità degli strumenti di tutela, non risultando adeguati a salvaguardare «attività» le misure previste dal legislatore per conservare le «cose»”;

- da tanto discenderebbe, in conclusione, l’“assoluto difetto di base legale del vincolo di destinazione che il Ministero pretenderebbe di apporre sul locale in contestazione” e di conseguenza l’illegittimità del decreto impugnato.

Secondo parte appellante in via principale il provvedimento impugnato in primo grado non potrebbe ritenersi privo di base legale, discendendo dall’art. 20 d.lgs. n. 42 del 2004 la possibilità di imporre un vincolo di destinazione d’uso al bene culturale.

Peraltro, l’art. 7-bis del d.lgs. n. 42 del 2004 sarebbe funzionale all’introduzione di una tutela dell’immateriale e, quindi, anche della sola attività in atto in un dato luogo e momento, superando in tale modo il regime vincolistico tradizionale delineato dal Codice; in ogni caso, nella specie vi sarebbe anche un riferimento al bene materiale, dato dall’immobile vincolato in forza delle prescrizioni contenute nella nota prot. 2594/2005, ospitante il ristorante “Il Vero Alfredo”.

In particolare, l’introduzione della disposizione di cui all’art. 7- bis del d.lgs. n. 42 del 2004 è volta proprio a confermare la necessità, già del resto implicitamente rinvenibile nella disciplina dei beni culturali, che sia fornita una apposita tutela a quei beni materiali che assumono rilevanza culturale non in sé, ma solo in quanto, per l’appunto, “espressioni di identità culturale collettiva”.

In questo senso, l’art. 52, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004 avrebbe introdotto una disciplina specifica per i locali nei quali si svolgono attività artigianali e commerciali tradizionali (“al fine di assicurarne forme di promozione e salvaguardia”), ma con queste modalità non si esaurirebbe affatto l’ambito di applicazione dell’art. 7-bis per gli immobili, nei quali tali attività vengono realizzate (“fermo restando quanto previsto dall'articolo 7-bis”). Quest’ultima disposizione andrebbe piuttosto ad integrare il sistema di tutele tradizionali già previsto dal Codice rafforzandolo proprio in relazione a quelle attività che costituiscono “espressione di identità culturale collettiva”.

Si aggiunge, in ultimo, che il T.A.R. avrebbe mosso dall’erroneo presupposto che, con il decreto n. 50 del 2018, il M.I.B.A.C. abbia tutelato l’attività di ristorazione condotta dall’Originale Alfredo nei locali di cui trattasi e non l’immobile nel quale tale attività viene realizzata. In particolare, si evidenzia che, come emergerebbe dal dato testuale del provvedimento gravato in primo grado, “l’immobile (Ristorante) denominato «il Vero Alfredo» con le opere di Gino Mazzini e gli elementi d’arredo conservati al suo interno” sono stati dichiarati di “interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10 comma 3, lett. D. («Beni culturali»), e in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7-bis («Espressioni di identità culturale collettiva») D.Lvo 22 gennaio 2004 n. 42 ss.mm.ii” sicché l’oggetto della tutela, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure, non consisterebbe nella mera attività di ristorazione, bensì nel complesso di beni, evidentemente inscindibili, rappresentato dall’immobile, dai beni e dagli arredi ivi contenuti, nonché da ultimo, dall’attività svolta nei locali.

2.1 Con il secondo motivo dell’appello principale si censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di prime cure ha affermato che “l’assoggettamento a tutela del Ristorante Alfredo costituisce un’operazione che solleva perplessità sotto il profilo della rispondenza dell’esercizio in parola a quei caratteri di rappresentatività e rarità che sono necessari per assoggettare a vincolo un bene culturale anche di tipo immobile”. Ad avviso del T.A.R., in particolare, “le caratteristiche del Ristorante Alfredo, come descritte nella Relazione illustrativa del provvedimento di vincolo, sono quelle tipiche di molti ristoranti del centro storico” di Roma, sicché il provvedimento di cui trattasi sarebbe “affetto dal denunciato vizio di difetto di istruttoria, in quanto basato su una visione «atomistica» che ha preso in considerazione le caratteristiche del Ristorante Alfredo […] senza specificare se e come il locale in questione si ponesse in posizione particolare rispetto alla categoria di appartenenza dei rinomati locali del Centro che presentano le medesime caratteristiche”.

Ad avviso di parte appellante dette affermazioni sarebbero errate sotto due distinti profili.

In primo luogo, diversamente da quanto affermato dal T.A.R., la Relazione allegata al decreto, in realtà, sottolineerebbe in modo scrupoloso ed analitico le motivazioni per le quali il M.I.B.A.C. ha ritenuto di apporre il vincolo culturale di cui trattasi sul locale gestito dall’Originale Alfredo. Si tratterebbe, peraltro, di motivazioni che evidenziano oggettivamente le specificità del locale di cui si discute rispetto alle diverse e certamente meno meritevoli caratteristiche rintracciabili in altri locali del centro storico cittadino in grado di mettere in risalto l’indissolubile connessione fra beni materiali e beni immateriali grazie ai quali si realizza quell’ “Espressione di identità culturale collettiva” meritevole di tutela.

In secondo luogo, il T.A.R., nel ritenere insufficienti e carenti le argomentazioni svolte dalla Soprintendenza a supporto della decisione di vincolare l’immobile che ospita l’attività dell’Originale Alfredo, in realtà avrebbe compiuto una valutazione di merito circa l’operato della Soprintendenza, mettendo in discussione direttamente l’apprezzamento tecnico svolto dalla stessa sull’immobile in questione.

2.2 Con il terzo motivo dell’appello principale si censura la sentenza impugnata nella parte in cui il T.A.R. ha accolto il terzo motivo del ricorso di primo grado con cui Atlantica Properties S.p.A. aveva dedotto che l’art. 7-bis d.lgs. n. 42 del 2004 non avrebbe consentito l’introduzione di un’apposita tutela “culturale” per l’attività svolta dall’Originale Alfredo, essendo questa ultima al più rappresentativa di una mera “tradizione enogastronomica” e non dunque espressione dei valori indicati in tale disposizione, e che l’apposizione di un vincolo quale quello in esame avrebbe dato luogo ad un “aggiramento” del “procedimento previsto dall’Unesco per l’iscrizione nelle proprie liste e per l’ottenimento della relativa specifica tutela”.

In particolare, secondo parte appellante in via principale, il giudice di prime cure avrebbe mancato di affrontare specificatamente tale profilo di doglianza (e le difese svolte da parte resistente in primo grado) limitandosi in maniera apodittica ed erronea ad affermare che “il motivo non fa che confermare quanto sopra già illustrato che vale, a maggior ragione, come premessa maggiore che include la minore”.

Per contro, parte appellante osserva che la Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003, all’art. 1, lett. b), prevede espressamente tra le finalità della convenzione di “assicurare il rispetto per il patrimonio culturale immateriale delle comunità, dei gruppi e degli individui interessati” pure aggiungendo, al successivo art. 2, che “per «patrimonio culturale immateriale» s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. Tali previsioni, diversamente da quanto era stato sostenuto dalla ricorrente in primo grado, sarebbero, ad avviso di parte appellante in via principale, certamente applicabili alla situazione in cui versa il Ristorante il “Vero Alfredo”.

Sotto altro profilo, sarebbe errata anche l’affermazione, contenuta nella sentenza gravata, secondo cui rientrerebbero nella tutela prevista dall’UNESCO i soli “beni” riconosciuti ad esito del procedimento previsto nel sito di tale Istituzione. Con ciò si farebbe, infatti, coincidere in modo erroneo il procedimento di candidatura dei siti UNESCO con l’azione di salvaguardia che il Ministero è tenuto a svolgere sul territorio italiano, ove ritenga sussistenti, come nel caso di specie, i presupposti previsti dal d.lgs. n. 42 del 2004, come del resto stabilito anche dal sopra citato art. 7-bis del medesimo decreto.

2.3 Con il quarto ed ultimo motivo dell’appello principale si censura, in via subordinata, la decisione impugnata nella parte in cui il giudice di prime cure si è limitato a ritenere tout court illegittimo il decreto n. 50 del 2018 lasciando del tutto immotivatamente privi di tutela beni ed arredi (“l’immobile (Ristorante) denominato «il Vero Alfredo» con le opere di Gino Mazzini e gli elementi d’arredo conservati al suo interno”) che in realtà la Soprintendenza avrebbe già valutato essere di indubbio interesse culturale.

3. Con l’unico, articolato, motivo dell’appello incidentale il Ministero precisa, anzitutto, che il provvedimento impugnato in prime cure si atteggia quale atto unitario rispetto all’immobile, alle opere d’arte e agli arredi in esso contenuti (art. 10, comma 3, lett. d, del d.lgs. n. 42 del 2004) e agli aspetti immateriali (art. 7-bis del d.lgs. n. 42 del 2004), relativi alla tradizione culturale enogastronomica, di convivialità e socialità del ristorante in esso incorporati - tutti elementi presenti fin dalla fondazione del locale – e che, in ogni caso, tale atto non avrebbe il fine di garantire la continuità d’uso dei locali da parte di uno specifico gestore, né tanto meno la destinazione d’uso dei locali al fine di favorire una determinata attività imprenditoriale o commerciale. Aggiunge, poi, che il provvedimento gravato in primo grado intende tutelare il bene come luogo di ritrovo, convivialità e socialità, frequentato costantemente nel tempo da persone di cultura italiana e straniera, nonché politici, capi di Stato e regnanti di tutto il mondo.

Si sostiene, pertanto, che tali esigenze di tutela, determinate dall’utilizzazione dei beni e dalla loro finalità, avrebbero consentito l’imposizione di un vincolo limitativo della sfera proprietaria, giustificato nella funzione sociale che la proprietà privata deve comunque svolgere.

Osserva parte appellante che la decisione del T.A.R., nell’affermare che possono essere oggetto di tutela soltanto le cose materiali, avrebbe erroneamente accolto un’interpretazione abrogante e contraria alla lettera dell’art. 7 -bis d.lgs. n. 42 del 2004, disposizione tesa a garantire la tutela delle manifestazioni culturali immateriali “espressioni di identità culturale collettiva”, in presenza della duplice condizione che tali manifestazioni siano rappresentate da testimonianze materiali - con la conseguenza che la cosa non rileverebbe quale oggetto diretto di tutela, ma come mezzo di prova dell’esistenza della manifestazione culturale immateriale tutelata – e che le relative testimonianze soddisfino i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’art. 10 del Codice; sicché “la manifestazione non è percepibile senza la cosa, e la cosa acquista il suo valore di testimonianza, e dunque integra i presupposti dell’art. 10, in quanto “sede” della manifestazione culturale” (pag. 8 ricorso in appello incidentale).

Il giudice di primo grado avrebbe, dunque, errato nel contrapporre la tutela delle cose e la tutela delle attività, tenuto conto che gli artt. 7-bis e 10 cit. dimostrerebbero “che non vi è nulla da contrapporre, bensì che vi è da accertare in modo integrato se la cosa materiale meriti tutela solo per la sua intrinseca consistenza, o anche per la sua connessione funzionale con una attività o con un costume (con una manifestazione immateriale) aventi valore culturale collettivo, che di quella cosa materiale abbiano fatto la propria sede e il proprio strumento” (pag. 8 ricorso in appello incidentale).

In particolare, secondo parte appellante in via incidentale, la tutela ex art. 10 del d.lgs. n. 42 del 2004 non verrebbe snaturata, perché essa presuppone sempre la presenza di una cosa materiale, ma verrebbe ampliata, perché può ora giungere a ravvisare la culturalità della cosa materiale non solo nella sua consistenza intrinseca, ma anche nella sua connessione con manifestazioni culturali immateriali.

Si aggiunge che la proprietà e l’impresa nella Costituzione sono riconosciute e garantite a condizione e nei limiti della loro funzione sociale e che la tutela dei valori culturali collettivi, affermata come principio generale dall’art. 9 Cost., costituirebbe un aspetto fondamentale della funzione sociale della proprietà e dell’impresa (e anche un elemento che può, a sua volta, assumere una portata economica non indifferente).

Sotto altro profilo, il T.A.R. avrebbe, pure, invaso il merito amministrativo, non esaminando in modo specifico i contenuti della relazione storico critica a base del provvedimento impugnato in primo grado, ma svolgendo, anche sulla base di improprie comparazioni, valutazioni sostitutive sull’idoneità del locale ad essere ammesso alla tutela culturale. Il che si porrebbe in contrasto con la natura stessa del giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale, il quale sarebbe connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa. Nel dettaglio, secondo parte appellante in via incidentale, il giudice di prime cure si sarebbe spinto fino a mettere in dubbio l’effettiva sussistenza per il Vero Alfredo dei caratteri necessari ai fini dell’apposizione del vincolo, sminuendone l’effettivo interesse culturale e assimilandolo a una molteplicità di ristoranti collocati nel centro storico di Roma. Si sottolinea, per contro, come la peculiarità ravvisata nel locale in parola sarebbe proprio da identificarsi nella distintiva compresenza di aspetti materiali e immateriali che denotano un interesse di carattere storico, storico artistico e demoetnoantropologico (l’edificio di Morpurgo, gli apparati decorativi di Mazzini, gli arredi originali e i valori storico-culturali trasmessi in virtù delle caratteristiche di luogo di memoria e sociabilità).

Infine, parte appellante in via incidentale deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il T.A.R. avrebbe impropriamente sovrapposto l’azione di tutela prevista e disciplinata dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e legittimamente esercitata dagli Organi del M.I.B.A.C. sul territorio nazionale attraverso un procedimento verticale di tipo “autoritativo”, con l’iter di candidatura degli elementi del patrimonio immateriale nelle diverse Liste/Registri UNESCO (quali la Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale o quella del Patrimonio Intangibile dell’Umanità che necessita di salvaguardia urgente o ancora il Registro delle Buone Pratiche) ai fini di un’azione di salvaguardia promossa a livello sovranazionale che seguirebbe un approccio partecipativo “bottom up”. Si osserva, in particolare, da un lato, che la procedura di candidatura Unesco alle liste del Patrimonio Culturale Immateriale segue percorsi del tutto svincolati dai procedimenti di tutela e, dall’altro, che, nel momento in cui l’Amministrazione opera invece entro i limiti normativi previsti dal d.lgs. n. 42/2004 e applica l’art. 7-bis alle attività di tutela e di valorizzazione previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, effettua, secondo la metodologia di indagine etnografica, una mediazione tra le istanze identitarie e le forme di autorappresentazione “dal basso” delle comunità detentrici di specifici beni materiali o attività culturali e i parametri e le concezioni necessari al loro riconoscimento istituzionale. Detta indagine etnografica risulterebbe, nel caso di specie, dalla “Relazione di valutazione degli aspetti demoetnoantropologici e immateriali legati a «Il Vero Alfredo»” elaborata dai funzionari tecnico-scientifici della Direzione Generale A.B.A.P. del Ministero, che avrebbe individuato e raccolto, in linea anche con quanto stabilito dalla Convenzione di Faro, le narrazioni, la memoria collettiva e le pratiche culturali che si sono incentrate storicamente, e proseguono ancora oggi, intorno al bene di che trattasi.

4. Le suddette censure, che possono essere esaminate congiuntamente, meritano positivo apprezzamento.

È sufficiente, in proposito, fare applicazione al caso concreto dei principi di diritto elaborati dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 5 del 13 febbraio 2023 (al cui ampio corredo motivazionale si rinvia in ossequio al canone di sinteticità ex art. 3, comma 2, c.p.a.).

4.1 Anzitutto, occorre rilevare che il Supremo Consesso, dopo aver riepilogato i tre diversi indirizzi interpretativi formatisi sulle questioni in esame, ha affermato di “aderire al terzo orientamento” ossia quello “che ammette l’imposizione di un vincolo culturale di destinazione d’uso, previa adeguata esposizione delle ragioni che ne sono alla base”, trattandosi dell’orientamento che “è basato sulla legislazione vigente ed è anche maggiormente conforme agli obiettivi di interesse generale sottesi alla tutela dei beni culturali, oltre che coerente con il quadro costituzionale di riferimento”.

Tanto impone, all’evidenza, l’accoglimento delle doglianze formulate a mezzo primo motivo dell’appello principale e dell’unico motivo dell’appello incidentale.

Per le ragioni esposte nella decisione dell’Adunanza plenaria, il giudice di prime cure ha, infatti, errato a ritenere che il provvedimento impugnato in primo grado, nell’imporre un vincolo di destinazione d’uso, fosse privo di base legale, atteso che quest’ultima è da rinvenire in una lettura sistematica del Codice dei beni culturali e, segnatamente, nel combinato disposto degli artt. 7-bis e 20 del d.lgs. n. 42 del 2004.

È, peraltro, opportuno ribadire, per completezza, nel solco di quanto già osservato nella decisione del Supremo Consesso (punto 3.8. della motivazione), che detto vincolo non si appunta sull’attività commerciale e imprenditoriale in sé considerata ma su come la stessa è esercitata in relazione ai beni che ne sono testimonianza materiale.

Ne discende che esso non si sostanzia nell’obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività né nell’attribuzione di una “riserva di attività” in favore di un determinato gestore (quale anche l’attuale) ma vale, piuttosto, a precludere, in negativo, ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res (intesa nel suo complesso, come locali e arredi) nonché ad imporre, specularmente, in positivo, la continuità del suo uso attuale, cui la cosa è stata storicamente adibita (id est, nel caso di specie, lo svolgimento di un’attività di ristorazione aperta al pubblico con caratteristiche tradizionali della cucina italiana).

4.2 Va parimenti accolto, sempre sulla scorta della piana applicazione dei principi di diritto elaborati dalla Adunanza plenaria, il terzo motivo dell’appello principale.

Il T.A.R. ha, in particolare, errato nel ritenere fondato il terzo motivo del ricorso di primo grado con cui Atlantica Properties S.p.A. aveva dedotto la violazione dell’art. 7-bis del d.lgs. n. 42 del 2004.

Il Supremo Consesso (punto 4.5 della motivazione in diritto) ha, infatti, chiarito, con articolate argomentazioni a cui per sinteticità si rinvia, che “il procedimento di candidatura dei siti UNESCO non coincide necessariamente con l’azione di salvaguardia che il Ministero della Cultura è tenuto a svolgere sul territorio italiano, ove ritenga sussistenti i presupposti previsti dal Codice dei beni culturali, e che i provvedimenti di tutela di cui all’art. 7 bis cit. non impongono l’attivazione delle candidature, rilevanti per l’UNESCO”.

Ciò che, più propriamente, rileva ai fini dell’attivazione della tutela ex art. 7-bis del d.lgs. n. 42 del 2004 è che, in linea con la definizione di “patrimonio culturale immateriale” di cui all’art. 2 della Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003, il “bene culturale viene così ad assumere una particolare valenza identitaria per una determinata comunità, nazionale o locale, veicolandola nella contemporaneità, in una linea ininterrotta tra passato e presente, per effetto della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza” (così al punto 4.8 della più volte citata decisione dell’Adunanza plenaria).

4.3 Deve essere, in ultimo, accolto anche il secondo motivo dell’appello principale (che esprime doglianze in larga parte sovrapponibili a quelle articolate anche a mezzo dell’unico motivo dell’appello incidentale).

La sentenza di primo grado merita, in particolare, riforma anche nella parte in cui la stessa ha negato la “rispondenza dell’esercizio in parola a quei caratteri di rappresentatività e rarità che sono necessari per assoggettare a vincolo un bene culturale anche di tipo immobile”.

Ritiene, infatti, il Collegio che, nel caso di specie, il Ministero della Cultura, nell’apporre il suddetto vincolo di destinazione d’uso ai sensi degli artt. 20 e 7-bis del d.lgs. n. 42 del 2004, abbia fatto buon uso dell’ampia discrezionalità tecnico-valutativa riconosciutagli dalla legge, dandone, ad esito di un’adeguata istruttoria, congrua motivazione nel provvedimento impugnato in primo grado.

Va, in prima battuta, premesso che, come pure affermato nella decisione n. 5 del 2023 dell’Adunanza plenaria, “Il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità”, sicché detta valutazione “può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere l'inattendibilità della valutazione tecnica compiuta”.

Ebbene, fermi i limiti appena tracciati al sindacato giudiziale, il provvedimento impugnato in primo grado ha dato piena ed analitica contezza della relazione esistente tra il bene (composto dall’immobile adibito a ristorante e dai suoi arredi, tutti beni già oggetto di tutela diretta) con importanti fatti culturali (ancorché non collegati a specifici avvenimenti storici), evidenziando, al contempo, la necessità di mantenerne l’uso per preservarne il valore di testimonianza di un’identità culturale collettiva.

Ciò emerge, in particolare, dalla relazione storico-critica allegata al decreto.

In essa si attesta la valenza del locale come punto di riferimento della “Dolce Vita” romana del secondo dopoguerra, ormai entrato nell’immaginario mondiale.

Più segnatamente, la relazione attesta, ad esito di un’indagine tecnico-scientifica di carattere demoetnoantropologico, che il ristorante “Il Vero Alfredo”, al di là dell’intrinseco valore artistico e culturale della sua struttura e degli arredi e opere artistiche ivi contenute, è divenuto, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso (e, quindi, da un non trascurabile lasso di tempo), luogo di convivialità (anche goliardica) e incontro tra personalità di spicco italiane e straniere (come pure comprovato dal vincolo già apposto sul libro firme del locale).

Proprio questa specificità messa in risalto dal provvedimento vale, insieme agli aspetti di pregio squisitamente artistico-architettonico del locale in sé considerato quale esempio dell’architettura funzionalista di Vittorio Ballio Morpurgo (e legati anche alla presenza, al suo interno, di opere appartenenti alla fase della scultura simbolista e dell’Art Deco di Romano Mazzini), a distinguere, in maniera del tutto ragionevole, il “Vero Alfredo” dagli altri locali tradizionali del centro storico di Roma, così giustificando l’apposizione su di esso, in aggiunta a quelli esistenti sui singoli beni che lo compongono, di un vincolo di destinazione d’uso nei termini in cui si è detto al precedente punto 4.

In questo senso, il Collegio ritiene, peraltro, che il vincolo in parola appaia rispettoso del canone della proporzionalità, atteso che la tutela già offerta separatamente e partitamente ai singoli beni che compongono il locale (la sua struttura, gli arredi, le sculture, il libro firme) sarebbe insufficiente ad evitare che il locale smarrisca il suo valore di testimonianza fisica di una pratica collettiva.

4.4 Non colgono, poi, nel segno, neppure le deduzioni svolte sul punto dalla difesa nelle ultime memorie (anche di replica) ex art. 73 c.p.a. di Edizione Property S.p.A..

Nel dettaglio non può condividersi il rilievo secondo cui il Ministero sarebbe incorso in un difetto di istruttoria e di motivazione nel ritenere, in seno al provvedimento impugnato, che il bene in questione abbia un valore culturale identitario per la comunità cittadina di Roma. Sarebbe mancato, ad avviso di parte appellata, una consultazione specifica delle associazioni cittadine volta a stabilire, attraverso un approccio di tipo bottom-up, se, effettivamente, la comunità cittadina identifica il ristorante di cui trattasi come un’espressione della romanità.

Dette considerazioni non paiono condivisibili, atteso che il riferimento alle “espressioni d’identità culturale collettiva” contenuto nel provvedimento di vincolo non va letto, anche alla luce delle indicazioni della Plenaria, nel senso angusto suggerito dalla difesa di Edizione Property S.p.A. come riferito alla sola comunità romana nel modo in cui la stessa si percepisce, ma in senso più ampio di come la cultura ed il costume italiano (e romano) di un certo periodo storico (coincidente con la “Dolce Vita”) sono rappresentati a livello nazionale e all’estero (“la notorietà all’estero” e “la fama già consolidata in Europa e negli Stati Uniti” di cui si parla a pag. 7 della relazione storico-critica allegata al decreto, aspetto sul quale non si sono, invero, appuntate le doglianze svolte in primo grado avverso il provvedimento ministeriale impugnato).

Parimenti fuori fuoco è, in ultimo, la deduzione secondo cui mancherebbe nel provvedimento gravato in primo grado un “motivato vincolo relazionale” tra il bene di cui trattasi ed un evento storico/culturale preciso e rilevante.

E, infatti, il concetto stesso di “Espressioni di identità culturale collettiva”, impiegato dal più volte richiamato art. 7-bis del d.lgs. n. 42 del 2004, non evoca siffatta necessità, ben potendosi avere una forma di manifestazione di identità collettiva che sia legata ad una pratica più che al verificarsi di uno specifico episodio. Del resto sono le stesse Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005 cui espressamente rinvia il citato art. 7-bis, a definire in tal senso, all’art. 2, comma 1, “patrimonio culturale immateriale” le “prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.

4.5 L’accertata fondatezza delle suddette doglianze esonera, peraltro, dallo scrutinio del quarto ed ultimo motivo dell’appello principale, che può essere assorbito.

5. Per le ragioni sopra esposte, meritano accoglimento tanto l’appello principale proposto da L’Originale Alfredo all’Augusteo S.r.l. quanto l’appello incidentale proposto dal Ministero della Cultura.

5.1 Per l‘effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso di primo grado proposto da Atlantica S.p.A..

6. Sussistono nondimeno, anche in ragione della novità e complessità delle questioni affrontate, giustificati motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti:

- accoglie l’appello principale proposto da L'Originale Alfredo All'Augusteo S.r.l. e l’appello incidentale proposto dal Ministero della Cultura;

- per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado proposto da Atlantica S.p.A..

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 maggio 2023 con l'intervento dei magistrati:

Carmine Volpe, Presidente

Roberto Caponigro, Consigliere

Giovanni Gallone, Consigliere, Estensore

Marco Poppi, Consigliere

Roberta Ravasio, Consigliere