Il NUOVO MODELLO DI SVILUPPO URBANO SOSTENIBILE NELL’ERA DELLA CRISI PETROLIFERA
(L. Fanizzi - ECOACQUE)
L’intera struttura dell’economia mondiale dipende dal prezzo del petrolio e dalla sua disponibilità e, dunque, oggi più che mai, è necessario analizzare il delicato rapporto tra energia e sviluppo economico sostenibile. Non è poi così difficile, aiutati dall’odierna possibilità matematica di prevedere l’andamento dei prezzi, dell’ultimo decennio, immaginare cosa possa accadere al termine della recessione economico-finanziaria in corso.
Assisteremo, impotenti, ad un aumento del petrolio fino ai 200 e più dollari al barile. Circostanza, questa, che renderà insostenibili i costi del commercio globale e che ci costringerà a cambiare profondamente il nostro stile di vita. Secondo l’economista canadese Jeff Rubin (in “Che fine ha fatto il petrolio”; Ed. Elliot, 2010) “il mondo sta per (ri)diventare più piccolo, molto, molto più piccolo”. Orbene, se la soluzione, in passato, è stata sempre rappresentata da un nuovo approvvigionamento di greggio a basso costo, senza mai nulla investire sulla ricerca di fonti energetiche alternative, nel futuro immediato non può più continuare ad essere così.
Ogni anno, infatti, la produzione giornaliera cala di 4 milioni di barili a causa dell’esaurimento delle risorse fossili e, attualmente, si estrae tre volte più “oro nero” di quanto non se ne scopra. Ecco, perché, in questo contesto è inevitabile un ulteriore aumento dei prezzi, già oggi sopra i 100 dollari al barile (lievitazione accelerata anche dalla crisi libica), legato alla crescita della domanda a fronte di un’offerta che rimarrà stagnante.
Nei prossimi anni, ineluttabilmente, accadranno eventi davvero inusuali. Vivremo, necessariamente, tanto per incominciare, e non per ragioni ideologiche, una mondanità più sobria e più locale, in cui guideremo di meno e cammineremo di più; in cui andremo a fare la spesa con più attenzione (ai prezzi, alla qualità dei prodotti ed alla freschezza dei prodotti) e lavoreremo più vicini alle nostre case (il 16 luglio 2002 è stato stipulato a Bruxelles l’accordo quadro sul telelavoro e l’Italia è stato il quinto Paese a recepirlo e, speriamo, non sia l’ultimo ad applicarlo), in cui si attenuerà la portata di problemi quali l’inquinamento ed il riscaldamento globale, in cui i lavoratori occidentali torneranno ad essere competitivi in quanto ci sarà una minore disponibilità di prodotti a buon mercato fabbricati dall’altra parte del mondo ed aumenteranno i costi produttivi e di trasporto.
Contestualmente, da un punto di vista urbanistico, saremo “condannati” a migliorare le nostre città, perché è inevitabile che continuino ad essere un bene comune, quindi, anche la condizione di attuale degrado urbano può solo migliorare.
La ricetta per un modello urbano sostenibile si dovrà basare su tre principi fondamentali: 1) occupare meno territorio possibile pensando ad una rete ecologica urbana, cioè ad un insieme di unità non costruite messe in relazione tra loro attraverso interventi di riqualificazione e di gestione, in grado di supportare biodiversità urbana e ricomporre il naturale sistema ecologico (si pensi a fabbriche dimesse, ruderi industriali, parchi ferroviari abbandonati, vecchie caserme, quartieri degradati, aree costiere fatiscenti, eccetera); 2) una buona copertura verde (>= 40 %) ai fini di una necessaria riduzione delle criticità idrauliche ed un conseguenziale aumento della stabilità idrogeologica dei suoli e 3) integrando le destinazioni d’uso quali abitazioni, esercizi commerciali, artigianali ed uffici.
Si tratta, quindi, di recuperare il concetto di “quartiere cittadino” con edifici che mescolino luoghi residenziali con, ai piani terreni, luoghi di lavoro, negozi, servizi e luoghi d’intrattenimento. Il tutto inframmezzato da piazze, giardini ed isole verdi (orti urbani d’autoproduzione compresi). E’ un approccio nuovo, questo, che eliminando i poli attrattivi esterni, oggi in voga nelle cosiddette città estese (centri commerciali, ipermercati, multisale cinematografiche, outlet, eccetera), ridurrebbe la domanda di spostamento motorizzato e favorirebbe quello pedonale e ciclabile ossia quello collettivo, così più efficienti, stante la maggiore densità abitativa. Insomma costituirebbe un contesto nel quale l’automobile sarebbe relegata nelle zone perimetrali del quartiere per utilizzarla soltanto per le destinazioni non raggiungibili in pullman, treno od aereo.
La riduzione nell’impiego delle auto si tradurrebbe in minore dipendenza dal petrolio, riduzione dei costi sociali ed inferiori emissioni di gas serra ed inquinanti (particolati e non). Benefici ambientali arriverebbero dall’impiego di materiali di produzione locale e dall’incremento delle aree a verde. Un fattore, quest'ultimo, che favorirebbe la ricompetitività dei nostri prodotti agricoli ed artigianali e, quindi, l’agriturismo ed alimenti a chilometro zero, rappresenterebbero un’altissima qualità di vita (carni e pesce di animali allevati ovvero pescati localmente).
Un tale modello di sviluppo migliorerebbe, oltre l’ambiente, anche la socialità e la sicurezza, merito dell’integrazione delle destinazioni d’uso e della presenza di locali pubblici di quartiere che aumenterebbero momenti di aggregazione e rendendo le strade più affollate e, di conseguenza, più presidiate. Insomma si farebbe di necessità virtù ricostruendo la città secondo un perfetto equilibrio di Nash ossia secondo un modello di vivibilità sostenibile dove “tutti vincono e nessuno perde”.
Un nuovo modello urbano sostenibile nell'era della crisi
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Luigi FANIZZI
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